il centro in periferia
di Antonella Tarpino
Tutti noi (e in particolare forse chi si occupa in modo tangente o diretto di memoria) abbiamo sperimentato quanto, a maneggiare oggetti di ricerca delicatissimi che hanno a che fare con il passato, si sconti il pensiero unico del Presentismo che ci ha dominato in questi anni: quella dimensione dispotica e totalizzante – secondo la bella definizione non a caso di un antichista, Francois Hartog – di un Presente che non riconosce altro da sé. Nessuna temporalità, né all’indietro, il passato, né in avanti, il futuro. Così da terremotare l’insieme delle macchine novecentesche su cui in molti di noi di cultura storica ci siamo formati: dalla celebre decostruzione della durata, di matrice “Annaliste”, in varie temporalità accelerate o decelerate sino al dispositivo del futuro-passato di Reinhardt Koselleck fondato su un’idea del tempo posto all’incrocio tra esperienza e aspettativa.
Aspettative che oggi per i più sensibili, si riducono alla flebile speranza che si possa salvare, nonostante i segnali siano tutt’altro che incoraggianti, almeno la vita sul pianeta nell’età dell’Antropocene. L’esperienza, si sa, in stato critico fin dai tempi di Benjamin, oggi è vanificata pesantemente da una galoppante realtà sempre più virtuale. E sotto la minaccia di un ingordo presente (dal latino prae, ciò che sta davanti a me, secondo la posa di un corpo in corsa, piegato nello slancio della fuga) anche termini come “durata” (feticci di epoche più profonde) si sono sfarinati, persi in una sorta di non-sense progressivo. Per non parlare di un termine come “tradizione”.…
Il passato è ormai un Paese straniero, secondo una nota formula, talvolta è un nemico come appare tra le righe di un’intervista su un quotidiano nazionale a un giovane brillante che si occupa di economia digitale ritratto insieme a Mattarella in una foto ufficiale: «Chi non ha il pensiero del passato – afferma – sa come affrontare le sfide dell’economia di oggi che richiedono aggiornamenti veloci». È proprio ciò che preoccupa invece tanti, più assennati, che vedono nelle scelte di “brevitempismo” (così denominava “gli aggiornamenti veloci” nei suoi studi sul Finanzcapitalismo Luciano Gallino) il pericolo che minaccia la possibilità stessa di scelte economiche e politiche responsabili capaci di misurare le ricadute che queste (tanto più se calcolate esclusivamente sull’immediato) possono avere sul corpo sociale.
È così che in una sorta di genocidio lessicale – e non solo –, il nostro Presente che ha sempre ragione, sotto il segno ultratemporale di un Nuovo intento, con stanca ritualità, a celebrare quasi inerzialmente se stesso, ci troviamo a fare i conti con una inedita Viralità – non alludo a reti e social–ma a quella più drastica e minacciosa, delle antiche pestilenze per alcuni di sapore biblico, per altri anche solo Tre-Seicentesche. Una contesa letale che sembrava fuori corso, quella fra il “Sempre Nuovo” del presente e il “Vecchio-vecchio” del passato si è improvvisamente materializzata nel Coronavirus (scritto tutto attaccato come fosse un prodotto da pubblicizzare).
Si pensi anche al ritorno del significato originario “vecchio” di molti dei termini che rimbalzano sui nostri schermi o tra le colonne dei giornali. Nel riferimento continuo al contagio che cresce (anche qui non parliamo di reti telematiche), nella riscoperta centralità dei corpi (perché sono i corpi a rischio e questa che si profila non è una “realtà aumentata) nell’emergere di immagini seminconsce, un Vecchio-vecchissimo quasi di specie, che affiora sotto le parole dei politici o biopolitici più disarmanti (i topi di Zaia in effetti, che solo lui ha visto divorati vivi dai cinesi, erano sì causa epidemica ma in relazione alla peste del 1348).
È vero che, a ben pensarci, non è la prima volta che sprofondiamo nel minaccioso fronte a fronte tra Nuovo, globale e Vecchio-vecchissimo. Torniamo per esempio al 2001 e all’attacco delle Torri Gemelle: un crash davvero simbolico tra il monumento per eccellenza del Nuovo e le sue torri e il volto che immaginiamo velato dei terroristi di Al Qaeda. Non uno scontro fra civiltà quanto piuttosto il cortocircuito tra l’idea di inespugnabilità che ci eravamo fatti del nostro Mondo e il “virus” di un terrore un po’ enigmatico che si è installato per qualche decennio nelle nostre vite.
