di Giovanni Falcetta
Già Sigmund Freud, nella sua opera Il disagio della civiltà (Das Unbehagen in der Kultur) individuava nel progresso la fonte principale della infelicità umana. L’evoluzione sociale, secondo questa teoria (al pari della precedente, analoga, di Jean Jacques Rousseau), reprimendo la spontaneità degli istinti, crea l’alienazione e, quindi, la sofferenza. D’altra parte, però, l’uomo non può sfuggire al suo destino storico di artefice di condizioni più evolute di vita sociale (homo faber) che lo affranchino dalla fatica fisica, dalla carenza alimentare, da condizioni esistenziali meno soggette alle imprevedibili variabili della natura. Il problema, allora, è quello di conciliare istinto e ragione, cultura e natura, un tentativo, questo, di non facile realizzazione. In tale contesto, il gioco e il giocattolo possono avere una fondamentale funzione liberatoria e conoscitiva non solo per i bambini ma anche per gli adulti.
Diciamo, “possono avere” perché esistono sempre rischi di manipolazione e di condizionamento negativo legati agli interessi commerciali e pubblicitari dell’industria del settore o, talora, in certi Paesi, rischi connessi a poco nobili fini di indottrinamento politico da parte di istituzioni totalitarie. Particolarmente nelle dittature, infatti, i bambini, sin dall’infanzia (pensiamo al Fascismo, al Nazismo o, ancora, ai Paesi comunisti) vengono indotti a familiarizzare con finte armi, come fucili, pugnali, carri armati, aerei da combattimento e altri consimili strumenti simbolo di morte non per attività ludiche disinteressate ma per preparare i soldati adulti del futuro necessari per la guerra. Purtroppo, tale induzione alla violenza e alla morte ha contagiato anche i Paesi cosiddetti democratici, perché, anche in essi, sussiste, a livello apparentemente ludico, l’usanza di regalare armi-giocattolo ai bambini, con l’intenzione, più o meno inconscia, di addestrarli all’aggressione verso i loro simili. È, questo, un processo manipolatorio dell’infanzia che si tramanda, da secoli, ereditariamente, tramite l’imprinting storico-generazionale, e, finora, sembra ineliminabile dalla coscienza umana. Pensiamo anche alle testimonianze di soldati che hanno dichiarato di aver provato piacere e gioia nell’uccidere i soldati loro “nemici”.
Secondo alcuni studiosi, Freud in testa, il gioco e il giocattolo, specie quelli di natura apparentemente aggressivi, proprio perché usati “per finta”, permetterebbero la sublimazione dell’aggressività umana, rendendola compatibile con il vivere “sociale”. La stessa funzione avrebbero anche le arti, sia quelle figurative, scultura, pittura e architettura, cinema, sia quelle teatrali, come la danza, il teatro, in tutte le loro molteplici forme e realizzazioni storiche e geografiche. Ma il gioco e il giocattolo, assieme alle arti, rappresentano, anche, una specie di “rito di iniziazione alla vita reale”, sia del bambino che dell’adulto. Nel gioco, i bambini “facendo finta di usare una locomotiva”, ad esempio, o un aereo, o un’automobile, indossando una tuta da meccanico, “fingendo” di adoperare chiavi inglesi, cacciaviti, etc., guidando manualmente o con un telecomando, un treno, indossando un’uniforme militare, un grembiule da calzolaio, e usandone anche gli strumenti (martello, cuoio, etc.) “imparano a vivere la vita reale”, senza doverne subire gli aspetti più dolorosi, come la coercizione economica o la subordinazione ad un padrone. Anche lo sport, come è noto, è un gioco.
Alcuni sport ci permettono di misurare e valutare le nostre potenzialità psicofisiche individuali (come il salto in alto, il salto in lungo, l’ascesa della pertica, il tiro con l’arco, il lancio del disco o del giavellotto); altri giochi, con due o più giocatori in competizione, oltre a permetterci tali verifiche, ci aiutano a socializzare con i nostri simili, pacificamente, come in una “finta guerra” senza armi offensive, anche perché tutti i giocatori sono tenuti a rispettare le “regole” specifiche di ogni gioco. In questo modo anche gli sport, secondo la psicoanalisi, ci permettono di “sublimare” la nostra atavica aggressività, cioè di renderla innocua e accettabile socialmente. Ci riferiamo al gioco del calcio, della pallavolo, della pallacanestro, del pugilato, alle gare di nuoto in piscina, allo stesso “gioco della guerra” dei bambini o al “gioco della guerra” dei soldati in addestramento.
