In molte ricerche etnografiche, il mare ha avuto un ruolo chiave sia come sfondo di pratiche culturali, sia come paradigma utile nell’interpretazione di sistemi nativi di significato. Tra le principali considerazioni che gli antropologi hanno messo in luce, c’è il concetto di come l’acqua non rappresenti solamente uno spazio che divide diversi lembi di terra, ma al contrario un luogo, variamente definito, che unisce territori altrimenti distaccati geograficamente e culturalmente.
Tra i più celeberrimi esempi di questo genere di interpretazioni c’è senza dubbio la ricerca etnografica di Bronislaw Malinowski, pubblicata in Argonauti del Pacifico Occidentale nel 1922 in cui l’antropologo descrive le spedizioni rituali dei trobriandesi nel quadro dello scambio rituale kula negli arcipelaghi che si trovano all’estremità orientale della Nuova Guinea. Come descritto da Malinowski, il sistema commerciale kula occupa il posto più importante nella vita tribale dei locali. Nella sua descrizione l’antropologo afferma anche l’importanza simbolica del mare e l’interpretazione nativa di uno spazio vissuto, fondamentale affinché i gruppi umani possano relazionarsi tra di loro attraverso il dono rituale di collane e di conchiglie.
Numerose ricerche etnografiche hanno mostrato però che le interpretazioni native di mare, inteso come contesto ecologico culturale, danno luogo a rappresentazioni polisemici ed ambigui sia di un territorio che di un concetto, arrivando anche a trasformare il mare in oggetto di negoziazioni e di strategie politiche, economiche e culturali le quali a loro volta rinviano ad orientamenti ideologici differenti, proprio come accade nel bacino del Mediterraneo. All’interno di una prospettiva antropologica, quest’ultimo può quindi rappresentare, oltre che un contesto etnografico, anche una categoria interpretativa.
Spesso, quando gli antropologi si accingono a studiare i flussi migratori che attraversano il Mediterraneo, rimangono coinvolti in una prospettiva che andrebbe oggi riproblematizzata. Solitamente, nelle ricerche etnografiche, il Mediterraneo viene interpretato come ampia linea di confine in cui si incrociano diversi gruppi etnici. Secondo questa prospettiva il Mediterraneo diventa un contesto complesso in cui, ed attraverso il quale, le comunità definiscono le loro relazioni reciproche, uno spazio dinamico della comunicazione che deriva dalla fluidità stessa dei confini culturali e linguistici (Fabietti, 1999).
La linea di ricerca che molti etnografi paiono aver trovato negli ultimi due decenni per rispondere alle sfide della globalizzazione, in cui la questione delle migrazioni nel Mediterraneo si inserisce, può essere sintetizzata dal termine, unico ma estremamente sfaccettato, di transnazionalismo (Levitt, Jaworsky, 2007). Similmente a “globalizzazione”, anche “transnazionalismo” è diventato in pochi anni una parola chiave per interpretare la contemporaneità, andando di pari passo incontro a un moltiplicarsi di accezioni, sfumature, interpretazioni, declinazioni, contestazioni. Transnazionali sono diventate le comunità, le identità, le pratiche, le famiglie e i villaggi (Pareñas, 1998; Levitt, 2001). Con “transnazionalismo” ci si può riferire quindi a «interazioni e legami multipli che uniscono persone e istituzioni attraverso i confini degli Stati-nazione» (Vertovec, 1999: 447). In generale, all’interno di questo filone di ricerca di matrice etnografica e sociologica, si sono opposte le visioni di chi da un lato ha individuato in questo filone di studi la risposta necessaria per descrivere e interpretare un fenomeno del tutto nuovo e, dall’altro lato, di chi ha parlato semplicemente di un nuovo tipo di approccio, di una prospettiva adatta a cogliere i mutamenti in atto.
