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Il Mediterraneo. Il popolo del deserto nei campi profughi sahrawi

copertina di   Silvana Grippi

Il Sahara Occidentale è una regione desertica situata nell’Africa del Nord, un territorio conteso dal Marocco che attualmente lo occupa. I suoi abitanti sono “Sahrawi” (abitanti del deserto), che  in parte vivono nei campi profughi di Tindouf, in Algeria. Questa popolazione dal 1974 è alla ricerca dell’affermazione della propria identità. Con loro ho stabilito un rapporto di stima e fiducia e, per motivi di studio, ritorno spesso a valutarne i progressi e i cambiamenti.

Il mio primo contatto avvenne nel 1990, quando visitai il popolo Sahrawi in Algeria: scoprii un mondo di umanità inattesa. Per la prima volta arrivai ad El Ayun, la capitale, insieme a mio marito in moto, stanca e contenta di avere superato tutte le barriere e finalmente scoprire cosa c’era oltre il confine “vietato”. Nel centro di El Ayun si alternavano strade larghe e nuove con edifici a calce bianca ed altri color “terra di Siena”. Le case vecchie in stile spagnolo, con patio e terrazze, non contrastavano con le nuove costruzioni. La gente cordiale ci indicò i luoghi da visitare.

foto1Continuato il viaggio e valicato da Occidente l’ultimo dosso di pietrisco, ci apparve Smara, la città santa circondata da dune e pietre scure. Ultima tappa è stata Dahkla, il più grosso porto peschereccio dell’Atlantico, dove sopravvivono piccoli mestieri di artigianato locale. A Dahkla ho osservato un’invasione di turisti dello sport acquatico in corrispondenza di uno sviluppo produttivo rivolto alla pesca in mare aperto, sostenuto da trattati internazionali. Dakhla è stata scelta come città strategica per la sua posizione e come modello di riferimento economico e sociale.foto2

Il popolo del deserto, dopo secoli di adattamento, si trova oggi di fronte a situazioni che ne segneranno il destino negli anni a venire. L’epoca dell’indipendenza politica delle tribù, delle grandi minoranze, è tramontata. Parlando con la gente del luogo, mi sono resa conto che le ripetute trasformazioni hanno cambiato sostanzialmente e in modo irreversibile un intero contesto sociale. La diversa organizzazione socio-economica, le sue nuove priorità, lo sfruttamento minerario, l’urbanizzazione, l’arrivo di nuovi beni di consumo hanno creato bisogni economici e sociali che prima non esistevano, contrapponendo il più delle volte nuovi modelli ai vecchi. La mutata condizione non ha comportato, da parte della popolazione sarhawi dell’ex Sahara Occidentale, un’integrazione totale, tanto è vero che questa gente si è spesso autorelegata in una posizione di marginalità conseguente al rifiuto di accettare il governo centrale marocchino, che puntava proprio su Smara come “biglietto da visita” da presentare alle Nazioni Unite e all’Africa per introdurre il discorso del New Deal sahariano.

1 bis

La diffusione dell’integralismo religioso e i fenomeni di emigrazione/immigrazione, nonché le tensioni etniche un tempo insospettabili, riconducibili alla contrapposizione di interessi, rischiano di creare dappertutto un terreno conflittuale. C’è da augurarsi una pronta risoluzione dell’ONU che riesca a mettere fine al contenzioso.

2bisDi estremo interesse è quello che avviene nei campi profughi, le cui novità più rilevanti sono nuove forme di organizzazione sociale, non più fondate su rapporti tribali ma egualitarie tra famiglie che convivono nella stessa comunità, sebbene provenienti da zone diverse. Agli antichi legami si è sostituito un funzionamento più democratico, prevalendo una forma di associazione diretta da membri della comunità stessa, eletti non in base a criteri di gerarchia tradizionale (tribali), ma di qualità che permettono lo sviluppo di legami sociali così che la solidarietà riveste un ruolo preminente: le famiglie bisognose sono le prime a beneficiare delle iniziative intraprese.

A parte gli interessi che determinano queste scelte nelle relazioni internazionali, il Sahara Occidentale è attualmente inesistente, poiché da parte dell’Organizzazione per l’Unità Africana manca la volontà di passare da una condanna verbale a un’azione decisa contro il Marocco, considerato elemento di stabilità dell’ordine internazionale dominante nell’area regionale. Quindi al Marocco spettano momentaneamente lo sfruttamento del suolo e del mare, mentre alla popolazione sahrawi resta l’amarezza dell’attesa nell’esilio.

