di Federico Costanza
Il 9 ottobre 2015 la Tunisia è balzata nuovamente agli onori della cronaca internazionale, questa volta, per un prestigioso riconoscimento. Il “Premio Nobel per il mantenimento della Pace” 2015, attribuito dal Comitato per il Nobel norvegese al “Quartetto tunisino per il dialogo nazionale”, ha riacceso i riflettori sul Paese da cui hanno preso avvio, almeno ufficialmente, le cosiddette “Primavere arabe”
L’annuncio del premio non ha soltanto ridestato l’attenzione verso il Paese nordafricano, colpito nei mesi scorsi da duri attacchi terroristici di matrice islamista, ma ha riaperto il confronto in seno alla società tunisina fra i promotori della rivolta del gennaio 2011 (i movimenti di protesta) e coloro che ne hanno raccolto i benefici politici successivamente.
La rivoluzione tunisina, nota in Occidente come “rivoluzione dei gelsomini”, termine mai accettato dai protagonisti dei movimenti che quella rivoluzione l’hanno vissuta sulla loro pelle con gli arresti e le repressioni, fu soprattutto una “rivoluzione della dignità (karama)”, la dignità di un intero popolo di riprendere in mano la propria storia. Quell’esperienza è infatti ancora vissuta da quei protagonisti come una questione aperta: c’è chi parla di “rivoluzione tradita” e di un lungo percorso ancora da compiere per un completo cambiamento. Alla società civile, vera protagonista di quella storia, con i suoi movimenti di protesta, le sue battaglie per i diritti civili e i martiri dimenticati, si è affiancata una politica del compromesso e dell’opportunismo.
La storia della Tunisia di questi ultimi quattro anni è perciò più complessa di quello che può sembrare e va affrontata per gradi. Innanzitutto, il momento del “Dialogo nazionale”, e quindi del cosiddetto “Quartetto” è apparso inevitabile già all’indomani delle elezioni dell’ottobre 2011, quando, dopo mesi di preoccupazioni e scontri anche accesi durante la campagna elettorale, il risultato delle urne palesò un primo momento di tensione fra la “piazza” che aveva alimentato i movimenti e animato la rivolta e i vincitori di fatto della tornata elettorale, gli islamici del partito Ennahdha (la Rinascita).
Il compromesso della Troika – Ennahdha che prese il controllo del Governo, il CPR del Presidente della Repubblica ad interim Marzouki e il partito Ettakatol del Presidente dell’Assemblea Costituente Ben Jaafar – aveva ben presto spaccato la società civile, coagulando il dissenso dei movimenti laici, usciti sconfitti dalle elezioni. Un’analisi più profonda della società civile tunisina a quel tempo fa capire come i sostenitori di Ennahdha siano riusciti ad avanzare in un segmento rilevante della popolazione, in quella classe media popolare, magari precedentemente esclusa dal controllo del potere e pronta ad attribuirsi un nuovo ruolo. Quel successo seguiva un trend piuttosto chiaro in tutta la regione e attribuiva al movimento dei Fratelli musulmani un ritrovato spazio politico nel nuovo scacchiere arabo, con il beneplacito, peraltro, degli osservatori stranieri. In Tunisia, parte della classe dirigente dominante nell’organizzazione politica ed economica del Paese, che per decenni aveva retto il potere tramite lo storico partito unico “costituzionale”, veniva messa in discussione.
Molti elementi hanno caratterizzato questa prima fase di transizione nella giovane democrazia tunisina post-rivoluzione: lo stallo nei negoziati sulla stesura del nuovo testo costituzionale; una situazione economica che si andava aggravando in un contesto inflattivo, di disoccupazione e debito pubblico crescente; la pressione politica sul governo Ennahdha e la mancanza di chiarezza sulle riforme da intraprendere; ma soprattutto la recrudescenza del fenomeno integralista con aggressioni violente da parte di gruppi di estremisti religiosi (spesso, nella sospetta accondiscendenza di eminenti figure vicine alla Troika al potere), assumendo un ruolo sempre più determinante le moschee e il proselitismo religioso all’interno delle classi popolari; nonché il problema dei tanti giovani tunisini andati a ingrossare le fila delle milizie islamiste impegnate nei combattimenti nella vicina Libia post-Gueddafi o in Siria.