Tornando al giocattolo, possiamo ancora aggiungere che esso ci permette, usandolo, la “manipolazione degli oggetti” di vario aspetto, di varia consistenza fisica, di vario significato sociale. E, in tal modo, l’essere umano, in un certo senso, sperimenta simbolicamente il dominio di sé sul mondo esterno che non gli fa più paura, perché esso viene “incorporato in lui”.
Con il gioco e il giocattolo, o “giocando con il giocattolo” (ci si permetta questo apparente “gioco di parole”), il bambino, ma, possiamo dire, anche, l’uomo tout court, costruisce progressivamente la sua identità come individuo ma, anche, come essere sociale, come appartenente ad una comunità i cui membri interagiscono tra loro, scambiandosi sentimenti, oggetti, servizi, doni e tanto altro.
Il bambino che imita il padre macchinista delle ferrovie, utilizzando come locomotiva una sedia o, se la possiede, una locomotiva di latta, con i vagoni agganciati, si identifica con il ruolo sociale del genitore, immagina che, da adulto, sarà, forse, anch’egli un macchinista. Ma questa identificazione, lo sappiamo per esperienza, non è mai rigida o definitiva. Egli spesso cambia ruolo, riveste i panni di altre persone a lui affettivamente vicine, lo zio contadino, il cugino adulto marinaio, il vicino di casa autista di autobus. Attraverso lo sperimentare le varie identità degli altri, usando gli oggetti che gli altri usano normalmente nel loro lavoro, egli struttura il suo “io”. Infine, il giocattolo, inscindibilmente legato al gioco, ci permette anche, di “sognare ad occhi aperti”, talora di immaginare con la fantasia mondi inesistenti, o probabili o desiderabili.
È indubbio che, come per altri aspetti della vita, anche la storia del giocattolo può fornirci utili informazioni sulla storia dell’Umanità e dei popoli. Per l’epoca preistorica, ovviamente, non si hanno documenti scritti ma essa ci ha tramandato numerose pitture rupestri presenti in varie grotte di ogni continente. In alcune di esse, ad esempio, vengono raffigurate una battuta di caccia al cinghiale, individuale o collettiva, dei cavalli in una prateria, dei pesci, un cacciatore che lancia una freccia contro un daino, etc. Tali rappresentazioni non solo hanno un valore in un certo senso “storiografico” ma, secondo alcuni studiosi, anche una funzione magico-propiziatoria finalizzata a favorire la caccia. In un certo senso, anche, di tentativo “fittizio” di dominio simbolico dell’uomo sulla natura e di compensazione delle paure che essa gli induce nella realtà.
Anche l’uomo primitivo “giocava”, insomma, immaginando realtà da lui temute o da lui desiderate. Ma una cosa sembra assodata. Il giocattolo per il bambino e per l’adulto primitivo non doveva avere certamente tutte le funzioni che esso ha per il bambino e per l’adulto di oggi. Nella mitologia troviamo spesso notizie sui giochi relativi all’infanzia degli déi. Alcuni studiosi pensano che si siano inventati i primi giocattoli per allietare il dio Bacco. Clemente di Alessandria e Nomus il Panopolitano ci parlano di Mystis e di Ino che regalano a Bacco fanciullo un tamburo, cimbali, aliossi e una trottola. Apollonio ci riferisce di una palla donata da Venere ad Amore, un giocattolo spesso rappresentato su oggetti antichi. Nelle tombe si son trovati, accanto ad altri oggetti, anche dei giocattoli destinati ad accompagnare la vita ultraterrena del defunto. Nelle tombe cristiane troviamo i giocattoli assieme alle reliquie sacre. Notizie preziose sui giocattoli dell’epoca greca e romana si son trovate nei bassorilievi, nelle pitture parietali e su vasi, in figurine di osso e terrecotte con scene ludiche.
