di Giovanni Ruffino
Vi fu un momento, un quarto di secolo fa, in cui mi resi intimamente conto che il mio rapporto con la realtà (le persone, le cose) stava drasticamente cambiando. Ovviamente il “trauma” non riguardava soltanto me, ma anche quanti non ne erano pienamente consapevoli. Furono particolarmente due le percezioni “traumatiche”: l’iniziale irrompere della rivoluzione telematica e l’affermazione del berlusconismo come metodo, dalla politica alla comunicazione. Fu così che in una notte insonne scrissi “Il paese degli specchi”, che un grande artista come Enzo Venezia volle illustrare, facendomi uno dei doni più belli da me ricevuti. La breve nota linguistica conclusiva sull’imbroglioneria, più che disvelare la metafora, peraltro dichiarata nella formula MONITOR NON SPECULA, recupera il mestiere del linguista, fino a quando questo mestiere non apparterrà anch’esso al passato.
«C’era una volta, ai piedi di un alto monte ricco di robusti cerri, un paese chiamato Speculònia. Questa terra di Speculònia si distingueva per una sua condizione specialissima: era un paese di specchi e i suoi abitanti altro non facevano che specchiarsi da mane a sera. Penserete forse a una sorta di crudele costrizione, e invece no, non era in alcun modo una imposizione – o almeno così sembrava – , ma la condizione stessa dell’esistere, tanto che tutto il restante (il nutrirsi, il riposare, il fare all’amore) veniva relegato a marginale accidente. Specchi dappertutto dunque: un firmamento di specchi nel breve spazio di Speculònia. Provatevi a immaginare questo mondo: specchi di cristallo di rocca, lucenti, levigati, purissimi. Specchi quadrati, ancorati cioè alla terra; specchi rotondi, proiettati verso la volta del cielo; specchi ottagonali, che in quella suggestiva simbologia rappresentavano il segno massimo di una compiuta armonia.
Entro questo universo lucente si dispiegava la vita di quei fortunati. Gli abitanti di Speculònia ignoravano ogni forma diretta del comunicare, e praticavano una speciale forma di Speculazione come alto esercizio di indiretta conoscenza: colloquiavano solamente attraverso le immagini riflesse. In tal modo (attraverso, cioè, questa pratica della speculazione collettiva) si presumeva di eliminare l’angoscia generata dalla conoscenza di sé e di considerare semmai gli specchi come attributi della veritas e della prudentia. Accadeva dunque che, quando un giovinetto e una fanciulla destinati ad unirsi si accingevano al rito del primo incontro, entravano da due opposte aperture dentro a una grande sala, e, invece di correre subito ad abbracciarsi, consumavano questo loro primo atto di conoscenza comunicando attraverso le loro immagini riflesse in un grande specchio quadrato situato in fondo all’ampio luogo, conosciuto come «Sala del grande specchio», o anche «Sala degli amorosi sguardi riflessi».
Questa filosofia della Speculazione come grado più alto della conoscenza, era presente sin nelle pieghe più intime del sentire e del pensare. Inoltre, al confine estremo di quella terra, in alto, sulla grande porta ottagonale di specchi fulgenti, si potevano leggere queste parole: «Come il sole, come la luna, come l’acqua, come l’oro, sii chiaro e lucente e RIFLETTI ciò che è nel tuo cuore».
In questo straordinario luogo non c’erano leggi né signori, e men che meno primi ministri, consiglieri comunali o forze dell’ordine. Gli abitanti, poi, non avevano – come comunemente accade – un loro nome, cognome o soprannome. Quest’ultima circostanza potrebbe apparire del tutto incomprensibile se non la si collocasse nel contesto: i riflessi speculari sono tanto mutevoli da riverberare di una medesima persona immagini sempre dissomiglianti, un se stesso ogni volta diverso. In queste condizioni, dunque, che senso avrebbe avuto far corrispondere alla mutevolezza delle immagini riflesse la immutabilità di un nome, di un appellativo?