Il 2012 e il 2013, i due primi anni di transizione democratica, sono stati anni di forti perplessità sulla tenuta della società tunisina, che ha palesato la fragilità del sistema politico: la violenza ha raggiunto il suo parossismo in occasione degli attacchi salafiti al mondo della cultura, l’occupazione dell’Università La Manouba, l’impunità delle azioni violente delle Leghe per la Protezione della Rivoluzione, l’assalto all’ambasciata americana, l’assassinio dei due leader di sinistra Chokri Belaïd e Mohamed Brahmi. Questi due ultimi omicidi, parallelamente all’evolversi della situazione al Cairo, dove un colpo di stato aveva di fatto rovesciato il potere dei Fratelli musulmani riportandolo nelle salde mani degli apparati militari, hanno spinto alcune forze della società civile ad accelerare i negoziati per l’approvazione della bozza costituzionale (peraltro del tutto bloccata a quel tempo), aprendo anche a quelle componenti politiche e sociali in un primo tempo escluse.
L’idea del dialogo nazionale è stata a lungo invocata dall’UGTT (Union Générale Tunisienne du Travail), il maggiore sindacato tunisino fondato da illustri esponenti della storia repubblicana come Farhat Hached, Habib Achour o Ahmed Tlili, che con Bourguiba furono i protagonisti della lotta per l’indipendenza del Paese dalla Francia. Il sindacato è spesso stato il collante fra i movimenti sociali e i gruppi dirigenti e anche stavolta è stato il primo a lanciare la proposta del dialogo nazionale.
Subito dopo l’estate del 2013, in un clima politico pesante caratterizzato da minacce e dalla paralisi dell’Assemblea Costituente, i timori attorno all’esperienza tunisina cominciarono a crescere e, anche su pressione internazionale, fu accolta la proposta di far incontrare UGTT e UTICA (l’organizzazione padronale degli industriali tunisini), la Lega Tunisina dei Diritti Umani (LTDH) e l’Ordine nazionale degli avvocati, alcune fra le principali organizzazioni della società civile tunisina, a formare il famoso “Quartetto”.
Il successo di questo ritrovato clima di dialogo e composizione sociale fu l’approvazione in breve tempo della bozza costituzionale e la sua promulgazione fra gennaio e febbraio 2014. I partiti di maggioranza – alcuni fra essi avevano, peraltro, ormai quasi interamente disperso la forza elettorale, come dimostrato dalle elezioni legislative dell’autunno successivo – accettarono obtorto collo la nuova situazione, facendo un passo indietro. L’instaurazione di un governo “tecnico” apriva una nuova fase di ottimismo. A chiudere questa transizione, iniziata a fine 2011 dopo le prime elezioni libere e democratiche della storia tunisina, si sono svolte nell’ottobre 2014 le elezioni dell’Assemblea dei Rappresentanti del Popolo e la proclamazione a Presidente della Repubblica nel novembre seguente del decano ultraottantenne Beji Caid Essebsi, già politico di spicco delle ere Bourguiba e Ben Ali, e leader del nuovo partito di maggioranza “Nida’a Tounes”. Veniva acclarato ormai definitivamente il rientro nel sistema politico di una parte della vecchia classe dirigente tunisina, e dalla porta principale tra l’altro.
Si chiude allora il cerchio: la rivoluzione aveva smantellato e rovesciato un sistema clanico di controllo del potere (Ben Ali e i Trabelsi); la vecchia classe dirigente formatasi nell’alveo del grande partito “dusturiano” costituzionalista (il Neo-Dustur e l’RCD delle ere Bourguiba e Ben Ali) aveva provato a riprendere le redini del Paese all’indomani della fuga dell’ultimo dittatore; il voto elettorale e le ingerenze internazionali avevano spinto al potere un nuovo gruppo dirigente che non aveva partecipato alla rivolta; ma l’implosione del sistema interno e gli accadimenti esterni (le sconfitte dei Fratelli musulmani nel post-Primavere arabe) avevano nuovamente stravolto i giochi, suggerendo un compromesso che preservasse la fragile transizione tunisina.
La svolta positiva nel processo di costruzione democratico non riesce però a cancellare le tante ombre che, nel frattempo, si sono allungate nel percorso: un Paese afflitto da un’economia stagnante, lontana dai tassi di crescita fittizi del passato dittatoriale, che cela disparità e ingiustizie e che non ha risolto quasi nessuno degli annosi problemi che la contraddistinguevano anche prima. Rimane altissimo il tasso di disoccupazione fra i giovani diplomati, rispetto a una popolazione fra le più scolarizzate del mondo arabo, maturata però in un sistema scolastico svilito dalle continue e spesso schizofreniche riforme. L’inflazione galoppante dai giorni della rivolta, soprattutto per i generi di maggior consumo, non cessa di intaccare i risparmi di una delle più solide classi medie del mondo arabo. Senza contare l’allargamento della percentuale di famiglie che vivono sotto la soglia di povertà, costrette a migrare dalle regioni meno sviluppate dell’interno verso le più ricche città costiere, costrette ad alimentare, spesso, il contrabbando di strada.