I giocattoli erano spesso costruiti dagli stessi bambini o dai genitori. Ma c’erano già, ad Atene e a Roma, gli artigiani del giocattolo che usavano il legno, la cera, l’osso, l’argilla e, talora, il piombo e il bronzo. Molto noto era un sonaglio a forma di uccello o di tartaruga. Ma il giocattolo più di frequente trovato nelle tombe è una specie di raganella, di nàcchere. L’usanza dei giocattoli rumorosi fu importata dall’Asia e dall’Egitto perché si credeva che col rumore venissero allontanati gli spiriti maligni. C’erano poi delle carrette con una lunga stanga sulla quale montavano i bambini fingendo di essere a cavallo, e poi palle, trottole, cerchi, bambole e guerrieri. Superata l’infanzia i giocattoli venivano consacrati agli déi. Altri giocattoli erano le maschere e le riproduzioni di animali e persone. Era noto anche il burattino. Ne troviamo notizia in parecchi scrittori egiziani, greci, romani. Molto interessante sarebbe lo studio del giocattolo popolare ma non è di facile realizzazione non solo perché non è più molto in uso ma anche perché era il prodotto di piccoli artigiani e restava limitato nella sua diffusione al paese o addirittura alla contrada in cui essi vivevano.
Solo in alcuni rari casi si possono trovare degli esemplari come, ad esempio, i giocattoli e i presepi di legno della Val Gardena, del Napoletano e della Sicilia, in Italia, o gli oggetti del Giura in Francia o quelli di talune zone montane austriache e tedesche o la famosa matrioska della Russia. Ben presto, infatti, le fabbriche artigianali si industrializzarono producendo giocattoli folcloristici costruiti su catene di montaggio. Alcuni esemplari di giocattolo popolare sono ora esposti al Musée des Arts et Traditions populaires di Parigi e nei Musei di Norimberga, di Rotterdam, al Rijksmuseum di Amsterdam. Uno studio a parte meriterebbe il presepe la cui origine si fa risalire a San Francesco d’Assisi, a Greccio, un paese vicino Roma nel sec. XIII. Furono i domenicani a propagandarlo e, dopo, i gesuiti che lo esportarono fuori d’Italia nel 1555. Nel ’400 nascono i primi grandi presepi artistici come quello del Duomo di Volterra e quello di Modena.
Il primo artista di cui si ha notizia è Guido Mazzoni. Ma è nel ’600 e nel ’700 che si assiste ad un’ampia diffusione dovuta soprattutto al padre domenicano Rocco. Nacque allora il grande presepe napoletano con la sua specificità che è quella di avere come protagonisti i popolani. Le figure inizialmente erano solo di legno ma poi diventano o di terracotta e legno, o di vetro, e non mancheranno, in seguito, altri materiali come l’oro, l’argento, il corallo, la cera, la carta verniciata, la mollica di pane. Nel ’700 l’usanza dei grandi presepi da Napoli si diffuse nella Spagna, poi nel Portogallo, in Provenza e in tutti i Paesi cattolici europei ed extraeuropei. Inoltre, anche i presepi risentono del gusto scenografico del ’600 e del ’700. In Polonia, ad esempio, si producono presepi detti “Scopa” che sono dei veri e propri teatrini. Sempre nell’ambito della storia del giocattolo si può inserire l’Albero di Natale. La prima idea è nata a Roma ed è attribuita a Papa Libero, nel IV secolo. La riprese, alla fine del ’700, un mercante di Berlino e, un secolo dopo, Carolina di Brunschwig che attaccò all’albero dei dolci e le prime carte colorate.
È interessante, inoltre, seguire l’evoluzione della bambola attraverso le varie epoche. Quelle più raffinate risalgono al XIX secolo. Si possono però trovare fabbricanti di bambole e bambole anche in stampe del XVIII secolo. In Germania si hanno esemplari nel XVI secolo ma sono manichini conici senza braccia e gambe. Nel Rinascimento le bambole sono rudimentali. La materia varia dalla cera al piombo, dal legno al cartone, dalla porcellana alla pelle. Lo stampo compare dopo il Medioevo. Le bambole di queste epoche sono rigide e si fanno apprezzare solo per l’eccessiva ricercatezza e raffinatezza degli abiti. Perciò tali oggetti hanno importanza più come documenti della moda del tempo che come giocattoli. Queste bambole sono solo dei pezzi di legno fissati su di un piedistallo. Successivamente, nel 1815, compaiono bambole meglio costruite con un aspetto più umano. Nel 1823 si hanno le bambole parlanti dovute al meccanico Maélzel, perfezionate, poi, nel 1857, dal meccanico Cruchet.