Quanto al resto, esisteva, a dire il vero, un Essere che – pur non potendosi definire sovrano, nè principe, né primo ministro della terra di Speculonia – esercitava su quella gente una sorta di potere oscuro, un potere che non si esprimeva attraverso azioni, parole, gesti, ma che ognuno percepiva in maniera distinta e al tempo stesso indefinibile e vaga. Sulla vera natura di quell’Essere si congetturava, indotti ora dalla paura ora dalla speranza, e così talvolta si concepiva come un’Entità crudele e malvagia; talaltra come un’Essenza indefinita, tutta quanta disposta a contemplarsi sotto forme molteplici, quasi ad esprimere la facoltà di potersi da se stessa determinare: una sorta di GRANDE FRATELLO.
Di questo Essere misterioso e tetro, che si diceva vivesse sulla sommità del più alto monte di Speculònia, si conosceva – tramandato da padre in figlio – il nome soltanto, LOKI, anch’esso indecifrabile e inquietante. Non meno indecrittabile era poi la scritta che si leggeva all’ingresso della sua cupa dimora:
ROT IN OM NON ALU CEPS
messaggio che gli abitatori di Speculònia sentivano carico di cupe minacce.
Vivevano poi, precipitati in un anfratto profondo dell’alto monte, altri due Esseri, uno di natura maschile, l’altro femminile, stupefancenti più che misteriosi. I loro nomi erano Endàch ed Endàche, che nella lingua di Speculònia volevano dire «essere vuoto», «essere fatto d’ombra». E infatti Endàch ed Endàche erano esseri del tutto incorporei, definibili come «uomo ombra», «donna ombra», condannati a vivere in quella insana spelonca perchè soltanto colà s’erano potuti modellare nella cristallina rocca uno specchio perfettamente triangolare, il solo capace di riflettere anche i non corpi.
Endàch ed Endàche erano però sentiti come esseri non malefici e, per quanto si ignorassero le ragioni di quella loro straordinaria natura, si percepiva attorno ad essi un oscuro sortilegio, un malefico e inestricabile viluppo.
Per il restante, a Speculònia tutti erano, o sembravano, eguali: vivevano per specchiarsi e si specchiavano per continuare a vivere. Tutto il resto non contava. Vigeva però un solo divieto, un divieto drastico, assoluto, inappellabile: nessuno mai, in alcun modo o in alcun luogo, avrebbe potuto specchiare quella tal cosa di sé che si trova dentro e che si chiama COSCIENZA.
Sicché mai nessuno, a Speculònia, avrebbe potuto dire di un suo simile: «costui possiede una specchiata coscienza». Anzi, a dire il vero, tutti sussurravano di coscienza e di coscienze, ma nessuno sapeva in realtà cosa fosse di preciso, e i più la ritenevano una sorta di bolo gelatinoso e fluttuante, situato tra la radice del collo e l’ombelico.
Comunque sia, la proibizione era crudele, dal momento che gli abitanti di Speculònia erano convinti – pur non sapendo con precisione di cosa si trattasse – di avere delle magnifiche coscienze, e ciò li rendeva desiderosi, anzi bramosi di rimirarle nel più terso degli specchi. Ma nonostante ciò, il divieto veniva rigidamente osservato, e mai nessuno aveva osato trasgredirlo.
Viveva a Speculònia una fanciulla di rara bellezza. Era piccola di statura, ma tanto ben costruita nelle membra, da apparire flessuosa e slanciata come un giovane ornello. Il suo passo era leggero e al tempo stesso risoluto e sicuro come quello di una gazzella, tanto che i giovinetti guardavano la immagine riflessa di lei con ammirato desiderio, e le fanciulle sue coetanee con malcelata invidia. Aveva capelli neri e lucenti, e due occhi verdi di straodinaria trasparenza si incastonavano in un viso dolcissimo, ornato da due labbra morbide e coralline. Questa splendida fanciulla – come tutti i comuni abitatori di Speculònia – non aveva un suo nome, e dunque d’ora in poi (per comodità e anche per nostro diletto) la chiameremo IEL.
IEL non era felice. Da quado il suo amante e sposo le aveva sussurrato che, oltre alle sue tante grazie, anche la coscienza doveva essere di straordinaria bellezza e assai desiderabile, ad altro non pensava, e con crescenti tormenti, che a scoprirne le fattezze riflesse in uno specchio.
