E se la ricchezza non desse la felicità?
Vorrei provare a raccogliere l’invito alla discussione lanciato da Fabio Dei nel numero di settembre, in merito al rapporto difficile, quasi imbarazzato, che l’antropologia sembra avere con la nozione di progresso. Condivido l’impostazione di quell’intervento e ne riprenderò alcuni temi, a partire da una delle questioni di fondo, quella della valutazione qualitativa delle società umane, facendo riferimento al modo in cui approcci antropologici molto diversi fra loro finiscono ugualmente incagliati in una concezione di “Occidente” più statica e monolitica del suo corrispettivo nel mondo reale.
Nel suo articolo, Dei menziona due grandi argomenti usati per mettere in dubbio quello che le società occidentali moderne hanno chiamato progresso. Il primo ha a che fare con la crisi ambientale: come può vantarsi di essere particolarmente progredito un tipo di società che sta rischiando di compromettere l’abitabilità stessa del pianeta? Il secondo ha a che fare con la diseguaglianza e l’oppressione: il benessere di cui ci si vanta è in realtà ottenuto solo da alcuni a scapito degli altri, si basa cioè su una serie di rapporti di dominio e di espropriazione, a cominciare da quelli coloniali e di classe. Dei ha evidenziato i limiti di queste posizioni, e in proposito rimanderei il lettore al suo testo. Ma se a venir messo in discussione fosse lo stesso benessere? Se si provasse a negare che quello delle moderne società di mercato sia superiore a quello di altri gruppi umani, a dubitare, in sostanza, che siamo davvero noi i ricchi, i felici, i fortunati? È un terzo argomento che si potrebbe aggiungere ai due già menzionati. Per la verità si ritrova spesso intrecciato ai precedenti – per cui saremmo al tempo stesso rapaci, distruttivi e anche disgraziati – ma credo che abbia una linea sua, e che per certi versi sia particolarmente radicata nell’antropologia. Del resto, si può capire che un dubbio del genere attecchisca bene in una comunità accademica come la nostra, in cui non è raro vivere esperienze di condivisione temporanea di stili di vita bollati come “arretrati” o marginali – che tuttavia l’etnografo impara almeno per alcuni versi ad apprezzare, spesso in modo profondo. Sarebbe comunque sbagliato ridurre la cosa a un’adesione sentimentale, legata solo a una pratica professionale peculiare, o eventualmente alla vecchia, potente retorica che, da Tönnies in poi, attraversa tutta la storia delle scienze sociali contrapponendo rapporti comunitari “autentici” a schiaccianti meccanismi sociali. Oltre a tutto questo, infatti, c’è chi nella documentazione etnografica ha trovato ragioni per sospettare che il nostro non sia affatto il migliore dei mondi disponibili.
Un sospetto del genere risulta più incisivo se non si limita a considerazioni moraleggianti o esistenziali, ma utilizza criteri di valutazione più obiettivi. Cosa c’è di meglio, allora, che discutere del benessere materiale, all’interno di un discorso sui sistemi tecnologici e di sussistenza, con uso di dati quantitativi e comparazioni ad ampio raggio? Il risultato può essere addirittura clamoroso, se si prende come contraltare un modo di vita che – semplicisticamente, ma tenacemente – è stato trattato come il grado zero della civiltà, una testimonianza vivente del contesto paleolitico: quello dei cacciatori-raccoglitori. Così è andata, naturalmente, nel famoso convegno del 1966 Man the Hunter (Lee, De Vore 1968) e in particolare nel contributo di Marshall Sahlins sulla cosiddetta “Original affluent society”, poi confluito con varie modifiche nel suo L’economia dell’età della pietra (Sahlins 1972). Graeber e Wengrow – su cui tornerò più avanti – lo definiscono «con molta probabilità il più influente saggio antropologico mai scritto», riconoscimento eloquente, anche se forse troppo impegnativo per un testo così breve e anomalo. Classifiche a parte, è comunque legittimo considerare lo scritto di Sahlins un importante riferimento per tutta una linea di pensiero, forse addirittura per un diffuso senso comune antropologico, che tende a considerare i tradizionali motivi di vanto della modernità come frutto di un’illusione etnocentrica.
