Non vorrei partire da molto lontano. È ormai, del tutto certo che, qualche milione di anni fa, l’uomo fece la sua prima comparsa sulla Terra, in Africa. Diciamo che ebbe i suoi natali in quella parte del pianeta che, oggi, viene riconosciuta politicamente come Kenya. In pratica, è da quel momento che inizia la prima e più grande migrazione dell’uomo. Senza la più lontana ipotesi di frontiera, lingua, religione e, pare, senza troppa differenza di colore della pelle, l’uomo cominciò a spostarsi verso direzioni prive di qualsivoglia coordinata. La terra emersa doveva, allora, essere ancora un unico continente, prima che cinque di loro prendessero la deriva!
E così, alcuni uomini popolarono, per chissà quale convenienza, terre tanto lontane fra di loro, destinate, nel tempo, a diventare l’America piuttosto che l’Australia. Nessuno oppose loro resistenza. E a proposito di America! Nei primi anni del ‘500, molti uomini che non si erano spostati troppo dal loro posto natio, praticamente rimasti in Africa, furono oggetto di “attenzione e forte apprezzamento”, tanto che spagnoli, francesi, portoghesi, navigando pericolosi oceani, con imbarcazioni che oggi definiremmo eroiche, offrirono loro la possibilità di conoscere e affezionarsi a terre nuove, ricche e poco abitate.
Così anche molti europei – irlandesi, polacchi, italiani – tanti anni dopo, non certo molto felici di stare nel paese ove erano nati, partirono con “pantaloni consumati al sedere” e con pochi “soldi nascosti dentro la cintura così nessuno te li può strappare” in cerca di fortuna. Già! Allora si chiamava “cercare fortuna” quella che, oggi, si pronuncia con tristezza, o vergogna e spesso con disprezzo, emigrazione.
Io conobbi il significato del termine Emigrazione molto presto, non sapevo ancore leggere e non avevo ancora provato a scrivere. Nella mia normalissima famiglia, composta di genitori giovani e due figli, c’era una piccola anomalia. I miei coetanei, anch’essi con giovani genitori, avevano quattro nonni, due paterni e due materni.
- Mamma come mai ho solo due nonni e gli altri ne hanno quattro? – Anche tu ne hai quattro! Solo che i miei genitori sono emigrati in America, non li conosci ancora ma, vieni qua. Mi mostrò delle foto in cui i miei nonni, ancora giovani, indossavano “il vestito della festa” , lui impettito e lei composta, ma seri, non sorridevano. Io, fino allora, avevo notato che tutti quelli che si facevano fare le fotografie sorridevano o spegnevano le candeline di una torta. I nonni che ancora non conoscevo, no.
Poi, mia madre – maestra – mi spiegò il significato della parola Emigrante: colui che lascia il proprio paese definitivamente o temporaneamente solitamente per motivi di lavoro. Ero troppo piccolo perché lei potesse aggiungere che un emigrante lascia il proprio paese anche per motivi politici. Mio nonno li aveva avuti tutte e due i motivi per lasciare l’Italia. Allora, mi spiegai l’espressione priva di sorriso che avevano i miei nonni in quella foto!
Poi, come solo le mamme sanno fare, mi tranquillizzò dicendomi che presto i nonni sarebbero tornati e che mi avrebbero portato tanti doni.
Filippo Spina classe 1895 partì clandestinamente per gli Stati Uniti. Aveva solo vent’anni. Già bracciante agricolo, col dono di saper leggere e scrivere, seguiva con trepidante interesse i piccoli focolai di rivolta che i contadini del nord accendevano contro i padroni sfruttatori del loro non calcolato lavoro. Aveva visto partire ragazzini appena quindicenni per il fronte ove si consumava la Prima guerra mondiale. Quindicenni siciliani sbranati dalla loro prima neve!
Una guerra che non li riguardava. Non avevano avuto mai a che fare con gli austriaci. Non sapevano perché gli austriaci fossero i nostri nemici, mentre i padroni delle terre che zappavano, dallo spuntar del sole fino all’incombere del buio, non venissero considerati tali.
Non sono certo che fu la codardia. Piuttosto, furono l’incoscienza e il coraggio a fargli prendere la decisione di imbarcarsi su un piroscafo canadese, per poi attraversare clandestinamente il confine USA per raggiungere Chicago. Gli avevano detto che lì era facile fare fortuna.
John Okolo classe 1986, nigeriano; Jamel Nour classe 1995 bengalese; Vittoria Sanson, 1996, di Urmi, nigeriana. Anche a loro è stato detto che in Italia era più facile trovare la fortuna e poter mandare soldi a casa per far studiare la loro figlia fino a farla diventare maestra!