A questo scenario, cui i governi di transizione non hanno saputo porre rimedio, si è aggiunta la crisi di uno dei settori trainanti dell’economia nazionale, quello del turismo. Già in grave recessione all’indomani della rivoluzione del 2011, il settore turistico è stato travolto dalla scia di attentati che hanno insanguinato la Tunisia ultimamente. Prima ancora dei tragici attacchi del 2015, dalle ambasciate straniere sono rimbalzate, seppur sommessamente, le notizie delle imboscate alle pattuglie dell’esercito tunisino sulle montagne al confine con l’Algeria, dell’infiltrazione di diversi gruppi di terroristi islamici in varie regioni, della circolazione di armi, di qualche attentato fallito e diversi “fatti minori”, a indicare lo stato di un Paese in costante fibrillazione e non del tutto risparmiato dalla minaccia terroristica. La pervicacia e un grande senso di patriottismo da parte del popolo tunisino hanno incoraggiato i tour operator stranieri a sostenere ancora il mercato turistico e convinto gli investitori a restare: la Tunisia rappresentava – e rappresenta ancora – un baluardo alla terribile offensiva dell’estremismo islamico.
Tuttavia, il duro colpo degli attentati al Museo del Bardo (marzo 2015) e a Sousse (giugno 2015) si è fatto sentire, soprattutto perché è andato a colpire le debolezze del governo in materia di sicurezza e di determinazione nella lotta al terrorismo, sottolineandone le incertezze. La minaccia terroristica rimane la ferita più dolorosa per i tunisini, un vulnus aperto nella fiducia che essi ripongono nella loro rivoluzione. Al di là degli aspetti puramente statistici delle cifre che inchiodano la Tunisia di fronte a un’amara realtà, è proprio lo spirito patriottico del popolo tunisino a esser rimasto offeso. Migliaia i giovani jihadisti tunisini andati a combattere in Libia e Siria, o addestrati anche all’interno del territorio tunisino per preparare attacchi contro obiettivi sensibili e stranieri. Una scelta di campo che non è mai stata fino in fondo compresa dai tunisini stessi. Una sorta di tradimento alla rivoluzione e alle sue speranze.
Eppure, il disagio della condizione sociale e la diffusione di una propaganda estremista di stampo religioso rappresentano un dato di fatto incontrovertibile nella nuova Tunisia post-Primavera araba. La politica, che ha a lungo alimentato tensioni e cesure sociali, non ha saputo indicare modelli alternativi a questa massa di giovani e giovanissimi costretti a scegliere fra radicalismo e fuga dal Paese. Fuga solo sognata spesso, quasi sempre impossibile in maniera legale, ineluttabile soluzione a un malessere e a una condizione sociale priva di prospettive. Il fatto che i terroristi tunisini, nella maggior parte dei casi, fossero studenti o provenissero da una classe popolare non così povera dà esattamente il senso di quello che rappresenta il radicalismo di matrice terroristica oggi nei Paesi islamici: la causale religiosa è semplicemente la mimetizzazione di una frattura interna a queste società.
In un contesto sociale così frammentato, il dialogo nazionale tunisino premiato con il Nobel dissimula una moltitudine di problematiche non risolte, a cominciare dalle istanze che i movimenti sociali hanno identificato durante e dopo la rivoluzione del gennaio 2011. L’arresto, già l’indomani della proclamazione del premio Nobel al “Quartetto”, di quindici attivisti a Sidi Bouzid, città simbolo dove si immolò Bouazizi e partì la rivolta tunisina, denuncia che lo scontro sociale è ancora attuale. E fra le parti del conflitto vi è la polizia che perpetua ancora i sistemi di repressione tristemente utilizzati durante la dittatura e si oppone fortemente a un processo di riforma interno, costituendo l’ennesimo blocco sociale di questo mosaico complesso.