Questo non significa che, almeno nel caso di Sahlins, ci si trovi di fronte a un panegirico della vita nomade, della frugalità, o di un’autenticità perduta. La cosa interessante è che si tratta piuttosto di una pacata, razionale e divertita riflessione sui limiti del nostro buonsenso. Il suo tono ostentatamente leggero, con ampio ricorso a paradosso e ironia («È curioso che gli Hadza, prendendo lezione dalla vita, e non dell’antropologia, rifiutino la rivoluzione neolitica per salvaguardare i loro agi»; «Siamo portati a ritenere poveri cacciatori e raccoglitori perché non hanno nulla; ma forse proprio per questo dovremmo ritenerli liberi» – Sahlins 1972, trad. it.:39 e 26), non sfigurerebbe in un trattatello illuminista, di quelli in cui talvolta i “costumi dei selvaggi” potevano servire da pretesto per un’argomentazione di filosofia politica o morale. Malgrado le controversie susseguitesi negli anni sui criteri di misurazione del tempo di lavoro, sulle disponibilità caloriche, o sulla varietà della dieta, l’intero saggio ruota intorno a un unico argomento di fondo, niente affatto empirico, anzi sostanzialmente a priori. Fatti salvi i beni necessari – ossia la sussistenza, che per i foraggiatori è assicurata se il territorio sfruttabile è abbastanza ampio e loro abbastanza pochi – quali siano i beni desiderabili o irrinunciabili è in ultima analisi una questione culturale. Che sia quindi semplicemente razionale procacciarsi un’ampia gamma di beni materiali accettando di far parte di un sistema di divisione del lavoro complesso – e non di rado opprimente – è un’illusione etnocentrica. Sintetizzando con una battuta del saggio diventata proverbiale: che ragione c’è per zappare la terra, quando a portata di mano ci sono tante noci di mongongo?
È interessante che Sahlins, pur girando fin dall’inizio intorno al problema dell’etnocentrismo, non cerchi affatto di mettere tutto relativisticamente sullo stesso piano – altrimenti non potrebbe arrivare al punto che gli sta a cuore. Da una parte, presenta la società acquisitiva come efficiente nel procurare in abbondanza ciò che sul piano culturale è desiderabile, a cominciare dall’ampia dotazione di tempo libero su cui ha insistito Richard Lee (1979). Dall’altra, il nostro sistema, col suo principio di adattare mezzi per definizione limitati a fini (desideri, bisogni) tendenti a crescere all’infinito, è visto come costitutivamente incapace di produrre qualsiasi tipo di soddisfazione: «Scarsità è la sentenza emanata dalla nostra economia – e non solo, anche il suo assioma» (Sahlins 1972, trad. it.: 16). Si potrebbe sintetizzare dicendo che la nostra società, secondo Sahlins, ha frainteso il significato di benessere e di abbondanza. In questo modo un discorso in partenza relativistico si traduce in una diagnosi negativa, basata su un argomento razionale, in merito all’ideologia di mercato occidentale. Credo che se ha senso tornare su questo vecchio e notissimo saggio – a parte il recente richiamo da parte di Graeber e Wengrow – sia proprio per il modo in cui cerca di far coesistere la critica dell’etnocentrismo da cui prende le mosse con una presa di posizione politica basata su un giudizio che si suppone dotato di validità universale. Mi pare che parte importante del rapporto tra l’antropologia e la categoria di progresso risenta di questo genere di ambivalenza, ma anche di una certa, più recente difficoltà a gestire la nozione di Occidente.
Forse non vale nemmeno la pena di ricordare che sessant’anni fa, nel momento in cui Sahlins parla dei foraggiatori della Terra di Arnhem o del Kalahari in termini di società del benessere, è ancora in piedi, pur mostrando ormai crepe profonde, un vecchio ordine delle cose. Una società bianca, ricca, tecnologicamente e politicamente dominante, e società più deboli e povere, etichettate come “etniche” e “arretrate”, sembrano ancora esistere su piani differenti. Gli uni, fra le altre cose, producono e leggono libri di antropologia, mentre di solito gli altri devono accontentarsi di esserne l’argomento e di funzionare da “reagente intellettuale” che aiuta i primi, come Sahlins, a riflettere sul proprio sistema di vita. Dopo tanti anni, questo schema dualistico è definitivamente tramontato. Non che i Paesi cosiddetti occidentali abbiano smesso di essere ricchi e in linea generale influenti, ma con tutta evidenza non si trovano più a giocare in un’arena storica separata, né sul piano intellettuale né su quello politico, e infatti la loro influenza è energicamente contrastata da altri Paesi non privi né di capitali né di tecnologia moderna. Quando fisici, ingegneri, registi, direttori generali, chef, presidenti del consiglio e antropologi (ma anche sciamani) nascono pressoché in ogni angolo della Terra, non sembra ormai del tutto ingiustificato far coincidere la modernità con il cosiddetto Occidente? Eppure questa identificazione è riuscita per il momento a sopravvivere, spesso a costo di riformularsi in termini alquanto astratti e al tempo stesso bellicosi.