E così, tra angustie, patimenti e inesaudite pulsioni, attraversò tutta la piena giovinezza. Quando però giunse al suo trentesimo anno, la voglia divenne tanto travolgente che un giorno deliberò di rinserrarsi all’interno della grande sala dello specchio quadro, pronta a consumare la più inaudita delle trasgressioni. Cominciò a denudarsi piano, tutta tremante, e quando rimosse l’ultimo velo potè vedere riflesso nella luminescente galassia dello specchio quadro quella sua limpida, tersa coscienza. Dopo un primo momento di ammirato stupore, volle pienamente conoscere, anzi scrutare quella parte sinora ignota di sé, e così si contemplò a lungo, esplorandosi sin nell’intimo. Stava ancora indugiando, estasiata, quando uno spaventoso boato annunciò il più sconvolgente degli eventi, e quel firmamento di specchi andò in frantumi nel volgere di pochi attimi, sprofondando quelle terre nella più tetra oscurità e i suoi abitatori nella più grande prostrazione e in un cupo presagio di morte.
IEL comprese di essere stata la causa di un immane disastro: la sua trasgressione aveva dovuto in qualche modo turbare gli equilibri che governavano quel mondo, o forse si era spezzato un qualche misterioso incantesimo. E così trascorse molti giorni e molte notti nell’angoscia di vedersi morire tutti intorno e di morire essa stessa nella desolazione di quei luoghi prima così lucenti. Quando però venne la luna piena (che è, a volerci pensare, il più fascinoso degli specchi), ebbe un sussulto nel ricordarsi all’improvviso del vecchio saggio (si diceva avesse cinquecent’anni), che viveva in un eremo quasi inaccessibile.
Si mise in cammino, e dopo aver affannato per tutta la notte al chiarore del plenilunio, raggiunse sfinita e dolente la dimora di quello straordinario vegliardo.
Costui, come si è detto, viveva in totale isolamento ormai da molto tempo, ma nonostante ciò era in grado di conoscere tutto quanto accadeva nelle terre sottostanti, e dunque conosceva anche la terribile sventura che aveva sconvolto la vita di Speculònia e dei suoi abitanti. Il vegliardo però non ne aveva subìto conseguenza alcuna giacché il solo specchio della sua dimora, forgiato in levigatissimo bronzo, aveva resistito al totale e improvviso sconvolgimento.
IEL gli si gettò ai piedi supplicandolo di aiutarla, e così il gran vegliardo, con espressione severa e al tempo stesso benevola, si dispose a lustrare quel suo magico specchio. Lo lustrò a lungo, sino a quando non apparve nella tersa superfice bronzea la misteriosa frase che campeggia davanti alla dimora del truce LOKI: «Se riuscirai a sciogliere l’enigma di questa scritta – disse il vegliardo – ogni cosa si risolverà».
Per quattordici giorni e quattordici notti (tanti ce ne vollero perché la luna ritornasse piena) IEL tentò in ogni modo di sciogliere l’arcano. Ma alla fine ogni segreto fu disvelato e l’oscuro messaggio fu sciolto:
MONITOR NON SPECULA.
Stava tutta qui la ingannevole illusione, nel motto malefico, anch’esso capovolto, rovesciato nei riverberi di quella globale speculazione.
A questo punto avvenne un altro fatto mirabile e inatteso. Quelle parole girarono vorticosamente su se stesse come inghiottite nel fuoco dello specchio, da dove alfine riemersero nuovi ammonimenti:
L’UOMO SI SERVE DEL BRONZO COME SPECCHIO
L’UOMO SI SERVE DEL PASSATO COME SPECCHIO
L’UOMO SI SERVE DELL’UOMO COME SPECCHIO
Subito dopo una grande luce inondò quelle terre e tutti quanti si destarono come da un sonno lungo e profondo, mentre il castello di LOKI sprofondava in un’abissale voragine.
Ma l’evento tra tutti più straordinario fu di vedere i due ESSERI OMBRA (Endàch ed Endàche) riacquistare i loro copri e le loro sembianze, e ancor più straordinaria fu la storia che essi raccontarono.