Agli occhi dei movimenti di protesta il connubio fra lo Stato, rappresentato da una classe politica desiderosa solo di preservare lo status quo dei decenni precedenti, e i repressivi apparati polizieschi dimostra che il cammino da fare è ancora lungo prima di poter parlare di “modello di successo”. Il premio Nobel non sembra infatti tener conto della condizione dei diritti civili in Tunisia in questo momento. La rivoluzione ha permesso di affrancare il dissenso dalla censura pubblica, ma l’acquisto delle nuove libertà spesso appare come una chimera. Un variegato dibattito ha investito la Tunisia in questi ultimi mesi sulla riforma di molte leggi che favoriscono la repressione e la perpetuazione di condotte discriminatorie, spesso basate più su costumi e consuetudini piuttosto che sulla normativa in sé. È il caso della legge che persegue i comportamenti omosessuali, che ha condotto allo scontro fra il Ministro della Giustizia – poi dimessosi – che proponeva la riforma in senso depenalizzante della norma e il Capo del Governo, Essebsi, impegnato a mantenere l’alleanza con i partiti islamici; oppure la riforma della legge che criminalizza il consumo di droghe leggere, spesso usata per mirare a precisi obiettivi e neutralizzare militanti e attivisti.
In questi giorni si susseguono ancora arresti di musicisti, semplici militanti, si reprimono duramente cortei pacifici, si lotta nei tribunali per combattere la piaga del lavoro minorile: è il caso di un gruppo di blogger e giornalisti portati dinanzi a un giudice per aver denunciato lo sfruttamento di una minorenne per i lavori domestici in una casa borghese di Tunisi. Un esempio che ben descrive la precarietà dei nuovi diritti civili sanciti dalla Costituzione, oggi che non si è ancora istituita una Corte Costituzionale che vigili sul rispetto della Carta.
Accuse ancor più forti dinanzi al clima di riconciliazione accompagnano la campagna portata avanti dal celebrato “Quartetto”. Il dialogo nazionale in atto ha offerto infatti lo sfondo per proporre un grande disegno di amnistia dei reati economici legati alla corruzione del vecchio regime. Un “perdono di Stato” con l’intento di riconciliare il tessuto sociale e di sbloccare lo stallo dell’economia nazionale e dell’industria, ma che – accusano gli attivisti di Manich Msameh (Io non perdono) – cela la volontà della vecchia classe dirigente di tornare a occupare tutti i gangli del potere pubblico, ostacolando proprio le riforme invocate dai movimenti sociali e auspicate dal dettato costituzionale. La nuova legge contro il terrorismo, votata nell’urgenza dei giorni seguenti la tragedia del Bardo, ripropone un quadro normativo liberticida che potrebbe preconizzare un ritorno a vecchie pratiche e la progressiva messa a tacere delle componenti esterne al sistema di potere.
C’è comunque un punto che differenzia i tunisini da altri popoli nel mondo arabo ed è la consapevolezza di far parte di un’eccezione, la capacità di serrare le fila nei momenti più difficili e continuare a sorprendere per caparbietà e spirito di adattamento. Come un pugile capace di incassare i colpi e cercare la vittoria ai punti, la società civile tunisina è impegnata e lavora instancabilmente sia internamente che al di fuori dei confini nazionali. Al contrario di Paesi al collasso come Libia, Siria o lo stesso Egitto piegato sotto la cappa militare, la società tunisina riesce spesso a trovare la via stretta per promuovere nuove forme di lotta e mobilitazione.
I tunisini hanno ormai compreso che la loro “nazione” può essere considerata alla stregua di un brand che permette di mantenere alta l’attenzione su questo piccolo Paese. L’attribuzione del premio Nobel al “Quartetto” è perciò un momento di orgoglio che può rappresentare anche uno stimolo per dimostrare che l’evoluzione delle società arabe, e di quella tunisina in particolare, all’indomani delle effimere Primavere, è ancora in atto e merita l’attenzione e la comprensione di tutto il mondo.
Dialoghi Mediterranei, n.16, novembre 2015
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Federico Costanza, si occupa di europrogettazione e management strategico culturale, con un’attenzione specifica all’area euro-mediterranea e alle società islamiche. Ha diretto per diversi anni la sede della Fondazione Orestiadi di Gibellina in Tunisia, promuovendo numerose iniziative e sostenendo le avanguardie artistiche tunisine attraverso il centro culturale di Dar Bach Hamba, nella Medina di Tunisi.
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Quasi tutto molto veritiero e corrispondente a quanto realmente accaduto nel post rivoluzione. Differente é ls mia interpretazione di quanto occorso nel 2014. La composizione del parlamento e il nuovo Capo dello Stato rispecchiano la realtà politica tunisina. Anche questo significa dare libero spazio alla Democrazia. O pensi forse che Ghannusci e El Nadha si sono zittiti solo perché gli hanno dato un paio di poltrone?