Alcune di queste riformulazioni hanno a che fare anche con la produzione etnografica sulle “società semplici” degli anni Sessanta e Settanta, di cui il saggio di Sahlins, per memorabile che sia, è solo un episodio non completamente rappresentativo. Se in quel caso l’operazione appare consapevole e non priva di ironia – quella che si potrebbe chiamare una provocazione intelligente – altri autori sembrano davvero intendere romanticamente il “selvaggio” come depositario di una sorta di purezza primigenia e rigenerante rispetto alle trappole di una civilizzazione falsa e oppressiva. Uno di coloro che hanno puntato il dito contro questo atteggiamento è notoriamente Jean-Loup Amselle, in una serie di interventi pubblicati nel corso dei decenni e raccolti poi in un volume intitolato in italiano Contro il primitivismo (Amselle 2010), oltre a toccare temi simili nel precedente Il distacco dall’Occidente (Amselle 2008) e nel successivo Psicotropici (Amselle 2013). Il punto fondamentale su cui insiste Amselle è la rinuncia di questi autori a un approccio razionale e storico, col risultato che i “selvaggi” vengono definiti sulla base di ciò che non hanno: il mercato, il capitalismo, l’industria (culturale e non), la scienza e la medicina “occidentali”. Interessante è il modo in cui, tra queste felici assenze, il lavoro (che nella nostra società è un bene scarso, molto desiderato e decisamente vario nelle sue caratteristiche) diventi simbolo di pura e semplice infelicità e l’ozio, invece, sinonimo di giustizia sociale. Così, nelle pagine di autori come Turnbull o Clastres sulle società di caccia e raccolta, «gli uomini, come al Club Méditerranée, non avendo grandi bisogni, praticamente non lavorano. Quanto alle donne, sulle quale sembra gravi la maggior parte dei compiti, si rimane più discreti» (Amselle 2010 trad. it.: 30). Rispetto a questo idillio ozioso e pauperistico il vecchio progresso diventa una forza negativa, la minaccia di una degenerazione. Rétrovolutions, suona il titolo originale della raccolta di Amselle, per sottolineare che l’atteggiamento primitivista lega i suoi sogni più al passato che al futuro, in un anelito antistorico e sostanzialmente irrazionalistico.
Questi elementi andrebbero inseriti in un quadro molto più ampio. Fabio Dei ha evidenziato l’influenza nell’antropologia contemporanea di prospettive anti-illuministe, originatesi almeno in parte all’interno del pensiero di destra, ma transitate in quello di sinistra negli ultimi decenni del Novecento. Un filone di irrazionalismo che passando per gli anni Sessanta e Settanta arriva fino a oggi, trovando forse la sua incarnazione antropologica più influente nella cosiddetta “svolta ontologica”. Nell’ottica di quest’ultima la scienza occidentale, affermando di poter gettare uno sguardo oggettivo sulla realtà, trasforma i popoli che ne sono depositari negli unici autorizzati a dire come il mondo debba essere di fatto (Latour 1991). Ciò a scapito dei mondi degli altri e della loro irriducibile verità, rivendicata da questi autori con il ricorso al termine “ontologia” anziché “cultura” o “visione del mondo” (Viveiros de Castro 2012). Si può notare come la nozione di Occidente in questo percorso teorico diventi meno concreta e anche meno malleabile. Un buon esempio è il “dualismo cartesiano” che ne viene considerato la logica profonda e maligna. Questa logica profonda caratterizzerebbe inevitabilmente tutto il nostro mondo, senza lasciare via di fuga, a meno che l’incontro con l’alterità radicale non inneschi una presa di coscienza capace di aprire la strada ad altri (imprecisati) mondi possibili.
