Piuttosto che una conversione alla religione di Allah, il jihadismo è un processo che porta l’individuo al compimento di ciò che noi chiamiamo “identità al negativo”. Con questa definizione, ci riferiamo ad un’operazione che vede l’incrocio di due elementi: l’abdicazione del pensiero critico in favore della adesione totalizzante ad un’ideologia. Tale processo colma la mancanza di un’identità sana, ovvero quella propria di una persona che ha superato la fase narcisistica dell’infanzia. Esso non giunge necessariamente al jihadismo; può infatti rimanere latente, com’è il caso di certi soggetti psicotici la cui psicosi non giunge mai a manifestarsi [1].
L’elemento che fa scattare questo passaggio verso l’adesione totalizzante all’ideologia jihadista è la vendetta, in questo caso quella legata all’ “ideale ferito musulmano” definito dallo psicoanalista Fethi Benslama. Quest’ultimo afferma che «lungi dall’appartenere al passato o a un qualunque ritorno integrale della religione, l’ideologia dell’islamismo è l’espressione moderna della decomposizione dell’istituzione religiosa e di una nuova composizione ideologica, un nuovo mito indentitario» [2]. Per questo motivo pensiamo che il cuore della radicalizzazione non sia da cercare nell’Islam ma, piuttosto, nei meccanismi psichici che possono trasformarlo in fanatismo distruttivo.
Una vendetta che si vede legittimata
Il nostro contributo si articola attorno all’analisi di un video di propaganda jihadista postato in lingua originale (arabo) e messo on-line il 12 marzo 2013 dalla società di produzione al-Manārah al-Baydā’ (Il faro bianco) di Jabhat al-Nuṣra. Quest’ultimo è un blocco armato di ideologia salafiti-jihadista, creato nel 2012 da al-Jawlani e diventato uno dei più importanti gruppi ribelli contro il regime siriano. Jabhat al-Nuṣra possiede una strategia di comunicazione sempre più elaborata: la sua propaganda si articola attorno a un discorso di opposizione al regime di Bashar al-Assad e dei suoi alleati occidentali, con l’obiettivo di apparire come l’unico gruppo capace di ristabilire la giustizia e la dignità nelle terre del Levante, grazie anzitutto alla vittoria sui suoi tiranni attraverso la jihad e, in seguito, all’imposizione della Sharia.
Decimo di una serie dedicata specificatamente alla ‘Amaliyya istišhâdiyya [3 ] (operazione-martirio), il video – della durata di 11 minuti – si apre con la frase «bismi Allah ar-Rahman ar-Rahîm» (nel nome di Dio, Clemente e Misericordioso), formula che introduce tutte le sure del Corano. Esso è il primo di tutta una successione di elogi rivolti a Dio e di versetti coranici, i quali – come vedremo – occupano un posto molto importante nell’insieme del video in questione.
L’uso della retorica religiosa ha come obiettivo quello di legittimare l’atto filmato come ad indicare che ciò che osserviamo (l’operazione-martirio) è scritta nel Corano stesso, che fa parte dell’Islam, che è voluto da Dio. Di conseguenza, è giustificato se non addirittura bramato: l’Islam è messo a servizio della costruzione di una nuova identità che beneficerebbe di una legittimità sacra [4].
In seguito, si susseguono immagini di esplosioni provocate dal regime siriano in diverse città (Idleb, Damasco, Hama e Aleppo) accompagnate da un “inno alla guerra”: una musica ritmata e ripetitiva. Si tratta di un našîd, canto poetico senza accompagnamento musicale, adattato alla causa jihadista. Il musicologo Luis Velasco-Pufleau dimostra l’importanza dei anâšîd nella creazione di una “cultura del jihad”. Infatti, essi «possono divenire i simboli collettivi di una “comunità immaginaria” dei jihadisti, commemorare i martiri, costruire una memoria o un immaginario comune, regolare le emozioni dei combattenti o riutilizzare la violenza»[5].
La cadenza rituale di questo canto polifonico suggerisce il carattere “sacro” delle parole e delle immagini che le accompagnano. Infatti, gli elementi visivi e uditivi hanno come obiettivo di suscitare una forma di eccitazione sensoriale negli spettatori, di mobilitarne la dimensione affettiva. Tutte le scelte della composizione del video sono messe al servizio di uno scopo preciso: quello di persuadere il pubblico della giustezza della causa e di esortarlo a prendervi parte.