Romeo e Italia (così si chiamavano in realtà), erano stati, cento e cento anni prima, due amanti felici, sino a quando LOKI, il vanìdico ingannatore, invaghitosi della bella Italia, cominciò a tormentarla nelle forme più ossessive. E siccome la sua turpe bramosia era interamente volta a concupirla, ogni notte proiettava la sua mano nei grandi spazi eterei che lo separavano da lei. Quando però questo iniquo rito dell’etere ferito venne alla fine interrotto dalla coraggiosa fanciulla, la quale con un affilato coltello tranciò di netto quella orrenda propaggine, scattò la vendetta di quell’essere mostruoso, dalla cui mano mozzata si riprodussero milioni di monitor / specchi, mentre Italia e Romeo furono tramutati in vuote ombre. Tutti poi ebbero quella crudele condanna di trascorrere la loro esistenza a specchiarsi e specchiarsi sino alla più folle alienazione e a una totale sottomissione.
Ma ora, dopo lo smarrimento della fittizia speculazione, il lungo incantesimo era finito. Italia e Romeo tornarono ad amarsi e IEL (così continueremo a chiamarla), acclamata regina di Speculònia, decretò che tutti quegli orribili, oppressivi strumenti fossero distrutti, e che da quel momento ci si dovesse soltanto specchiare reciprocamente negli occhi. E se un fanciullo o una fanciulla avessero desiderato di compiacersi della propria coscienza, avrebbero potuto farlo specchiandosi negli occhi del proprio amante.
In breve tempo gli occhi di quella brava gente divennero grandissimi e più lucenti degli specchi di cristallo di rocca; e con un altro decreto della sempre più amata regina, Speculònia cambiò il suo nome in Oculònia, e tutti gli Oculonesi vissero da quel momento felici e contenti».
Dialoghi Mediterranei, n. 43, maggio 2020
Nota linguistica
Cerretano è la forma antica (e antiquata) di ciarlatano, parola ricostruita per etimologia popolare su ciarla ‘discorso vano, chiacchiera’. La vera origine di cerretano è il toponimo Cerreto (amena località umbra, ben lontana sia dalla Brianza, sia dalla Valle dei Templi). Cerreto di Spoleto era nota nel Medioevo per i suoi venditori ambulanti inclini alle truffaldinerie. Ce lo spiega già Ludovico Antonio Muratori nelle sue “Dissertazioni sopra le antichità italiane”:
Il nome di ‘cerretani’ ebbe origine da Cerreto, terra del Ducato di Spoleto, perchè di là gran copia di ciarlatani solea uscire.
La prima attestazione risale al sec. XV, ed è di Antonio Pierozzi, noto col nome di S. Antonino di Firenze:
Ippocrito fa tal simulazione per aver grandi e grosse limosine senza molto bisogno, sotto nome di giusto e buono, come i cerretani, dei quali piuttosto si potrebbe dire, che vanno rubando e ingannando.
Da qui una fantasmagoria di accezioni, quali ‘accattone professionale’, ‘venditore ambulante che all’occorrenza si improvvisa medico, chirurgo, dentista, e ricorre a trucchi, giochi di destrezza ed espedienti sbalorditivi per spacciare meglio la sua merce e la sua opera’, ‘truffatore, imbroglione’. Interessanti anche i derivati: cerretanare ‘imbrogliare’, cerretanerie ‘ciarlataneria’, cerretanesco ‘ciarlatanesco’.
Ecco là in piazza una bandieraccia sopra certo banco cerretanesco alla cui ombra si riducono i mezzi disperati e tutti i falliti (Pietro Aretino).
Il campo semantico dell’imbroglioneria merita qualche spicciola notazione.
Imbrogliare e imbroglio si caratterizzano per una ricca serie sinonimica con una gran varietà di registri, livelli d’uso e tonalità espressive. Già in latino l’imbroglione disponeva di un buon numero di eccellenti sinonimi: CIRCULATOR, CIRCUMFORANEUS, NEBULO, BLATERO, VANIDICUS, VANILOQUUS, VENDITATOR, CIRCUMSCRIPTOR (e alcuni altri). Per la lingua italiana c’è l’imbarazzo della scelta, lungo una scala che va dal livello familiare ed espressivo a quello spinto e triviale: aggiratore, bìndolo, cavalocchio, (ac)chiappaminchioni, parabolone, gabbaminchioni, garbuglione, lostofante, mastroimbroglia, mestatore, truffatore, vendifròttole, vendifumo, fànfano, truffaldino, gabbamondo (e i romaneschi magliaro e pataccaro, da patacca ‘grossa moneta di scarso valore’). E per imbrogliare: bindolare, fottere, fregare, turlupinare, buggerare, buscherare. Per il siciliano potremo servirci del generico (e italianeggiante) mmrugghiuni (con la variante mmrugliuni e l’espressivo mmrugghiunazzu), ma se si vuole si può ricorrere anche agli arcaici e meno generici ciarmaturi e ciràulu, e all’esotico bazzariotu (con z sonora, come in bazar).