A queste posizioni anti-illuministe si contrappongono – certo con minor successo in antropologia, ma non al di fuori di questa – prese di posizione neo-illuministe come quelle di Stephen Pinker. Qui trovano spazio enumerazioni trionfalistiche e quasi rituali di conquiste scientifiche, tecnologiche, costituzionali, elenchi che di fatto riconducono il progresso a uno specifico e riconoscibile “noi”, a volte implicitamente e con qualche cautela, altre volte in modo esplicito e addirittura esibito. È anche per questo genere di retorica che in passato Dei (2013) ha paragonato Pinker al dottor Pangloss di voltairriana memoria. In queste ultime settimane abbiamo sotto gli occhi la strategia promozionale usata da Federico Rampini per promuovere il suo ultimo libro, Grazie, Occidente!, insistendo provocatoriamente sul fatto che gli “altri”, ad esempio un miliardo e quattrocento milioni di cinesi, o altrettanti indiani, o africani – questi ultimi, si sa, c’è una certa tendenza a prenderli in blocco – dovrebbero ringraziarci per tutte le buone cose che “noi” abbiamo inventato anche per “loro”.
Per quanto mi riguarda, sarebbe molto meglio sfuggire a questa cattiva alternativa, in cui il cosiddetto Occidente, proprio ora che non può più farlo nel mondo reale, continua a dominare l’immaginazione storica, in forme positive e negative spesso più simili a grida di battaglia che ad argomentazioni razionali.
Lo strano caso dello Stato moderno
L’alba di tutto di Graeber e Wengrow può servire come esempio di un terzo atteggiamento, interessato all’alterità culturale (e ai cacciatori-raccoglitori) come il primo, ma decisamente più razionalistico. L’obiettivo dichiarato è negare che la “civiltà” si sviluppi per tappe obbligate, come per esempio la “rivoluzione agricola” e le connesse innovazioni organizzative che avrebbero portato allo Stato propriamente detto. Ma i risultati sono lontani dalle premesse, se è vero che, come sostiene Dei, anche qui traspare una filosofia della storia.
Una prima cosa su cui vorrei attirare l’attenzione è che per contrastare quel che resta dell’ideologia occidentale del progresso gli autori scelgono un modello di scrittura che sembra arrivare dritto da un passato entusiasticamente razionalista. Scelgono cioè di scrivere un voluminoso trattato che insiste sul tema delle origini e allinea esempi presi da ogni tempo e ogni luogo, spesso decontestualizzati (anche perché in molti casi archeologici il contesto non è affatto chiaro), riempiendo importanti vuoti in modo congetturale, con qualche sospetto di proiezione delle proprie preferenze ideologiche e di cherry picking, e in ogni caso, ammettono gli stessi autori, offrendo un quadro «necessariamente iniquo e incompleto» (Graeber, Wengrow 2021 trad. it.: 37). Come per una strana nemesi storica, di cui L’alba di tutto in questi anni non è affatto l’unico esempio, quel “metodo forbici e colla” (Evans-Pritchard 1965) dei grandi antropologi da scrivania vittoriani, su cui siamo stati abituati a ironizzare durante la nostra alfabetizzazione disciplinare, viene recuperato e schierato in campo proprio contro la visione della storia a cui era un tempo associato.
L’antropologia e l’archeologia vengono mobilitate innanzitutto per mostrarci che le società acquisitive non sono necessariamente semplici. E questo non vale solo – come era da tempo assodato – sul piano dei sistemi simbolici e della visione del mondo, ma pure sul piano demografico, politico e organizzativo. Sempre più spesso le nuove metodologie e tecnologie della ricerca archeologica trovano indizi del fatto che piccoli gruppi del passato fossero a volte collegati in ampie reti, capaci di dar vita – almeno in modo intermittente – a grandi insediamenti, dove avevano luogo imponenti lavori collettivi e probabilmente affollate occasioni cerimoniali. Tali società evidentemente riuscivano a gestire una notevole complessità organizzativa senza diventare immediatamente civiltà idrauliche, regni, teocrazie o, peggio ancora, Stati moderni. Contro il determinismo tecnologico e contro una filosofia della storia diretta inevitabilmente allo Stato-nazione “occidentale”, questo discorso, non privo di casi e di analisi interessanti, vuole suggerire che da sempre gli esseri umani, persino nelle società letteralmente e non metaforicamente paleolitiche, hanno discusso sul piano collettivo le opzioni che avevano a disposizione. Hanno valutato accuratamente le innovazioni tecnologiche e organizzative di cui venivano a conoscenza, senza subirle passivamente ma scegliendo se e come adottarle, spesso optando per soluzioni creative ma prudenti, e qualche volta mettendo da parte le novità, per esempio se avevano a disposizione abbastanza noci di mongongo.