Segue il titolo Bidâyat an-Nihâya 10 (l’inizio della fine [episodio numero 10]) e, poi, un sotto-titolo su sfondo nero: «La più grande operazione-martirio in Siria, con un camion caricato di 20 tonnellate di esplosivo; battaglia per la vendetta delle nostre famiglie di ‘Albah et de al-Haṣawiyya. In queste due città, il regime ha ucciso centinaia di musulmani. Operazione-martirio, caserma militare per l’allenamento, piccola città di Homs».
La sequenza dominante è quella che mostra il protagonista della futura azione di suicidio-omicidio mentre spiega le ragioni del suo atto e legge i testamenti che sono rivolti alla sua famiglia e a tutti i musulmani. Egli è filmato all’esterno, seduto su un letto basso in uno spazio neutro, ambientazione che invita lo spettatore a concentrarsi sulle sue dichiarazioni lette a voce alta. La nostra attenzione si può focalizzare solo sulla bandiera di Jabhat al-Nosra, simbolo di un ideale condiviso.Un’altra parte particolarmente importante è quella in cui il “martire” saluta i suoi compagni: dopo la benedizione da parte dell’intervistatore, un minuto sarà interamente dedicato agli abbracci.
L’efficacia del video è data dalla combinazione di tre registri differenti che conferiscono all’operazione-martirio un’impressione di logica, di giustificazione, di ineluttabilità, di verità: la volontà di Dio; il paradigma della guerra che permette tutto; la dimensione comunitaria del gruppo che condivide la stessa ideologia. Inoltre, il video-maker padroneggia molto bene gli strumenti della comunicazione, alternando le due dimensioni costitutive dell’essere umano: la parte razionale e la parte inconscia.
La credenza si situa nel primo registro; infatti, quando il protagonista parla di Dio, della Sua parola e della Sua volontà è estremamente serio, fermo e razionale. Al contrario, quando egli parla con i suoi amici (dimensione reale, terrena), si percepisce un’atmosfera sentimentale e affettiva, sottolineata da un našîd malinconico.
Porre il razionale sull’affettivo (credenza) e l’affettivo sul fattuale (realtà) è una delle strategie di manipolazione utilizzate in questa propaganda: il messaggio che viene espresso è che è normale essere tristi nel perdere un amico, un fratello, un figlio ma, se si supera questo limite umano, si arriva alla vera felicità, quella propria al divino.
L’effetto placebo dell’aldilà
Da un punto di vista strutturale e semantico, certi concetti espressi dal protagonista sono più significativi di altri. Si tratta di parole che veicolano delle nozioni ricorrenti dall’inizio alla fine del video. Alcune, in particolare, sono talmente ripetute che sembra di sentire la recitazione di un mantra. È il caso della parola Allah (Dio/Signore), presente più di 50 volte. Questa ripetizione sembra avere una doppia funzione: quella di auto-convinzione per il protagonista che si persuade così della bontà della propria azione e quella di mantra che immerge il pubblico nella dimensione mistica della missione.
Un’altra nozione da sottolineare è quella di al-janna (il Paradiso) alla quale ne sono legate altre. Assistiamo alla forte convinzione dell’aldilà, poiché è Dio a prometterlo nel Corano. Questa profonda credenza permette di avere il coraggio di perdere la propria vita perchè non si tratta di una vera morte ma, al contrario, dell’accesso alla vera vita.
Il mujâhid (colui che porta avanti il combattimento della jihad) si appoggia sulla persuasione di essere un šahîd (martire), altra parola fondamentale. Nel Corano si trovano delle sure come la seguente: «E non dite di coloro che son stati uccisi sul la via di Dio: “son morti”. No! Che anzi essi sono viventi, senza che voi li sentiate» (Corano : II, 154).
Il dettaglio sul quale adesso bisogna fermarsi è che ciò che nella storia dell’Islam era un vero sacrificio, ovvero la decisione estrema di farsi uccidere piuttosto che di abiurare, diventa oggi una scelta premeditata – un suicidio –, strategia che prevede anche l’omicidio. Nella tradizione dell’Islam il suicidio è assolutamente vietato; l’esistenza umana è infatti considerata sacra, come si può leggere più volte nel Corano (XVII, XXX et passim), poichè la vita fa parte della creazione: è il dono più importante che Dio ha fatto all’uomo.