Tra gli antropologi che hanno prodotto importanti riflessioni sul rapporto tra cultura e connessioni transnazionali, vi è senza dubbio Ulf Hannerz. Sostenendo che il mondo è diventato una rete di relazioni sociali e che tra le diverse regioni ci sia un flusso, oltre che di persone e di beni, anche di significati, Hannerz indica come la cultura, in una prospettiva multisituata e globale, sia l’esito dell’incontro di più culture senza un chiaro ancoraggio in nessun singolo territorio (Hannerz, 1990: 237). Se le culture sono strutture di significati che viaggiano su reti di comunicazione sociale, le interconnessioni sono caratterizzate da flussi in cui, secondo Hannerz, le “culture transnazionali” viaggiano insieme alle persone. Prendendo spunto dalle riflessioni di Hannerz, in particolare dal suo lavoro Transnational Connection: Culture, People, Spaces (1996), si può affermare quindi che il Mediterraneo può essere inteso come un contesto dell’ecumene globale in base al fatto che qui convergono differenti categorie di persone che condividono la caratteristica comune di aver legami transnazionali; tra queste un ruolo molto rilevante è senza dubbio svolto dalle persone che attraversano il Mediterraneo e che costituiscono quel flusso definito come migrazione.
I diversi contenuti raccolti nel numero monografico curato da Floriana Ciccodicola, Il Mediterraneo. Un mare di Storie, della Rivista Quadrimestrale “Storia, Antropologia e Scienze del Linguaggio” (anno XXXIII, fasc. 2-3, 2018), mettono il lettore di fronte ad una serie di attuali e interessanti questioni antropologiche. Una delle tante riflessioni che il Mediterraneo stimola a produrre è senza dubbio il fatto di operare con un concetto di ambiente non riconducibile ad una mera serie di fattori ecosistemici isolati ed indipendenti dall’azione e dalla storia umana. Nella monografia il Mediterraneo viene, per contro, interpretato e studiato come prodotto storico. Come è infatti scritto nel contributo di Sonia Giusti, il Mediterraneo non può essere concepito solamente come un contesto problematico contemporaneo, come viene invece presentato negli ultimi anni dalla politica e dai mass media, ma è essenzialmente un lungo percorso diacronico da indagare e da reinterpretare:
«Da questo Mediterraneo, “osservatorio privilegiato” per conoscere la compresenza di numerose culture nella continuità dei cambiamenti, si ha l’immagine di una Europa “neocarolingia”, costruita più sul mito che sulla storia, incapace di calarsi nel drammatico scenario di una umanità alla deriva, di una realtà che contiene le radici della sua storia e le premesse del suo futuro. Tucidide era convinto che conoscere la storia non migliora l’uomo, ma lo mette in guardia ricordandogli che guerre e misfatti possono ancora verificarsi […]. Penso sia utile accennare ad alcune voci arabe del passato, non tanto per colmare una lacuna, ma perché ci aiutano a realizzare il progetto neo-umanistico di condivisione del mondo e attestano una altrettanto condivisa responsabilità, nella costruzione della storia contemporanea, che non può essere concepita come unicamente occidentale: c’è una presenza araba da affiancare a quella greca per capire meglio la complessità del mondo mediterraneo e della sua storia. L’idea eurocentrica di Oriente ha innescato, in chi l’ha formulata (Europa e Stati Uniti), la costruzione del concetto di “opposto”, “diverso”, “altro” dall’Occidente. Di qui la convinzione arrogante dell’Europa verso un diverso arretrato che ha comportato la negazione della sua storia ed ha contribuito ad innescare e ingigantire il sospetto e la conflittualità tra Occidente e mondo arabo-islamico» (Giusti, in Cioccodicola, 2018: 11).
La riflessione di Giusti continua con un’analisi storica delle azioni sociali, politiche ed economiche che consentono, sottolinea la studiosa, di indagare quell’importante deposito di forme e di atteggiamenti, le cui tracce sono indispensabili per comprendere anche le retoriche politiche attuali e gli orientamenti normativi statali. L’approccio interpretativo di Giusti risulta, tra gli altri contributi, centrale all’interno della monografia, soprattutto per il fatto di fornire un orientamento analitico definito, all’interno delle scienze sociali, con il termine di “antropologia culturale dinamista”, eminentemente orientata nello studio dei fenomeni di mutamento concependo le culture umane non come prodotti statici, uniformi e modellabili in astratto, ma come processi fluidi e conflittuali, in continuo mutamento nel tempo.