Nel rifiutare le grandi narrazioni di progresso, non solo Graeber e Wengrow non vogliono flirtare con l’irrazionalismo, ma costruiscono un prototipo di attore sociale universale non molto meno pensoso e razionale di quello dell’antropologia vittoriana. Solo che, anziché un “filosofo primitivo” intento a riflettere sul rapporto tra l’anima e il corpo, o tra mondo naturale e mondo sociale, abbiamo un filosofo politico e un legislatore costantemente impegnato a difendere le proprie libertà fondamentali. «L’essenza dell’umanità è racchiusa nel fatto che siamo attori politici autocoscienti», dicono Graeber e Wengrow (2021, trad. it.: 92, 125), attori che sperimentano forme originali di organizzazione «costruendovi intorno interi sistemi di valore». Si potrebbe discutere a lungo su questa centralità del momento politico e sul fatto che i “sistemi di valore” appaiano una faccenda tutto sommato secondaria e accessoria. Ma anche dando per scontato (forse benevolmente) che si tratti solo di qualche formulazione infelice e che in realtà la categoria del politico venga intesa in modo talmente ampio da consentire alla specificità culturale di esserne parte costitutiva, e non semplice contorno, rimane un altro problema.
La versione della storia umana offerta da L’alba di tutto consiste in una lunghissima carrellata di soluzioni diverse, dotate il più delle volte di un carattere abbastanza libero ed egualitario. Tale carattere – di solito, va detto, ipotetico e indimostrato – viene messo in relazione all’ipotesi che spirito di collaborazione e odio per la coercizione siano valori universalmente propri degli esseri umani. Graeber e Wengrow (2021, trad. it.: 480), in questo modo, vorrebbero anche ribaltare la triste tendenza delle scienze sociali a tradursi in “uno studio dei modi in cui gli esseri umani non sono liberi”. Dal loro punto di vista, come un po’ in tutta la produzione di Graeber, è proprio la libertà il motore fondamentale della creatività culturale. Così, quando pure riesce ad affermarsi, la regalità viene presto intrappolata in una rete di obblighi cerimoniali, la burocrazia viene elusa o limitata, alla forza, se non si può rispondere con la forza, ci si sottrae ottenendo ospitalità in un contesto meno oppressivo, col risultato di svuotare l’oppressione dall’interno e dare vita a nuove sintesi culturali. In altre parole, il consenso razionale degli “attori politici autocoscienti” pone un limite invalicabile, almeno nel medio termine, alle spinte autoritarie che il gioco dell’innovazione sociale e delle ambizioni personali ripropone in ogni epoca. Malgrado i tanti intoppi e orrori che la storia ospita, il gusto della libertà, inteso come un universale umano, rappresenta il vero fil rouge nel continuo susseguirsi delle istituzioni concrete.
Molti passaggi di questa ricostruzione rivelano uno stile di pensiero persino troppo illuministico. Il problema però (a parte la scarsità di prove) è che Graeber e Weingrow non sono disposti a spiegare con la medesima equanimità anche l’opzione moderna per gli Stati nazionali (e il lavoro salariato). Qui non troviamo un’analoga mescolanza di elementi negativi e positivi, di oppressione e di libertà, con quest’ultima che dimostra una vitalità indomabile e in ultima analisi tende a prevalere. Al contrario, come deludente risultato finale di tutta l’operazione otteniamo purtroppo l’ennesima versione dell’Occidente ridotto a mero accidente. Lo Stato moderno si sarebbe sviluppato da soluzioni innovative o d’emergenza che sarebbero dovute rimanere transitorie e l’accidente consiste nel fatto che a un certo punto queste risposte a circostanze specifiche si sono cristallizzate in un sistema dotato della forza di perpetuare sé stesso. Deve trattarsi di un accidente, perché per Graeber e Wengrow, senza nemmeno prendersi il disturbo di argomentarlo più di tanto, lo Stato “in stile occidentale” è un fenomeno puramente negativo, nient’altro che un’organizzazione coercitiva al servizio di autoritarismo e interessi capitalistici e schiavistici. Pertanto, non può che rappresentare un’eccezione, durata solo qualche secolo e che comprende solo qualche miliardo di persone, ma che, a parte questi trascurabili dettagli, poteva benissimo non apparire mai.