foto3Negli ultimi viaggi che ho fatto sia nel territorio del Sahara occidentale, che nel campo profughi (attraverso le province provvisorie), ho conosciuto alcune famiglie sahrawi che mi hanno ospitato: così ho potuto trascorrere la vita di tutti i giorni insieme alle persone incontrate. A Dakhla mi sono ritrovata sola in una città diversa da come l’avevo conosciuta. Per avvicinarmi alla popolazione autoctona ho dovuto inoltrarmi nei piccoli quartieri adiacenti al porto. L’invito a oltrepassare la porta di casa mi è stato fatto solo una volta: e così ho potuto conoscere Samir e sua moglie Jasmine che ancora attendono il ritorno di loro padre che vive al di là del muro. Cos’è il muro? Si tratta del muro più grande al mondo (2720 km), dopo la Muraglia Cinese. È stato costruito dai militari marocchini per non far più rientrare i profughi ed è fatto di terra e fango. Si stima che vi siano disseminate lungo tutto il suo perimetro circa 6000 mine anti-uomo.

foto4Naturalmente Samir mi ha spiegato che sanno come oltrepassare il muro e che quindi l’incontro tra alcuni familiari avviene di nascosto. Tuttavia, continua Samir, al momento la convivenza con il Marocco è pacifica. I vicini di casa vengono da Marrakech e Samir ci lavora spalla a spalla nell’unico ospedale del centro. Che dire quando già da due generazioni le fazioni opposte condividono la stessa terra? 

foto 8Nel viaggio successivo ho conosciuto Saida e Sukina, due sorelle la cui famiglia era arrivata dalla lontana città di Dakhla, e mi sono letteralmente innamorata della loro storia. Saida è nata nel campo profughi della dayara di Dakhla, ma non ha mai visto la sua “vera Dakhla”. La madre ha attraversato il deserto a piedi con il padre per scappare dall’occupazione del ’74, andando a costituire il Fronte Polisario in esilio. Nei suoi occhi si vede ancora la paura e con la voce rotta dal pianto mi racconta della madre lontana, ormai vecchia. Per loro è impossibile tornare, ma aspettano ancora il referendum di autodeterminazione che dovrebbe restituire la libertà a lei e a tutta la sua famiglia.

Jasmine ha insegnato il “Touiza” alle sue figlie e ne è orgogliosa. La parola Touiza fa riferimento ad una antica tradizione conosciuta in quei paesi: si tratta di un canto con movimenti di danza che aiutavano a rendere più armonioso il lavoro collettivo, una specie di auto-aiuto nel momento della semina o del raccolto. Il Touiza è anche il nome di una festa che si riallaccia ai riti agricoli.

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Nel Sahara, una volta, dopo che gli uomini avevano tosato cammelli e capre, le donne si riunivano per lavorare la lana. Così avvenne la trasformazione di questi passi, che con il tempo divennero “danza corale” e quindi “festa collettiva”. Un ruolo antropologico fondamentale spetta al gesto che rende partecipe teatralmente la collettività.

foto 5Ho assistito ad un racconto/spettacolo accompagnato da voce e tamburo. Inizia con l’azione delle donne che puliscono la lana e la battono per ammorbidirla, poi la posano in pacchetti, uno sopra l’altro, e la cardano, inginocchiandosi con la mano destra sopra la spalla (mossa dall’alto in basso e viceversa), filano la lana e l’arrotolano in gomitoli per realizzare tappeti, tende e abiti.
In altri momenti di danza/teatro, si vede passare un giovane uomo, gli gettano una palla per invitarlo a partecipare. Lui ripete gli stessi gesti delle donne e balla insieme a loro, attirato da quell’entusiasmo. Alla fine le donne lanciano alcune palle tra il pubblico per invitarlo ad unirsi al loro sforzo comune.

foto 7All’improvviso, il gruppo scompare con un movimento ordinato. In questo evento si esalta la gioia del lavoro comune. In un altro giorno di festa si mette in scena un’altra danza: inizia così la celebrazione per la nascita della RASD, la Repubblica Araba Saharawi Democratica, uno Stato proclamato nel 1976 dal Fronte Polisario e parzialmente riconosciuto da alcuni Paesi del continente africano. Si tratta di un cerimoniale avvolto da un’atmosfera sognante. Sul palco salgono tante donne: la ragazza, vestita di bianco con il capo coperto da un velo di tulle nero, apre le danze.

foto 9Tutto il rito viene accompagnato da gesti di una estrema raffinatezza formale. Il ricordo di questi due momenti di festa non cessano di mettermi in difficoltà, sia nello scrivere che nel riflettere su come sia possibile parlare in maniera oggettiva della autodeterminazione dei popoli. Mi emoziono ancora al pensiero del loro rispetto della tradizione, nonostante la diaspora che stanno vivendo.  Queste foto descrivono un momento di vita vissuta insieme a loro.

Dialoghi Mediterranei, n.13, maggio 2015

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Silvana Grippi, di origine familiare siciliana, vive e lavora a Firenze. Laureata in Geografia presso la facoltà di Lettere di Firenze,  è viaggiatrice fin dal 1976, attualmente reporter per l’Agenzia DEApress. Autrice di  numerosi reportage giornalistici e fotografici, ha documentato Paesi dell’Africa e del Medioriente, dal Maghreb al Mashrek, avvicinando popoli, etnie e piccole tribù. Ha pubblicato i suoi diari di viaggi e ha recentememte inaugurato una mostra di sue fotografie a Firenze presso la Galleria del Palazzo Medici Riccardi.

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