Il suicidio quindi è condannato poiché, anticipando la decisione di Dio, si contravviene al Suo disegno [6]. Provocare la propria morte sarebbe come negare il fatto che l’esistenza è figlia della volontà di Dio e attribuire all’uomo il potere su quest’ultima, mentre «non è possibile che alcuno muoia altro che col permesso di Dio stabilito e scritto a termine fisso» (Corano: III, 145).
Il termine “martire” ha dunque acquisito un nuovo significato: in questo senso, come suggerisce lo psicoanalista F. Benslama, «vi è la sovversione della tradizione, poiché il martire non è più subordinato al combattimento (jihad) ma viceversa» [7].
Il protagonista del video insiste più volte sul fatto che bisogna essere pazienti e pii; egli invita ad agire e a non essere deboli, ad essere un vero uomo, o meglio, un vero musulmano. Ritroviamo qui il concetto di “surmusulmano” proposto da F. Benslama, ovvero la «posizione soggettiva nella quale un musulmano è tenuto a superare il suo essere musulmano attraverso la rappresentazione di un musulmano che dev’essere ancora più musulmano» [8]. In questo concetto vi è il desiderio di affermazione come uomo virile, come cavaliere della fede in possesso del potere divino; come suggerisce il sociologo F. Khosrokhavard, «la versione violenta dell’Islam diventa, in questa prospettiva, l’Islam virile» [9].
Il surmusulmano sarebbe quindi un ideale di super-uomo che capovolge lo scopo della vita facendo confluire in un unico obiettivo – la sua morte e quella dei suoi nemici – il senso della sua esistenza. Un’altra ripetizione importante (20 volte) è quella dell’aggettivo “onnipotente” rivolto a Dio ma di cui il mujâhid si appropria in quanto suo servitore.
Assistiamo allora ad un delirio di grandezza: il soggetto si illude di essere un eroe investito del compito di decidere il proprio destino e quello degli altri. Egli si ritrova in uno stato di grande narcisismo, le cui conseguenze saranno magnificate dai media, arrivando a trasformare l’odio per l’altro in un’identità superiore: diventa, come dice il sociologo F. Khosrokhavard, una star negativa.
Per riassumere questa megalomania utilizzeremo la storia simbolica raccontata dal teologo Lessing:
Dio apparve a un saggio chiedendogli di scegliere tra la mano destra, che detiene la verità, e quella sinistra, che detiene la ricerca della verità. Il saggio sceglie la sinistra poiché sa che il possesso della verità è prerogativa esclusiva di Dio. Il jihadista non è, in questa logica, un individuo che segue il criterio di Dio ma qualcuno che gli si sostituisce. Egli sceglie la mano destra.
Dal caso clinico alla follia collettiva
La dimensione comunitaria è fondamentale nel processo che conduce all’operazione-martirio. Il protagonista si dirige, infatti, ai suoi “fratelli”. Questo termine ha più sfumature; è utilizzato nel senso della appartenenza alla stessa religione: tutti sono uguali di fronte a Dio, uguaglianza che conferisce un senso di giustizia e di emancipazione, libertà, redenzione. Inoltre, vi è una dimensione comune a tutti gli esseri umani: la forza della umma (la comunità), particolarmente presente nel momento in cui il protagonista saluta i compagni: siamo all’esterno e vediamo in secondo piano dei panni stesi che suggeriscono il contesto familiare. Questo dona forza, coraggio e affetto e l’azione di sacrificio, poichè condivisa e sostenuta, assume una funzione di prova, di dimostrazione e di potere.
L’appartenenza al gruppo è fondamentale per conferire uno status sociale, un’identità al protagonista. Il mujâhid acquisisce così un ruolo, raggiunge un’umanità nuova e la causa sacra rende possibile la trasformazione della “semplice” morte personale (suicidio) in un gesto eroico per la comunità, per la quale il “martire” diventa un modello da seguire.
Quando una convinzione è condivisa, essa rinforza l’ideologia, tanto da portare gli interlocutori, in questo caso, a vedere l’azione di suicidio-omicidio del protagonista come una “benedizione di Dio”.