Nel loro discorso, il contraltare di ciò che è ma poteva anche non essere si trova in ciò che non è ma, in qualche imprecisato modo, potrebbe essere domani: altri mondi, liberi e radicalmente democratici, astrattamente possibili, ma senza il fastidio di dover indicare le forme specifiche e i modi della loro realizzazione. Difetto che comunque mi sembra persino secondario, rispetto alla povertà antropologica della diagnosi sul nostro presente. Stavolta del consenso e della creatività degli attori autocoscienti non c’è traccia, se non negli interstizi abitati da attivisti anti-sistema. Tutti gli altri si riducono a marionette senza agency, perché, come dice Graeber (2007, trad. it.: 46), «le democrazie liberali non hanno niente di simile all’agorà ateniese, ma non scarseggiano di circhi romani». In altre parole, secondo una forma mentis diffusa, che mi sembra avere un impatto estremamente negativo sullo studio antropologico del mondo contemporaneo, la propaganda spiega tutto, la coscienza politica e la creatività sbiadiscono e la cultura popolare non è che il passivo riflesso di decisioni prese dall’alto. Pensando non solo a un genere di studi che a Graeber, prevedibilmente, non piaceva – come quelli sul consumo o sulla densità simbolica di oggetti come l’automobile, o sulla complessa fruizione di media come la televisione – ma persino al modo in cui lui e Wengrow descrivevano le società non moderne, l’impasse è abbastanza evidente. Ironicamente, sembra tornare in auge una scienza sociale “triste”, capace di teorizzare solo la mancanza di libertà.
Per Graeber, in una prospettiva politicamente anarchica, a identificare l’Occidente non è il dualismo cartesiano o la scienza o la tecnologia, quanto la pervasività del Potere. Piero Vereni (2021) l’ha definita “cratofobia”: ogni autorità e gerarchia sociale è considerata intrinsecamente negativa, e tanto più negativa quanto più è istituzionalizzata e formalizzata – poco importa se in questo modo ne vengono costituiti anche gli ambiti, i limiti e i contrappesi. Una simile prospettiva di fondo, per cui lo Stato non è che il garante dei peggiori mali sociali, caratterizzava in passato autori come Pierre Clastres, che Amselle inserisce a pieno titolo fra i suoi primitivisti. Ed è proprio da Clastres che Graeber e Wengrow dichiarano di riprendere l’idea che gli indigeni siano attori politici “più autocoscienti” di noi moderni (Graeber, Wengrow 2021, trad. it.: 116), unico principio che può spiegare il diverso trattamento riservato dagli autori agli uni e agli altri. Come ho detto, mi pare che si tratti dell’idea più debole e antropologicamente dannosa del loro lavoro. Una sua conseguenza “destorificante” è che ogni altra forma statale prodottasi nella storia umana viene trattata come una prefigurazione dello Stato di tipo occidentale moderno, il più accuratamente formalizzato, quindi il più totalizzante e il peggiore di tutti. È così, mi pare, che un discorso che vorrebbe costituire un antidoto alle filosofie della storia, finisce per costruirne una, anche se di segno opposto.
Rimangono disgraziatamente in secondo piano alcune linee di ragionamento più promettenti. Penso in particolare al tentativo di disaccoppiare la nozione di progresso da quella di “Occidente”. Nel libretto Critica della democrazia occidentale – il cui titolo originale, per inciso, è There Never Was a West – Graeber (2007) ha insistito sul fatto che lo stesso termine “Occidente” si sia affermato con fatica, e a lungo sia stato usato per contrapporre l’America alla vecchia Europa, non per unirle in un’unica, compatta civilizzazione. Quest’ultima configurazione sarebbe un’eredità vittoriana, mentre il riferimento alla democrazia – per il tramite dell’Atene del V secolo, che pure, sottolineano Graeber e Wengrow (2021, trad. it.: 28), «era culturalmente molto più vicina all’Africa settentrionale e al Medio Oriente di quanto lo fosse, per esempio, all’Inghilterra» – sarebbe diventato centrale per noi solo in tempi ancora più recenti. Inoltre, contro Viveiros de Castro, Graeber (2015), ha difeso un certo realismo filosofico di base dalla dissoluzione dei fatti in mille “ontologie” incommensurabili. E ha criticato il vezzo oggi assai diffuso di parlare di “scienza occidentale”, ricordando che l’edificio del sapere è cresciuto nei secoli su apporti disparati, e che oggi laboratori e centri di ricerca non sono certo una specificità solo europea e nordamericana.