Può essere anche utile qualche postilla etimologica.
La voce imbrogliare (costruita su brogliare ‘far brogli’) è un francesismo (broullier, ‘mescolare’, da brod, parola di origine germanica da cui anche l’it. brodo). Bìndolo (da cui abbindolare) è anch’esso un germanismo (windel ‘argano’) e propone la metafora dell’arcolaio (strumento che (rag)gira). Farabolone è alterazione di parabolone ‘chiacchierone che molto promette e poco o nulla fa’. Garbuglione va con garbugliare e garbùglio ‘intreccio, viluppo intricato’, voci di orgine incerta (dalla famiglia BULL(I)ARE ‘far bolle’? rifacimento espressivo di voci come guazzabuglio, subbuglio?). Lestofante equivale ‘garzone(fante) lesto’ (anche di mano). Fànfano è voce toscana di origine espressiva, semanticamente e formalmente simile a fanfarone, che però è un ispanismo del 1600 (fanfarron). Fregare da FRICARE con senso di imbrogliare, discende dal significato di rubare, attestato sin dal secolo XVI. Turlupinare deriva da Turlupin, nome di famoso comico francese del 1600.
Buggerare (di cui buscherare è deformazione eufemistica) deriva dal latino mediev. BULGERU, BUGERU varianti di BULGARU ‘bulgaro’, che assume poi il significato di ‘eretico’ e ‘sodomita’ (nel medioevo i Bulgari erano considerati eretici. Inoltre, nella concezione medievale e dantesca, le pene infernali sono consimili per eretici e sodomiti).
I termini siciliani ciràulu e ciarmaturi richiamano entrambi atmosfere di incantesimo e di fascinazione. Ciràulu era l’incantatore di serpenti, e continua il grecismo latino CERAULA ‘suonatore di corno’, significato che in Sicilia e nell’Italia meridionale ha assunto un senso stregonesco. Ciarmaturi deriva dall’antico francese charmer, che continua il latino tardo CARMINARE ‘fare incantesimi’, da CARMEN nel senso di ‘formula magica’ (francese charme e italiano ciurmare, ciurmerìa, ciurmatore).
Monitor è voce inglese (monitor screen ‘schermo avvisatore’), penetrata nell’italiano intorno al 1960 (inizialmente nella forma monitore). Attraverso la voce inglese, anche forme come monitoraggio, monitorare, monitorizzare. Tutte queste voci appartengono alla grande famiglia etimologica del latino MONERE (con ADMONERE, MONITOR, MONITUM): ammonire, mònito, monitore, ammonizione, ammonimento.
Due esempi, uno istruttivo, l’altro beneaugurante:
Coloro che sono di mala natura, non si muovono per ammonimenti a far bene
(dal “Tesoro” di Brunetto Latini, volgarizzato da Bono Giamboni nella seconda metà del sec. XIII).
Ebbi due o tre ammonizioni, poi fui sospeso dall’impiego; poi fui destituito (G. D’Annunzio).
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Giovanni Ruffino, ha insegnato Linguistica italiana nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Palermo, di cui è stato Preside dal 1998 al 2007. Il suo prevalente impegno scientifico è rivolto alla dialettologia, alla geografia linguistica, alla sociolinguistica e alla lessicografia. È direttore del Centro di studi filologici e linguistici siciliani e responsabile del progetto ALS – Atlante Linguistico della Sicilia –, nonché promotore e fondatore dell’“Archivio delle parlate siciliane”. È componente del Comitato scientifico della “Rivista Italiana di Dialettologia (Bologna) e di “Geolinguistique” (Grenoble). Dal 2017 è accademico ordinario dell’Accademia della Crusca. Autore di numerose pubblicazioni, ha recentemente dato alle stampe un Profilo linguistico della Sicilia e con Roberto Sottile Parole migranti tra Oriente e Occidente.
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