La rivista ricostruisce, anche se all’interno di un’area relativamente ristretta che è il Mediterraneo, un caleidoscopio di culture fornendo una convincente interpretazione dei sempre mutevoli rapporti tra società, economie e politiche che possono essere anche generalizzate. D’altro canto, questo numero monografico rappresenta un lavoro importante in quanto, di fronte ad una fenomenologia così complessa e varia, come sono i flussi migratori, oltre che cruciale per la comprensione delle dinamiche culturali nel mondo contemporaneo, contribuisce a dare una spinta alla lettura antropologica, in particolare a quella italiana, che sembra essere dotata di strumenti di indagine ancora troppo modesti.
Gli studi raccolti nel volume spronano quindi, accanto all’interpretazione dell’incerto dato dalla mutevolezza delle relazioni, anche ad una reazione alle ancora scientificamente radicate certezze identitarie. Ed è, a mio avviso, l’ancora inadeguata concettualizzazione nella maggior parte delle ricerche etnografiche che tentano di analizzare i fenomeni migratori, a dare rilievo al tentativo di ripensare e di plasmare assieme diverse esperienze etnografiche che hanno come contesto di analisi il Mediterraneo nelle sue differenti sfaccettature. Il Mediterraneo. Un mare di Storie pone il lettore di fronte a significativi concetti. Da un lato, l’incontro etnografico come tematizzazione del nostro e dell’alieno che, come sostiene Ernesto De Martino, comporta una interna paradossia dalla cui analisi dipende la formulazione di una metodologia etnologica adeguata (De Martino, 2002: 406). Dall’altro, sempre riprendendo De Martino, la consapevolezza secondo cui il paradosso può essere sciolto nel momento in cui si prenda coscienza della limitazione etnocentrica delle categorie di osservazione impiegate dall’etnografo occidentale: quando si ripercorre esplicitamente la storia occidentale racchiusa nelle categorie di osservazione; quando si sappia qual è il loro senso che deve essere epochizzato in quanto non pertinente alle culture aliene; quando, attraverso tale epoché, si lasci apparire il senso alieno in questione; ed infine quando, attraverso l’apparire di tale senso alieno si procede ad una riforma delle categorie occidentali di osservazione e ad un incremento del sapere antropologico (De Martino, 2002: 403).
Attualmente i temi relativi alle migrazioni sono frequentissimi nelle ricerche antropologiche, in connessione con una vasta costellazione di altri temi quali l’etnicità, l’etnocentrismo, il razzismo, la multiculturalità, le diaspore, la globalizzazione e i localismi. In generale però tali ricerche problematizzano in maniera ancora assai semplicistica i migranti, i quali vengono spesso inclusi in vaste categorie-contenitore insieme a molti altri “spostati”, nel senso proprio di “persone che si spostano”, come turisti, rifugiati politici, profughi che fuggono da guerre, da carestie, da catastrofi naturali, da pulizie etniche, intellettuali cosmopoliti, coloni, vecchi e nuovi nomadi. In particolare, questa tendenza ha preso corpo all’interno dei cultural studies e soprattutto dei postcolonial studies; ma la si trova condivisa anche da autori, come Fredric Jameson, le cui posizioni teoriche si discostano da quelle tipiche della critica postcoloniale.
Fino agli anni Sessanta del Novecento il temine “migrazioni”, nell’uso che se n’è fatto nel contesto delle lingue occidentali, è servito per designare soprattutto i flussi di popolazione che si attivavano fra aree e paesi dove era alta l’offerta di forza lavoro e aree e paesi dove era alta la domanda di forza lavoro (Signorelli, 2006: 18). Negli ultimi decenni è divenuto sempre più chiaro, sulla scena mondiale, che le cause che muovono i flussi migratori, o meglio le circostanze e le componenti che li promuovono, sono ben più varie ed articolate. Alcune di esse sono antiche, come le carestie e le guerre, che sembravano scomparse dal mondo postmoderno ma che invece si sono riattivate con grande virulenza; altre sono nuove, come l’efficacia, in certe aree, dei fattori di espulsione di ordine economico (povertà), pur in assenza di complementari mercati del lavoro in espansione, capaci di esercitare attrazione. Altre infine sono, se non proprio inedite, certo assai singolari, come l’efficacia dei fattori di attrazione virtuali (le immagini della televisione e del cinema che illustrano aree ad alto standard di consumi) su popolazioni povere. Infine, si fanno sempre più consistenti i flussi di persone che sono al tempo stesso alla ricerca di lavoro e di asilo politico.
