di Giuseppe Cuttitta
E sì, la testa divide ciò che lo stomaco unisce. Forse, se si imparasse a ragionare con i gorgoglii dell’apparato digerente, nel Mediterraneo – ma non solo – ci sarebbero meno guai. È il cuscus che unisce etnie e popoli che la politica, le ideologie e le religioni non riescono a mettere insieme. Un piatto che di paese in paese aggiunge e toglie accenti, consonanti, trattini con abbondante condimento di kappa ed esse – dal kuskus della Costa d’Avorio al cuskusso e al francese cous cous fino al cùscusu trapanese – ma che a tavola, qualunque sia la grafia, fa tutti contenti. Edmondo De Amicis testimonia questa dicotomia testa-pancia già nel 1876 nel suo libro Marocco, bello e dettagliato, combattuto fra etica ed estetica.
«Nemmeno il cuscussu – scrive l’autore di Cuore – il piatto nazionale dei mori, fatto con grano tritato della grossezza della semola, cotto a vapore e condito con latte o brodo – perfido simulacro di risotto – nemmeno questo famoso cuscussu, che piace a molti europei, mi è riuscito d’inghiottirlo senza cangiar colore. E ci fu qualcuno di noi che, per punto, mangiò di tutto! Cosa consolante, la quale dimostra che in Italia ci sono ancora dei grandi caratteri». Ma in un’altra pagina il grande Edmondo contraddice, meglio smentisce, quanto scritto definendo il cuscus «piatto di principi e di popolo». Forse scritture su due pietanze diverse: una preparata da un cattivo cuoco, l’altra da uno chef da Gambero Rosso.
A diffondere per primi questa pietanza nel Mediterraneo furono gli arabi delle grandi conquiste. Poi tra il ‘600 e la fine del ‘700 continuarono i “corallari”, i pescatori di corallo genovesi di Pegli che risiedevano nell’isola di Tabarka, di fronte all’omonima città tunisina vicina al confine con l’Algeria. Questi uomini di mare, imbarcando fra le provviste anche un cospicuo quantitativo di kuskussù, lo fecero “peregrinare” in Spagna, Francia, Sardegna, Liguria e altri pezzi d’Europa.
In Sicilia arrivò massicciamente, nella seconda metà dell’800, grazie anche ai corallari trapanesi che partivano in maggio alla volta delle isole di Tabarka e della Galìte – fondali ben conosciuti dai pescatori mazaresi – sui loro “ligudelli” e “coralline”, e tornavano carichi di pescato in settembre per attraccare alla “porta di Serisso”. E con il corallo entrava anche il cuscus, con aggiunta di accento sulla prima sillaba e una bella u finale. Questo piatto è l’alimento tradizionale di tutto il Nordafrica, al punto che lo si potrebbe definire “piatto nazionale” dei Berberi. In gran parte di Tunisia, Algeria, Marocco e Libia è conosciuto semplicemente col nome arabo “taʿām”, cibo.
Oltre che nel Maghreb, è molto diffuso anche nell’Africa Occidentale, in Francia (secondo piatto preferito dai francesi), in Belgio e anche nel Vicino Oriente (in particolare in Israele tra gli Ebrei di origine maghrebina). In Giordania, Libano e Palestina viene chiamato “maftūl”, cioè ritorto per via delle manovra di polso che fanno i cuochi nel prepararlo.
A Trapani (territorio con intensi legami economici e sociali negli ultimi due secoli con Tunisia e Libia) e nelle zone limitrofe come Favignana e San Vito Lo Capo, il cùscusu è divenuto di uso quasi quotidiano. La semola è “incocciata” e cotta a vapore in una speciale pentola forata di terracotta smaltata, messa sopra un’altra pentola con l’acqua aromatizzata che bolle, il tutto “sigillato” con farina impastata per evitare dispersione di vapore. Questa “cuscusiera” classica oggi è sostituita da quella meno fragile di alluminio.
Ma il condimento, a differenza di quello maghrebino (carne di montone, verdure), è la gghiotta, un brodetto di scorfano rosso, scorfano nero, cernia, pesce san Pietro, vopa, gallinella, lùvaro e anguilla delle saline, insieme a qualche gambero o scampo. Naturalmente, questa costosa zuppa può altrettanto saporitamente essere sostituita con quella di pesce più povero, cioè quella della ghiotta nell’altro significato, soprattutto mazarese, che indica quel poco di pesce al quale ogni pescatore ha diritto alla fine della “bordata”.
Altra versione del cùscusu, in particolare a Marsala e Mazara del Vallo, sono i frascàtuli, palline di semola condite con brodo di pesce. Nell’entroterra trapanese il cùscusu o le “frascatole” sono cucinati anche in una zuppa di cavolfiore, fave, carote, ceci e verdure varie. Variante anche della cucina sarda chiamato frègula.
Piatto della pace tra i popoli del Mediterraneo con estensione anche a Paesi del settentrione africano, del Medio Oriente sino alla Turchia, di mezza Europa e, persino in Brasile e Stati Uniti, dopo il riso e gli spaghetti – noti anche come maccheroni – è forse la pietanza più diffusa del mondo, anche con aspetti pacifici e rituali. I novelli sposi dei popoli del Maghreb in occasione dei banchetti nuziali ricevono come pietanza simbolica di conclusione il “cuscus permesso”, che li autorizza alle follie della prima notte, purché ne conservino un po’ da offrire ai poveri.
Preparare e consumare cuscus nel mondo islamico è pure un rito religioso. Spesso offerto ai poveri in occasione dell’elemosina, è anche il piatto tradizionale del pranzo del venerdì (giorno della preghiera collettiva musulmana) e delle occasioni speciali, come la festa del ritorno dei pellegrini dalla Mecca. Il Corano dispone che il cuscus venga mangiato con sole tre dita della mano destra per distinguersi dal diavolo che lo mangia con un solo dito, dal Profeta con due e dall’ingordo con cinque. Pierre Loti, scrittore francese, viaggiatore e ufficiale di marina in missione nel 1889 dal sultano del Marocco a Fèz, scrive nel suo libro Al Marocco che ha assaggiato un couscous zuccherato in una doppia preparazione con pollo e pomodori canditi all’olio di argan: una leccornìa.
Ci sono altri letterati e scrittori la cui penna s’intinge nel cuscus, e pezzi teatrali e premiati film su questa pietanza più antica del Corano, nel quale è citata in più di una “sura”. In Sicilia da 18 anni si svolge il Cous Cous Festival di San Vito Lo Capo, un appuntamento settembrino fra cuochi di molti Paesi mediterranei, musica, arte, danze orientali per rinnovare l’incontro fra diverse culture accomunate dal cuscus. Alla ricerca della comprensione e della pace, attualmente difficile su tutti i Paesi dirimpettai della Sicilia.
Da sottolineare che il “cuscus trapanese” è inserito tra i prodotti agroalimentari tradizionali siciliani riconosciuti dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, su proposta della Regione Siciliana.
Dialoghi Mediterranei, n.11, gennaio 2015
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Giuseppe Cuttitta, fotografo industriale e pubblicitario palermitano. Negli ultimi anni ha esteso il suo modo di fotografare alla foto di strada (street photography) e alla fotografia di architettura e paesaggistica. Sue mostre recenti, “Mari” alla Libreria del Mare di Palermo, e una sulla festa di san Calogero a Porto Empedocle; di quest’ultima, è stato pubblicato un libro catalogo con interventi dello storico Nino Prestia e una breve intervista di Nino Giaramidaro ad Andrea Camilleri, grande devoto del Santo.
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