Mi rendo conto che anche questa, al pari di quella a cui si contrappone, è una mezza verità sul piano storico, e che è semplicistico sia considerare l’Occidente un semplice “fatto” sia liquidarlo come una mera “invenzione”. Eppure, operare questo genere di distinguo non sembra inutile, in un momento in cui, come abbiamo visto, è difficile parlare di progresso senza rimanere intrappolati in contrapposizioni bellicose di stampo quasi geopolitico. Dove, da entrambi i lati della barricata, il mondo moderno, alcuni secoli di accesi dibattiti scientifici, filosofici e politici, e l’Occidente come entità semiufficiale della politica internazionale contemporanea diventano pressappoco tre sinonimi che indicano il migliore dei mondi possibili oppure il peggiore (e i due schematismi hanno tutta l’aria di sostenersi a vicenda). Credo che sia da questa vecchia impostazione che bisogna cercare di svincolarsi, per provare a ragionare della delicata nozione di progresso. Ma anche la prospettiva graeberiana, che a tratti sembra volersene tirare fuori, finisce in ultima istanza per ricompattare l’Occidente in una categoria chiusa, intrattabile, identificata da una sorta di essenza, di principio profondo – stavolta non la scienza o Cartesio, ma lo Stato – rispetto al quale si può solo prendere posizione a favore o contro.
La fortuna di non essere Ittiti
Una delle risultanze empiriche che (un po’ nello stile di Stephen Pinker) furono utilizzate per criticare Sahlins era l’alta mortalità infantile tra i foraggiatori di cui parlava (Kaplan 2000). Lo stesso Sahlins, pur non entrando nell’argomento, menzionava pratiche di infanticidio e senilicidio che limitavano il numero delle bocche da sfamare. Da una parte, questo sembrerebbe sufficiente a smentire l’idea di società del benessere originaria. Ma, d’altra parte, il fatto che per noi la morte infantile (per non parlare dell’eliminazione volontaria) sia qualcosa che si colloca nella sfera del tragico e quasi dell’inconcepibile non ha, a rigore, un lato etnocentrico? L’umanità ha convissuto con ciò che ai nostri occhi è una spaventosa mortalità infantile, e sarebbe appunto etnocentrico pensare che ciò renda impossibile vivere una vita degna di questo nome (come lo sarebbe per noi). In base allo stesso principio, non bisognerebbe considerare ovvia la nostra pratica, quando si commentano le guerre attuali, di evidenziare, fra le vittime, il numero dei bambini (magari contandoli, per di più, con l’etnocentrico criterio dello straight eighteen). Il problema è che tutto questo non solo non chiude il discorso, ma sembra addirittura peggiorare la situazione. Saremmo certi, infatti, di volerci liberare di questo genere di etnocentrismo? Evidentemente no, anzi nella maggior parte dei casi saremmo abbastanza certi del contrario.
Mi sembra che né il primitivismo irrazionalistico, né lo sciovinismo occidentalista e neppure il razionalismo cratofobico siano di grande aiuto nel maneggiare il problema. E forse vale la pena di ricordare che non sarebbero affatto le uniche alternative di cui disponiamo. Per esemplificare queste alternative prendo un discorso più che noto ma oggi diventato un po’ desueto: il ragionamento sviluppato a metà degli anni Ottanta da Clifford Geertz, nel suo Gli usi della diversità. Come punto di partenza Geertz sceglie proprio il definitivo crollo della vecchia bipartizione del mondo tra occidentali moderni e tutti gli altri, e la constatazione che quest’unico mondo in cui ormai tutti o quasi viviamo è comunque tutt’altro che culturalmente omogeneo. Al contrario, è talmente pieno di differenze culturali sottili, che proliferano in contesti misti, da rendere fuorviante andare a cercarne di pure in un paleolitico letterale o metaforico (il che non impedisce affatto di fare ricerca in quei contesti, se si evitano le suggestioni “puriste”). Vorrei sottolineare che, in questo presente paragonato da Geertz al caos di un bazaar, tra le voci che risuonano molte sono impegnate proprio a discutere di quale modo di vita sia migliore e quale peggiore, in sostanza a proporre una valutazione qualitativa dei contesti e delle culture: cosa è affascinante e cosa moralmente disgustoso, cosa è condivisibile e cosa inaccettabile, cosa rappresenta il passato e cosa il futuro. Che un accordo generalizzato non sia alle porte, pare fin troppo evidente. Ma Geertz sostiene che questa non sia una buona ragione per tradurre l’inevitabile relatività dei punti di vista in un elogio della sordità culturale reciproca, come quello che, giustamente o meno, è rimasto legato al nome di Claude Lévi-Strauss (1983). Insiste, al contrario, sulla necessità di sviluppare capacità di ascolto, di dialogo e di compromesso possibile, e sul fatto che l’antropologia, per vocazione, si trovi in prima fila per un lavoro del genere.