Forse, vien da pensare, siamo proprio noi Presentisti, pieni di certezze ma in fondo con vista corta, che il passato – mutante anche lui certamente (i virus come le ideologie) – non lo vogliamo vedere come se non accompagnasse la nostra vita, non fosse tutto intorno a noi, nel paesaggio che ci circonda col suo volto benevolo, inoffensivo, fragile, al più. Fragile quel passato che dà forma ai tanti luoghi ai margini, in sofferenza, ai piccoli borghi spesso spopolati, con le loro rovine a vista (penso soprattutto alla montagna povera) e che tuttavia ci parlano ancora, sono «un racconto in piedi» come dice Marc Augé a differenza delle “macerie” mute novecentesche, i tanti vuoti industriali per esempio che si sono aperti nelle città del Nord. È quello il Passato di un Presente che si pensava immortale, transtemporale, e che invece come le Torri gemelle si è accasciato su se stesso (per sua stessa mano verrebbe da dire).
Io credo che quel racconto ancora in piedi dei piccoli borghi e dei nostri paesaggi finiti ai margini dello sviluppo industriale nel corso del Novecento dovremo ascoltarlo. È tra quei luoghi fatti di culture secolari – ora, ci ammonisce Andrea Zanzotto, divenute in gran parte “invisibili” a noi stessi – che forse può sperimentarsi il Futuro-passato di Koselleck, dove ad esempio esperienze e innovazione tecnologica possono intrecciarsi. Secondo un progetto di vivere condiviso attento alle continuità e insieme ai cambiamenti, alle rotture. E dove innovazione vuol dire sia apportare conoscenze nuove sia organizzare in modo diverso vecchi saperi (è il caso, in particolare, delle innovazioni in campo agropastorale e delle recenti formule di ritorno ai terreni abbandonati), con la consapevolezza che il futuro è un’ibridazione fra culture che hanno a che fare non solo con know how tecnici ma con piú complessivi processi di ordine sociale. E ciò che appartiene al tempo trascorso può essere invece riscattato, oltre le cesure, e le discontinuità del tempo come un mondo carsico di potenzialità sì sommerse ma, al tempo stesso, capaci di esprimere potenzialità diverse, incompiute eppure «suscettibili di future realizzazioni» come afferma Vito Teti nel suo Quel che resta…
Ecco che nel Ritorno ai territori fragili il passato viene ogni volta rifunzionalizzato sovvertendo anche i perimetri tradizionali delle polarità geografiche del Presente dispotico: centro e periferia, margini. Perché tanto più le geografie, i luoghi, lo spazio, insegnavano gli storici come Lucien Febvre, sono immersi nel tempo, lungo lunghissimo e non irrigiditi o ridotti a citazione nei vademecum del turismo in un Presente ingannevole quanto distruttivo. «Porre il centro in periferia – sull’onda del Walter Benjamin proposto da Pietro Clemente – invece di sviluppare il periferico a partire dal centro» è propriamente l’idea che non a caso ispira la Rete dei piccoli paesi. Perché è tempo che siano i territori delle periferie finite ai margini, divenuti fragili, a definire nuove centralità basate non sulla intercambiabilità dei territori ma sulle differenze territoriali intese come risorse. Verso quel che Clemente chiama una nuova civilizzazione che ridia un senso alla nostra storia e ai nostri luoghi. Forse dalle neocomunità devastate dall’onda anomala del Coronavirus, e strette intorno ad amministratori non votati solo alla propaganda, medici, volontari, rinascerà una forma diversa dell’abitare? Della nostra “coscienza di luogo” ogni volta ripensata, sperimentata nel tempo?
Dialoghi Mediterranei, n. 43, maggio 2020
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Antonella Tarpino, editor e saggista ha pubblicato: Sentimenti del passato, La Nuova Italia 1997; Geografie della memoria. Case, rovine, oggetti quotidiani, Einaudi 2008; Spaesati. Luoghi dell’Italia in abbandono tra memoria e futuro, Einaudi 2012; Il paesaggio fragile. L’Italia vista dai margini, Einaudi 2016. È vicepresidente della Fondazione Nuto Revelli e fa parte della Rete dei piccoli paesi.
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