In un’ottica classica, la decisione di partire è una scelta individuale che risponde ad una logica strumentale di costi e benefici. Tale visione però, piuttosto astratta, è stata in seguito rielaborata all’interno dell’etnografia delle migrazioni anche grazie al contesto mediterraneo, il quale ha efficacemente contribuito a sollevare critiche costruttive sottolineando le dimensioni culturali e i fattori sociali che il classico modello interpretativo sul migrante tendeva invece a trascurare. In generale, gli antropologi ed i sociologi che, a partire dagli anni Novanta del Novecento hanno volto la loro attenzione allo studio delle migrazioni, si sono confrontati con alcune caratteristiche specifiche che distinguono i processi migratori nel mondo globale. Secondo Stephen Castles e Mark J. Miller (2012) esistono dinamiche che differenziano, a livello qualitativo e quantitativo, le attuali migrazioni rispetto a quelle passate, tanto da definire la nostra epoca come “the age of migration”. L’era delle migrazioni si è affermata, secondo gli studiosi, nel corso degli anni Ottanta attraverso una serie di trasformazioni economiche e socio-politiche a livello planetario, tra le quali citano, come particolarmente rilevanti, le dinamiche che coinvolgono i flussi migratori nel Mediterraneo. Affermano Castles e Miller che, tra le tendenze generali che tali flussi migratori hanno assunto, vi sono una maggiore politicizzazione, una differenziazione ed un’accelerazione che comporta la proliferazione della transizione migratoria. Affermano i due studiosi che la combinazione di queste linee di sviluppo ha determinato il processo in cui:
«Man mano che emigrare diventa più “semplice” e le persone raggiungono un livello di mobilità, vengono ad instaurarsi importanti e duraturi rapporti di livello politico, economico, sociale o culturale in due o più società contemporaneamente» (Castles, Miller, 2012: 25).
Ma, come scrivono Paola Sacchi e Pier Paolo Viazzo nel loro contributo alla rivista, “Il mare dentro. Frontiere, migrazioni e modelli di convivenza nel Mediterraneo di ieri e di oggi” «è giusto tuttavia domandarsi: “di quali connessioni e di quali interazioni si sta parlando?”» (Ciccodicola, 2018: 45). Tale domanda risulta estremamente efficace al fine di sviluppare una pluralità di interpretazioni che rispecchiano tanto la complessità del fenomeno, quanto i diversi posizionamenti ed interessi dei ricercatori. Se quindi da un lato Castles e Miller sostengono nuovi caratteri delle migrazioni nel Mediterraneo, Sacchi e Viazzo mettono in luce come esso sia stato attraversato, per secoli, da persone e da culture:
«Poiché coloro che hanno abitato il bacino del Mediterraneo hanno commerciato e comunicato, hanno conquistato e convertito, si sono sposati e sono emigrati per sei o settemila anni, […] (si può dire che) i fatti sociali mediterranei sono il prodotto di interazione tra persone di tipi diversi prodottasi di volta in volta in un periodo di tempo valutabile in migliaia di anni, e devono essere studiati storicamente e comparativamente» (Sacchi, Viazzo, in Ciccodicola, 2018: 45).
Riprendendo David Abulafia, Sacchi e Viazzo ribadiscono che, dal punto di vista diacronico, le migrazioni, all’interno dello spazio eco-culturale mediterraneo, sono state in primo luogo dei flussi mercantili i quali hanno interessato da secoli le città portuali e che, a loro volta, hanno generato cosmopolitismo ed offerto modelli storici di convivenza oggi tramontati ma sui quali non possiamo non riflettere. Gli studiosi ci invitano inoltre a prendere in considerazione le origini di quella che si è soliti definire come “antropologia del Mediterraneo”, la quale si fa comunemente risalire alle ricerche sul terreno condotte dal 1949 al 1952 da Julian Pitt-Rivers in Andalusia. Da allora la produzione antropologica classificabile come “mediterraneista” conosce per tre decenni una crescita rapida e quasi esponenziale.
