di Tano Siracusa
Ci sono vari modi di viaggiare e varie ragioni per farlo. Ci si mette in viaggio per necessità o disperazione, per noia, per dimenticare o per ritrovare qualcosa o qualcuno, per avere l’illusione che il tempo rallenti. Forse un siciliano può anche partire per il bisogno di seguire i venti, per capire il nord dove comincia e dove finisce l’occidente, da dove soffia lo scirocco e da dove giunge la tramontana, per seguire e inseguire nei venti l’odore e la luce di terre remote.
A vederlo disegnato o fotografato dall’alto il Mediterraneo sembra un lago, una grande pozza di mare circondata, compressa, dalla massa dei tre continenti. Viaggiare nel Mediterraneo è anche un modo per affacciarsi sulla soglia del’Asia, dell’Africa e dell’Europa: vi si sono mescolati suoni, sangue, simboli, merci, lingue e miti, culti religiosi e saperi che hanno attraversato montagne e deserti. E poi le Americhe, quelle proiezioni europee, mediterranee, quel trapianto di Spagna oltreoceano, dove giungeranno non da dominatori ma da umili lavoranti veneti, emiliani e calabresi, greci, turchi, ebrei e siciliani.
Il Mediterraneo ha le sue porte-città su un oltre che è sempre altrove, quelle città-confine dove i continenti, le loro storie, si incontrano e si sovrappongono. Città come Tangeri e Istanbul, come Marsiglia e Agrigento: porte del nord e del sud, dell’ovest e dell’est.
Luoghi di confine, distanti fra di loro come mondi, come le estremità dei punti cardinali; e ciascuno di questi luoghi distanziato da se stesso dal tempo trascorso, che esibisce nella materialità urbana e nei costumi, nel repertorio simbolico, l’affastellarsi dei depositi storici, il loro complesso armonizzarsi e scontrarsi fino alla frattura della modernità. In Italia Pasolini era stato il primo a capirlo: negli anni ’60 il moderno faceva sparire le differenze, faceva sparire i mondi, schiacciando le distanze sullo scenario comune della civiltà consumistica.
Oggi l’accumulo della storia in queste città-confine del Mediterraneo, il lascito del passato, è ormai affiancato, a volte penetrato e sconvolto, da una cifra culturale che appare estranea, per la prima volta indifferente a ciò che l’ha preceduta. Non ostile, ma indifferente, proprio come sono semanticamente indifferenti le parole di una lingua sconosciuta, le parole dei barbari come suoni, che non si fanno capire perchè non capiscono, che affiancano le antiche lingue e le fanno retrocedere.
Quando ho cominciato a viaggiare e fotografare, nella seconda metà degli anni ’80, in una città come Tangeri mi sembrava di ritrovare la Sicilia della mia infanzia. L’intrecciarsi delle vie strette, gli odori del cibo per strada e degli animali, le mosche, le voci e il passo delle donne.
Oggi quel mondo è un’isola, la Medina, circondata, assediata dalla città moderna: muraglie di cemento in forma di alveari condominiali in periferia, viali e sfarzo architettonico in centro. Accade così, in ciascuna città in modo diverso, a Istanbul, a Marsiglia, ad Agrigento.
Nel 1453 la capitale dell’impero bizantino veniva saccheggiata e in parte distrutta dai turchi, i luoghi della cristianità profanati. Oggi Erdogan sfida la piazza per svendere pezzi della vecchia città alle multinazionali.
Dal secondo dopoguerra gli abitanti di Agrigento hanno saccheggiato il loro stesso territorio, stretto in una morsa di cemento la valle dei templi, eretto una poderosa quinta di palazzi fra la città classica e quella medievale, araba e normanna, oggi abitata da un migliaio di fuggiaschi dalla povertà e dalle guerre in Africa e in Medio Oriente.
Il centro di Marsiglia, come poche altre nel Mediterraneo una città-mondo, sembra lontanissimo – e non solo urbanisticamente – dalle periferie nord, dove vengono ammassate povertà, devianza e violenza criminale. Le Scampie di Marsiglia (ma Scampia è oggi anche un importante laboratorio culturale, il più importante di Napoli forse).
Il presente irrompe nella contemporanea Babele dei linguaggi con i suoi codici difformi, con la sua dismisura, rovesciando in queste città come gigantesche onde sismiche le tensioni e i conflitti dei continenti.
Immaginare di restituire, anche solo approssimativamente, con delle fotografie l’enormità di questo scenario sarebbe ingenuo. Persuaso dell’inevitabile infedeltà della fotografia, mi accorgo di averla usata per costruire negli anni un repertorio di immagini che mostrano il mondo com’era ‘prima’, grumi di passato che residuano nel presente. E la luce.
Nelle città-confine del Mediterraneo mi sembra di avere riconosciuto la stessa luce prismatica, variata dai venti e dalle stagioni, ma riconoscibile ovunque nel nostro mare, la luce che Van Gogh aveva cercato e trovato in Provenza, su cui Cézanne aveva spalancato e chiuso per sempre i suoi occhi, quella che descrivono Choukri a Tangeri, Pirandello a Girgenti, Pamuk nella sua Istanbul.
La luce del Mediterraneo, quella rimane uguale, ed è patria per un siciliano anche in Francia, in Marocco, in Turchia.
Dialoghi Mediterranei, n.15, settembre 2015
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Tano Siracusa, fotografo di origine agrigentina, ha iniziato la sua attività nei primi anni 80, alternando reportage di impostazione bressoniana ad un uso più diaristico e introspettivo del mezzo fotografico. E’ stato condirettore del trimestrale Sudovest e direttore di Fuorivista, attualmente fa parte della redazione di Gente di fotografia. Ha pubblicato numerosi libri fotografici, tra i quali: Perdersi in manicomio (1993); Scattando incontro al tempo (2010); Con i suoi occhi (2011).
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