Il Bangladesh non è grande! È troppo piccolo per i suoi numerosissimi abitanti. Non c’è terra a sufficienza perché un anziano padre possa sfamare moglie e quattro figli. Il più piccolo, Jamel, fa il sarto, è l’unico della famiglia a lavorare. Dalla campagna raggiunge ogni mattina Barisal, dove ha trovato un lavoro come sarto. Due dollari al giorno da portare a suo padre che, oltre ai suoi fratelli, adesso, deve occuparsi pure di Beaula, dalla quale Jamel, un anno fa, ha avuto una figlia. Troppo pochi per non trovare il coraggio di affrontare un viaggio fino in Libia, dove ad attenderlo c’è una barca che, dopo tre giorni di tirare acqua – per non affogare nel cimitero liquido che è diventato il mar Mediterraneo – lo scaricherà in Sicilia.
John ha perso due fratelli in una delle continue rappresaglie che colpisce il suo villaggio. Prende madre, moglie e figli per lasciare un’inspiegabile guerra che dura da prima che lui nascesse. Lagos, la capitale della Nigeria, spaventa tutta la sua famiglia: troppo grande e troppo caotica per accorgersi di loro. Anche per lui solo è troppo costosa per trovarsi un ricovero. Sarà un incredibile safari a portarlo in Libia; e poi, dopo una costosa crociera attraverso il Mediterraneo su un fatiscente natante, viene recuperato da un peschereccio siciliano che lo farà arrivare fino a Lampedusa.
Vittoria innamorata di Paul, lo sposa con in grembo una creatura. Scampata ad un eccidio nel paese di Urmi, scappa in Libia, insieme al marito, portandosi dietro le cicatrici che ha sul collo e tutto quello che ha, per trovare il modo di arrivare in Europa.
Al centro di accoglienza “La Locanda”, poco distante da Selinunte, viene alla luce Stella, una bambina di quasi quattro chili. È verso il cielo di quella notte che Vittoria rivolge la sua preghiera perché sua figlia, italiana, possa essere per sempre libera e felice!
Sia John che Jamel che Vittoria hanno da poco finito di lavorare alla raccolta delle olive. Hanno fatto quello che, ormai, gli italiani non vogliono più fare. Tre euro a cassetta è la loro retribuzione. Tutti soldi che, ormai, non hanno più in tasca perché spediti alle loro mogli, madri, figli.
Figli che vorrebbero non facessero mai la vita che hanno fatto loro al di là del mare, dove si parla una lingua incomprensibile, dove si mangiano cibi sconosciuti sia al palato sia allo stomaco, che non digeriscono e che causa loro dolori e coliche anche quando sono lontani da qualsiasi servizio igienico, in campagna, sotto gli ulivi.
Spesso lasciano il cibo, che viene loro distribuito due volte al giorno, nelle stesse confezioni in atmosfera protetta, per darlo in pasto ai cani randagi che girano intorno al loro centro d’accoglienza. Consumano più volentieri la verdura che trovano in campagna, la frutta. La mangiano mentre guardano, quasi sempre, partite di calcio alla TV nel grande salone, una volta hall dell’albergo, che li ospita.
Una parte dello stesso salone viene usato, tutti i pomeriggi, come aula scolastica, dove volenterose ragazze impartiscono lezioni di lingua italiana: frasi elementari da usare per farsi capire. Il salone non è molto luminoso e la scolaresca si riunisce sotto la vetrata dalla quale si vede anche il mare. Quasi tutte le piccole stanze, usate nell’albergo come singole, ora abitate da quattro persone, sono rivolte verso il mare. Mare che a molti ricorda la tragedia e che a tutti regala la speranza. E John, con lo sguardo assente e perso all’orizzonte, diretto verso il mare, immagina di vedere la sua Africa e magari sua figlia già grande fare la maestra. Almeno, tutto ciò sarà servito a qualcosa!
Ah! dimenticavo: ma Salvini lo sa che il nonno del nonno di suo nonno era africano?
Anni fa, una persona che ebbi modo di stimare purtroppo per poco tempo, mi disse: “Se vuoi avere una buona conoscenza delle cose nel loro insieme, devi guardarle con gli occhi di un falchetto.”
Usò proprio questo termine: “falchetto”.
Se voli al di sopra delle cose, se rimani sospeso su di esse, particolari insignificanti perderanno valore e noterai, invece, il loro vero significato. L’Uomo, con la storia che si porta dietro.
“Nel buio siamo tutti uguali.” (WILLIE -Fabio Bavetta). Lorenzo, un giorno magari te lo farò leggere.
Nel frattempo, per quello che vale, beccati tutta la mia stima e ammirazione…
Un abbraccio…