L’antropologia mediterraneista può essere classificata a sua volta nella categoria interpretativa di “cultura dell’emigrazione” in cui si suole radunare l’insieme di significati, di valori e di rappresentazioni socialmente condivisi che si riferiscono e danno senso alle pratiche di mobilità di uno o di più gruppi sociali. Nel suo significato più ampio, il concetto vuole porre l’attenzione sul fatto che la migrazione non è una scelta casuale o la somma di decisioni puramente individuali, bensì è una pratica sociale che si radica in specifici contesti socio-culturali. Come affermano Jeffrey Cohen e Ibrahim Sirkeci:
«La scelta di emigrare non è guidata esclusivamente dal bisogno economico […]. La cultura, ossia l’insieme delle pratiche sociali, dei significati e della logica simbolica della mobilità, va compresa insieme all’economia» (Cohen, Sirkeci, 2011: IX).
All’interno di diverse collettività, la migrazione può quindi diventare parte anche della vita quotidiana. Douglas Massey (1993) rileva inoltre, nella cultura dell’emigrazione, uno dei fattori che possono contribuire alla perpetuazione del fenomeno, anche quando le motivazioni economiche rendono la scelta migratoria meno vantaggiosa o indispensabile:
«Con il tempo infatti, quando all’interno di una realtà sociale l’esperienza di mobilità si radica e si prolunga, la migrazione si inserisce profondamente nei repertori dei comportamenti delle persone e i valori associati con la migrazione diventano parte dei valori della comunità» (Massey, 1993: 452-453).
In particolare, la mobilità interna ed internazionale può divenire un rito di passaggio soprattutto per i giovani (Cappello, Cingolani, Vietti, 2016: 58). In Marocco, per esempio, dove la speranza di raggiungere l’Europa muove dall’impossibilità per molti giovani di accedere all’autonomia della vita adulta (Capello, 2008), la migrazione è vista spesso come la sola possibilità per diventare veri uomini (Notarangelo, 2011). In particolare, Carlo Capello (2005) fornisce un’interessante lettura della “cultura dell’esilio” diffusa a Casablanca e a Khouribga in Marocco. La forte idealizzazione della migrazione verso l’Europa, passando per il Mediterraneo, unitamente al desiderio di fuga dei giovani marocchini delle classi medie e basse, sono da mettere in relazione ad una difficile realtà socio-economica e ai meccanismi di esclusione dal lavoro che colpiscono soprattutto le nuove generazioni. La disoccupazione e la sotto-occupazione impediscono loro di diventare autonomi, provocando una condizione di alienazione e di esilio nel proprio paese. La fuga per mezzo dell’emigrazione è allora percepita come la sola opportunità di miglioramento per sé e per la propria famiglia e l’Italia e l’Europa diventano in una dimensione mitica “mondi immaginati” su cui proiettare i propri desideri di realizzazione (Capello, 2005: 34).
A questo punto non è inutile richiamare un’osservazione messa in evidenza da Amalia Signorelli in Migrazioni e incontri etnografici (2006):
«C’è accordo tra molti autori almeno su un punto: l’identità non è tanto un attributo o una qualità di un soggetto, quanto una relazione tra soggetti. In termini culturali si può formulare questa constatazione come segue: l’identità di un soggetto è l’autopercezione che egli ha di sé in rapporto con un altro. Se il carattere relazionale definisce comunque l’identità, ciò è tanto più vero nel caso dell’identità etnica» (Signorelli, 2006: 122).