Altre espressioni amplificano il sentimento che egli sia investito di un ruolo grandioso: è “onorato”, è un eletto che diventerà una sorta di Santo sulla Terra. Si tratta in tutta evidenza di un mito nuovo, moderno, senza uguali nè precedenti nella storia dell’Islam.
Alla base del meccanismo della forza della massa, Sigmund Freud affermava esserci un processo narcisistico: gli individui hanno messo lo stesso ideale al posto dell’ideale dell’Io [10], riuscendo così a identificarsi gli uni con gli altri [11]. Questo è il meccanismo per cui il fanatismo diventa una follia condivisa; come suggerisce lo psicoanalista G. Haddad, «un fanatico isolato, come un razzista isolato, è un caso psichiatrico. Ma l’appartenenza a un gruppo gli permette di accedere a una dignità superiore, quella di avere un ruolo politico o, addirittura, di influenzare la Storia» [12].
Ma qual è questo ideale che unisce gli aderenti all’offerta jihadista? È l’ideale della perfezione, di cui gli aderenti saranno investiti e che permetterà loro di elevarsi al di sopra degli altri. Questo ideale deriva dalla rimozione della finitezza umana: in altre parole, della morte. Rivela l’assenza di uno stato soggettivo adulto e rinvia alla fase narcisistica in cui il bambino era in fusione perfetta con la madre.
Questo delirio di grandezza, che produce un sentimento di godimento e di onnipotenza, è il prodotto della convinzione illusoria di poter compiere questo ideale di perfezione e di purezza (proprio dell’ossessivo). L’aggiunta della sete di vendetta legata ad una situazione di catastrofe umanitaria reale produce il mèlange esplosivo del jihadismo. Quest’ultimo risulta quindi seducente poichè propone questo ideale dell’unità, concepito come unica verità. Si tratta di un’ideologia che sposta il problema soggettivo identitario all’esterno – l’infedele, l’Occidente, il male – , un concetto così astratto che diventa talmente universale da arrivare a coincidere con l’essere umano.
Infatti, non c’è un vero e proprio obiettivo ma un’attrazione per la distruzione in sè. In fondo questo nemico non esiste: l’obiettivo è l’essere umano stesso, jihadista incluso. La rivendicazione di un “vero” Islam è un delirio di onnipotenza, il prodotto di una megalomania senza limiti che cercherà di essere sempre “più” (più pura, più vera, più autentica) di prima; paradossalmente è proprio l’inesistenza di questa umma utopistica che conferisce un sentimento di superiorità spirituale ai suoi professanti: quella degli “eletti” di fronte a coloro che non riescono a capire il vero senso della religione di Allah.
Questo adempimento narcisistico è, in fondo, l’incapacità di accettare la propria natura umana. L’annullamento di se stessi in nome di un ideale di perfezione non può che essere compiuto distruggendo la realtà imperfetta di questo mondo. Il jihadismo è, in questo senso, l’apoteosi del narcisismo primitivo; esso giunge fino all’annullamento di sè nell’Altro, operazione che, impossibile da realizzare, non può che portare alla morte.
Questo video testimonia una situazione drammatica di guerra sulla quale si poggia un’ideologia che le conferisce, in modo radicale, un senso e una “soluzione”: la scelta della morte per ovviare al sentimento di impotenza di fronte alla realtà della vita. La frustrazione e l’odio nei confronti del sentimento di ingiustizia percepito sono alleviati dalla messa a morte di coloro che il “martire” identifica come causa del proprio male e, in un certo senso, diventa possibile l’affermazione di sè attraverso la morte [13].
Il jihadista esacerba la propria fede in Dio – il giusto – per vendicarsi di una reale situazione di sofferenza (l’orrore della guerra) ed è proprio la congiunzione di follia e realtà che crea il problema. Infatti, come suggerisce F. Benslama «il mélange di mito e realtà storica è più tossico del delirio» [14].
Dialoghi Mediterranei, n.26, luglio 2017
Note
[1] Cfr. Gérard Haddad, Dans la main droite de Dieu. Psychanalyse du fanatisme, Parigi, Premier Parallèle, 2015.
[2] Nostra traduzione, Fethi Benslama, La guerre des subjectivitès en islam, Fécamp, Lignes, 2014: 316.