Le bambole camminarono nel 1826. Un particolare primato nella produzione di questi giocattoli ebbero le fabbriche tedesche. Infine, nel sec. XVII, in Olanda e in Germania, ad Amburgo e a Norimberga, si produssero le “Case di Bambola”, con scopi didascalici, servivano, cioè, per l’educazione delle fanciulle. Per i maschi il giocattolo più usato, sin dall’antichità, in certe civiltà, fu l’arma per preparare il futuro soldato. Ma più delle armi fu importante il cavallo. Il primo cavallo costruito con criteri moderni è del XIII secolo. Il tipo più semplice di cavallo usato dai bambini, comunque, è il cavallo-bastone, noto già agli antichi. Lo possiamo trovare anche in una incisione del XVI secolo. Oltre al cavallo-bastone ci fu il cavallo in legno che rispecchiava l’anatomia naturale. Spesso questi cavalli erano a rotelle. Ci fu poi il cavallo a dondolo, e quello in cartone e in cartapesta. Per la maggior parte tali esemplari erano fabbricati a Sonnenberg, vicino Norimberga.
Ci furono poi soldatini di cartone prima e, poi, di stagno, e i soldatini di piombo inventati nel XVIII secolo dall’artigiano Jean George Hilpert all’epoca di Federico il Grande e di Luigi XV. Anche i soldatini furono per lungo tempo fabbricati a Norimberga. Un altro giocattolo molto in voga è stata la nave. Le prime collezioni risalgono al XVI secolo e se ne trovano anche in argento dorato. Nel XVIII secolo le navi furono costruite in piombo a Norimberga. Un altro giocattolo molto apprezzato dai bambini è il treno che risale al secolo XIX. Il primo treno-giocattolo risale al 1835. Una ditta tedesca di Erfurt costruì per prima ed esportò il treno-giocattolo. Negli anni immediatamente precedenti la Prima guerra mondiale apparve l’invenzione del meccano.
Si può comunque dire che è con la Rivoluzione industriale e la relativa produzione in serie che il giocattolo, soprattutto di latta, raggiunge la sua massima diffusione. Le ditte più famose furono, per esempio, nella produzione di giocattoli azionati dal vapore, la Ernest Plank (nata nel 1866, celebre anche per le lanterne magiche), la Schonner (dal 1875) che lavorò anche per altre ditte, la Marklin (nata nel 1859 e ancora attiva. Ci furono anche la Binge e la Gunthermann specializzate in treni, automobili e navi.
La Lehemann di Branderburgo è famosa per l’eccezionale fantasia dei suoi giocattoli. Una produzione raffinata è quella della Carrette che, dal 1866 al 1914, costruì treni, automobili e navi. Nel 1912 nascono la Tipp & Co. e la Schuco tedesca, celebri negli anni ’30, la prima per i mezzi militari, la seconda per pupazzi e automobili. Le più importanti ditte francesi verso la fine del XIX secolo furono la G. Vichy che costruì giocattoli straordinari come le auto di latta con personaggi di porcellana, la SIF (Societé Industrielle de Ferblanterie) e la Charles Rossignol con soldatini di latta e auto. In Italia, solo nel primo dopoguerra, si ha una produzione massiccia di giocattoli. Le ditte da ricordare sono la INGAP, nata a Padova nel 1919, che costruì molti giocattoli in latta litografata, auto di grandi dimensioni con fanali a pila, secchielli da spiaggia, cucine, soldatini di latta. Un’altra ditta, nata nel 1922 a Omegna, è la Cardini. Ce ne sono poi molte di minore importanza. Immediatamente prima del secondo conflitto mondiale nascono i giocattoli militaristi in Germania e in Italia, azionati con l’elettricità. Nel secondo dopoguerra al giocattolo militare subentra il giocattolo di fantasia, le auto ispirate ai modelli lussuosi dell’America, gru e pupazzi. Negli anni ’50 e ’60 compaiono i giocattoli spaziali e i robot dovuti, soprattutto, alle fabbriche giapponesi. Il giocattolo allora diviene più spesso di plastica e oggi si avvale degli ultimi ritrovati dell’elettronica.
Dialoghi Mediterranei, n.15, settembre 2015
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Giovanni Falcetta, già insegnante di materie letterarie, è stato lettore di Lingua, letteratura e cultura italiana, presso il Dipartimento di Scienze linguistiche dell’Università di Tirana, dal 1999 al 2002, e presso la Facoltà di Filosofia dell’Università di Pula (Croazia), dal 2002 al 2006. Ha svolto alcuni progetti di ricerca, nell’ambito della Storia contemporanea, presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” e presso l’Università degli Studi di Pavia. Ha tradotto diversi classici della letteratura di viaggio, tra i quali si segnala: Charles Didier, La questione siciliana, Novecento, Palermo 1991.
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