Afferma l’antropologa come, soprattutto Lanternari, avesse messo bene in luce questo aspetto. Ancora una diffusa convergenza tra gli studiosi, sostiene Signorelli, si registra nella constatazione che l’attribuirsi un’identità etnica comporti, per il soggetto, la formulazione di un giudizio di valore, l’assegnazione del “più e del meno”, dell’inferiorità e della superiorità tra egli stesso e l’altro in rapporto al quale egli si riconosce portatore di un’identità distinta (Signorelli, 2006: 122).
In consonanza con questo assunto, Floriana Ciccodicola aggiunge, nel suo contributo “Mare nostrum vs Mare monstrum”, come le conseguenze delle rappresentazioni culturali di identità distinte abbiano determinato, nel Mediterraneo, anche una serie di strategie politico-economiche che hanno avuto profonde ricadute socio-culturali condizionando la vita di migliaia di persone. In primo luogo, afferma Ciccodicola, il Mediterraneo è il luogo privilegiato da cui gli Stati controllano i confini: da qui l’Europa, facendosi portatrice e fortezza di un determinato tipo di cultura occidentale, dispiega flotte per intervenire nei diversi conflitti presenti nel Medio Oriente e per gestire, in vario modo, le rotte percorse da sud e da est da parte di migranti che tentano di raggiungere le coste europee.
Sottolinea Ciccodicola che il Mediterraneo, tanto dibattuto oggi e fatto oggetto di controverse discussioni da parte degli Stati europei, non ha mai smesso di essere un luogo di scambi e di migrazioni:
«Il Mediterraneo è stato, per i flussi migratori che in esso si determinano, luogo di “messa alla prova” della tenuta dell’equilibrio, nella politica dell’Unione Europea, tra il diritto d’asilo, l’affermazione dei diritti umani, delle protezioni internazionali e le spinte sovraniste, tese ad affermare e realizzare con ogni mezzo la chiusura dei confini esterni dell’Unione per impedire ai migranti, indesiderati, di oltrepassarli. Il Mediterraneo rappresenta, attualmente, per molti aspetti, una delle tante regioni del mondo in cui l’equilibrio […] è saltato, in cui la unanime ed equa responsabilità degli stati verso i migranti non si è realizzata, in cui la pressione migratoria è rimasta a carico solo o principalmente di alcuni stati che oggi si sentono di dover ridefinire questa loro condizione dettata dall’incapacità di molti di poter gestire in maniera efficace l’immigrazione. Per queste ragioni il Mediterraneo è divenuto il luogo del “naufragio” non solo di imbarcazioni stracolme di migranti, di perdita tragica di vite umane, di cui non potremmo mai stabilire il numero e di cui la storia ci chiederà ragione negli anni a venire, ma rappresenta anche il luogo del “naufragio” evidente di quei principi che costituiscono i fondamenti della modernità, degli Stati democratici e costituzionali, dell’Unione Europea, dei “diritti umani universali” proclamati e sottoscritti dai diversi stati» (Ciccodicola, 2018: 242).
All’interrogativo di cosa sia diventato per la nostra attuale società il Mediterraneo, la studiosa scrive:
«Non un mare nostrum, ma un mare monstrum, un mare chiuso ed estremamente sorvegliato, percorribile liberamente solo da pochi, da coloro che abitano nelle terre poste a Nord, Nord-Ovest di esso, in cui chi “non è autorizzato” a solcarlo lo fa a rischio e pericolo della propria vita, affidandosi sempre più spesso a trafficanti di uomini» (Ciccodicola, 2018: 242).