[3] Istišhâd è un sostantivo che, in arabo, significa “martirio”. È significativo che la sua forma verbale esista solamente alla forma passiva (ustišhida). La lingua testimonia che il martirio è concepito come morte che viene subìta per la fede e non come suicidio, ovvero come un atto provocato attivamente all’interno di una strategia che, inoltre, prevede l’uccisione di altre persone. Cfr. Roberto Traini, Vocabolario arabo-italiano, Roma, Edizione Istituto per l’Oriente, 2012: 702-703.
[4] Cfr. F. Benslama, La guerre des subjectivités en islam, cit.: 111.
[5] Nostra traduzione, Luis Velasco-Pufleau, «Après les attaques terroristes de l’Etat islamique à Paris. Enquête sur les rapports entre musique, propagande et violence armée», Transposition, posta on-line il 15 dicembre 2015. URL: http://transposition.revues.org/1327; DOI: 10.4000/transposition.1327 [ultima consultazione marzo 2017]
[6] Cfr. Paolo Branca, « La morte nella tradizione islamica », in Quaderni Asiatici, n. 55-57, 2000-2001.
[7] F. Benslama, La guerre des subjectivitès en Islam, cit.: 79.
[8] Id.: 35-36.
[9] Farhad Khosrokhavard, Les nouveaux martyrs d’Allah, Parigi, Champs Flammarion, 2003: 310.
[10] L’ “ideale dell’io” è il cuore dell’identità dell’individuo e si forgia durante i primi mesi della vita del bambino. Esso è l’«istanza della personalità risultante dalla convergenza del narcisismo (idealizzazione dell’io) e dell’identificazione con i genitori, con i loro sostituti e con gli ideali collettivi. In quanto istanza differenziata, l’ideale dell’io costituisce un modello al quale il soggetto cerca di conformarsi» Cfr. S. Freud citato in J. Laplanche et J-B. Pontalis, Vocabulaire de la Psychanalyse, Parigi, PUF, 2007: 184 (nostra traduzione).
[11] Cfr Sigmund Freud (1921), Psychologie des masses et analyse du moi, Parigi, Points, 2014.
[12] G. Haddad, Dans la main droite de Dieu, cit.: 23.
[13] Cfr. F. Khosrokhavard, Les nouveaux martyrs d’Allah, cit.: 84.
[14] F. Benslama, Un furieux désir de sacrifice. Le surmusulman, Parigi, Seuil, 2016: 53.
Riferimenti bibliografici
Bausani Alessandro (a cura di), 1988 ed. 2007, Il Corano, Milano, Rizzoli.
Benslama Fethi, 2016, Un furieux désir de sacrifice. Le surmusulman, Parigi, Seuil.
—, (dir.), 2015, L’idèal et la Cruautè. Subjectivitèet politique de la radicalisation, Fécamp, Lignes.
—, 2014, La guerre des subjectivités en islam, Fécamp, Lignes.
Branca Paolo, 2000-2001, «La morte nella tradizione islamica », in Quaderni Asiatici, n. 55-57.
Freud Sigmund, 1921 ed. 2014, Psychologie des masses et analyse du moi, Parigi, Points.
Haddad Gérard, 2015, Dans la main droite de Dieu. Psychanalyse du fanatisme. Parigi, Premier Parallèle.
Khosrokhavard Farhad, 2003, Les nouveaux martyrs d’Allah, Parigi, Champs Flammarion.
Velasco-Pufleau Luis, 2015, «Après les attaques terroristes de l’Etat islamique à Paris. Enquête sur les rapports entre musique, propagande et violence armèe», Transposition. URL: http://transposition.revues.org/1327; DOI: 10.4000/transposition.1327 [ultima consultazione marzo 2017].
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Silvia Pierantoni Giua, si specializza in arabo e cultura islamica durante il corso di Laurea Magistrale in Lingue e culture per la comunicazione e la cooperazione internazionale all’Università degli studi di Milano. Approfondisce poi la tematica della radicalizzazione islamista in occasione della stesura della sua tesi di laurea di Ricerca in Psicoanalisi diretta dallo psicoanalista F. Benslama, che ha discusso nel giugno 2016 all’Università Paris VII di Parigi. Attualmente si occupa della stesura di un progetto per la prevenzione del fenomeno del fanatismo.
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