La verità è che il Mediterraneo, mare chiuso tra terre, mare internum, rappresenta, come scriveva Platone in un famosissimo passo del Fedone, una piccola parte del mondo, in cui gli uomini, dimorano, «sulle sue rive, come formiche e rane intorno ad uno stagno» (Ciccodicola, 2018: 239). O per usare le parole di Fernand Braudel, il “cuore del vecchio mondo”, “mare tra le terre”, luogo di incontro e di scambio fin dall’antichità, ma anche spazio di conflitto, nelle cui acque, solcate da popolazioni e da eserciti, si sono combattute aspre battaglie. Viaggiatori fenici, greci, romani, bizantini ed arabi, fin dall’antichità hanno descritto i popoli che man mano incontravano nel loro peregrinare. Mare dal quale arrivavano i nemici ma si confrontavano e si misuravano anche le civiltà. Per la sua centralità geografica, storica e simbolica, luogo immaginario, dalle “perigliose acque”, in cui collocare la nascita e la dimora degli dèi e di eroi; teatro di sfide narrate in diversi ed antichi racconti (Ciccodicola, 2018: 239). Per tutto questo, inevitabilmente, spazio in cui si concentrano da sempre gli interessi degli Stati nazione (Abulafia, 2013) che lo hanno considerato strategico per i loro profitti commerciali e militari. Mare fortemente antropomorfizzato, nella letteratura, nel mito, nelle arti, per meglio inserirlo nell’immaginario collettivo delle diverse società. Nel contesto della sua polisemia e poliedricità il Mediterraneo è ancora percepito come centro gravitazionale del futuro per quanto le cronache sembrino vanamente opporsi alla storia che si sta costruendo:
«Si parla ormai della “fortezza Europa”, di cui non riusciamo ad uscire per elaborare politiche di accoglienza, nella quale i diversi organismi elaborano sempre più ostacoli, per chi, soprattutto, i più poveri e perseguitati, reclamano il diritto di poter essere accolti e stabilirvisi stabilmente o per brevi periodi. Un atteggiamento riscontrabile in molte altre parti del mondo tanto che si può tranquillamente affermare che, “la proliferazione dei confini, il loro prismatico scomporsi e ricomporsi, costituisce “l’altro lato della globalizzazione”. Come molti studiosi sostengono “il sogno di uno spazio totalmente fluido e attraversabile è forse l’ultima utopia del ventesimo secolo” e aggiungiamo noi anche (del Ventunesimo) dove si aprono?» (Ciccodicola, 2018: 244).
Questo mare rappresenta lo spazio storico-geografico ed economico-politico in cui oggi si misura la nostra capacità di affermare un nuovo etno-umanesimo critico. Centrale è il dialogo interculturale. Difficile è però stabile da dove bisogna partire. Uno dei punti fondamentali è certamente una critica teorica alla tematica identitaria che, ponendo l’accento sulla chiusura a scapito dello scambio, implica a sua volta un’idea di separazione e di conservazione. Attraverso un processo di sottrazione, l’individuo sarebbe pertanto ridotto ad essere e valere soltanto come un “rappresentante” di una comunità alla quale appartiene. Ma, per poter iniziare a porre una critica costruttiva a questa categorizzazione, è indispensabile anche comprendere le sue dinamiche diacroniche. Come ha messo bene in luce François Laplantine, l’ossessione differenzialista si costruisce a partire da un pensiero categoriale e classificatorio che oppone in un primo momento gli eletti e i dannati, poi i bianchi e i neri ed infine si estende, più o meno a cominciare dal 1965, molto al di là della differenziazione etnica, visto che oppone progressivamente gli ebrei e i cristiani, gli anglosassoni e i latini, gli uomini e le donne, gli omosessuali e gli eterosessuali e così via. Nel suo aspetto più radicale, la logica esclusiva della differenza è una logica razzista e sessista. Essa crede pervicacemente che esistano “essenze” umane assolutamente distinte le une dalle altre: le donne, gli omosessuali, i neri, i sordi, i curdi, gli arabi (Laplantine, 2004: 42). Tale differenzialismo esacerbato, secondo Laplantine, si chiama oggi “multiculturalismo”:
«Il politically correct nord americano, la rivendicazione dei diritti delle minoranze e delle “comunità etniche”, l’apologia del pluralismo terapeutico. Questa posizione, che peraltro si esprime attraverso i migliori sentimenti del mondo e preconizza la coabitazione e la coesistenza di gruppi separati e giustapposti risolutamente rivolti al passato, può essere considerata una reazione – che sorge nelle società più inclini all’uniformazione – dovuta alla paura, all’angoscia della differenza e a una presa di distanza dall’alterità. Gli “altri” sono rinviati ai loro rispettivi sostrati biologici, oppure alle loro culture di origine (i neri con i neri, le donne con le donne, gli indiani con gli indiani e i pinguini con i pinguini), fissati, rinchiusi in riserve, quartieri, chiese o scuole, insomma in categorie separate, in forme sociali maggiori del ghetto. […] Se le differenze sono pensate, vissute, come irriducibili e definitive, perfettamente estranee e di conseguenza senza più alcuna estraneità, fra loro resta ugualmente un rapporto possibile: la violenza» (Laplantine, 2004: 44).
Come sottolinea Laplantine, si tratta altresì di una delle forme intellettuali e ideologiche che si traduce oggi in disprezzo e indifferenza. Il ronzio identitario ha dunque qualcosa di ingannevole. Esso si presenta con fare rassicurante, ma la sua attitudine a rendere allucinato il reale è tale che in certi momenti può virare al fanatismo e quindi preparare la guerra. La tentazione differenzialista deriva inoltre da un’esigenza di purezza e di purificazione (etnica, linguistica, scientifica) che non accetta per nulla la mescolanza e il meticciato, la contraddizione ed il cambiamento. Essa cerca piuttosto di isolare i fenomeni allo stato puro e ad una presunta autoctonia. Di conseguenza, i discorsi declinati nei termini del “chiuso”, del “distinto”, della “frontiera”, della “purezza” sono sostenuti da logiche privative che assecondano la volontà di un’assenza di contaminazione.
Un ultimo aspetto mi preme però sottolineare prima di tentare qualche generalizzazione. Accade spesso che quando il giudizio è riferito ad un rapporto personale e specifico, e quindi non ad una rappresentazione culturale ed intellettuale di un noi e di un loro, diversi soggetti si sottraggono a tale categorizzazione venendo in contatto ed entrando nella sfera del “siamo tutti uguali”, “loro sono come noi”, “c’è il buono e il cattivo come dappertutto”. Alcuni autori (Epstein, 1978, Wallman, 1982) propongono di interpretare questa realtà altamente contraddittoria, labile e sfuggente, in termini di attivazione/disattivazione: nella complessa rete di rapporti in cui le persone sono inserite, si verificherebbero situazioni che potrebbero essere meglio gestite se i soggetti si definissero in termini di etnicità. In altre situazioni tale definizione o autodefinizione da parte degli attori coinvolti risulterebbe inappropriata o non convincente e dunque in esse l’identità etnica viene disattivata, minimizzata e posta tra parentesi. Il fatto che molti degli autori che hanno utilizzato questa teoria siano antropologi di grande sensibilità, i quali hanno compiuto talaltro rilevazioni sul campo di esemplare finezza, non modifica il fatto che questa prospettiva rischia, come molte altre interpretazioni di matrice funzionalista, di essere più che altro una iperdescrizione piuttosto che una spiegazione dei fatti. Tra le molte questioni che essa lascia irrisolte è, per esempio, capire e stabilire chi è che definisce la situazione data in termini di chi appartiene ad un gruppo umano e chi ad un altro e, in senso specifico al contesto Mediterraneo, chi e come possono essere decisi i confini di un mare le cui acque sono tali anche per il significato antropologico dato dalle persone che lo hanno percorso in lungo e in largo sin dall’antichità.
Dialoghi Mediterranei, n. 38, luglio 2019
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S. Vertovec, Conceiving and Researching Transnationalism, in “Ethnic and Racial Studies”, XXII, 2, 1999: 447-462.
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Linda Armano, ricercatrice in antropologia, ha frequentato il dottorato in cotutela tra l’Università di Lione e l’Università di Venezia occupandosi di Anthropology of Mining, di etnografia della tecnologia e in generale di etnografia degli oggetti. Attualmente collabora in progetti di ricerca interdisciplinari applicando le metodologie antropologiche a vari ambiti. Tra gli ultimi progetti realizzati c’è il “marketing antropologico”, applicato soprattutto allo studio antropologico delle esperienze d’acquisto, che rientra in un più vasto progetto di lavoro aziendale in cui collaborano e dialogano antropologia, economia, neuroscienze, marketing strategico e digital marketing. Si pone l’obiettivo di diffondere l’antropologia anche al di fuori del mondo accademico applicando la metodologia scientifica alla risoluzione di problemi reali.
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