Vale forse la pena di notare che quella che sostiene (Geertz 2000, trad. it.: 92-93) è un’apertura innanzitutto conoscitiva, consistente nella «capacità di entrare sia pure a tentoni in sensibilità e modi di pensare alieni (…) che noi non possediamo e che probabilmente non possiederemo mai», ma che ciononostante possono avere un certo potere trasformativo sui nostri codici culturali, ampliando i nostri orizzonti e il nostro repertorio di soluzioni praticabili: Geertz parla di “alternative per noi”. Poco sensato sarebbe invece cercare nell’alterità radicale una sorta di epifania che ci consenta magicamente di “non preferire le nostre preferenze”, aprendo la strada a nuovi mondi genericamente possibili ma concretamente improbabili. Oppure, simmetricamente, trasformare l’alterità in uno spauracchio di fronte al quale convincerci della totale positività del mondo a cui siamo abituati, sospendendo ogni critica e trincerandoci in esso. Il problema epistemologico, tutt’altro che nuovo, in queste forme ingenue di coinvolgimento immaginativo (“alternative a noi”), è che si vorrebbero fare due parti in commedia, e su questo l’ironia geertziana è impietosa, immaginando l’incauto teorico porsi seriamente domande come: “E se fossi stato un bororo? Non sono fortunato a non essere stato un ittita?”
A volte si obietta che la relatività dei punti di vista è logicamente incompatibile con qualsiasi valutazione avente pretese di oggettività. Non credo che questo sia necessariamente vero e, come detto, neanche Sahlins nei suoi ragionamenti sul benessere sembrava pensarla così. Riprendo comunque dal filosofo americano John Searle (1995, 2008) qualche considerazione più sistematica. Accettare la “relatività concettuale” di ogni nostro giudizio, ossia il suo essere scoccato in un certo linguaggio, e dall’interno di una storia e di un contesto – non certo from nowhere e nemmeno dal punto di vista di Dio – non impedisce che si possa dire qualcosa con certezza. In questo caso, però, dire “certo” non significa escludere di poter essere in tutto o in parte smentiti, ma semplicemente che non si dispone, qui e ora, di ragioni tali da metterlo seriamente in dubbio. Lo stesso giudizio potrà presentarsi come “obiettivo”, che non vuol dire infallibile o corrispondente a tutto ciò che c’è da dire, ma solo che non intende rappresentare una preferenza personale (come quando diciamo di preferire la pastasciutta al cous-cous, o viceversa). Almeno in certi casi, si può persino voler dire qualcosa di “universale”, il che non implica che a nessuno potrebbe venire in mente di contestarlo, ma semplicemente che, in linea di principio, attribuiamo a quello che stiamo dicendo una validità generale. Cioè lo indirizziamo a chiunque possa volerne discutere con noi. Tutto questo lo facciamo continuamente, se partecipiamo in modo minimamente strutturato al dialogo che si svolge nel metaforico bazaar che è diventato il mondo. Specialmente se condividiamo qualche forma di impegno a migliorare diritti e condizioni di vita concrete, per esempio – pensando agli autori citati in queste pagine – in una prospettiva “di sinistra”. Lo facciamo quando lamentiamo il fatto che in alcune parti del mondo, lontano o vicino, la mortalità infantile sia ancora così alta, l’accesso alle cure mediche ancora così difficile, il ruolo delle donne ancora così svantaggiato. Insisto sull’avverbio “ancora” perché mi sembra che in questo tipo di posizione ci sia spesso – e non lo trovo sorprendente – il riferimento implicito ad un “tornare indietro” e un “andare avanti”, insomma una forma di ragionamento almeno larvatamente progressista. Che non necessariamente significa avvalorare una sorta di filosofia della storia ma certo consiste nel collocare il proprio ragionamento, ed eventualmente le proprie azioni, entro un percorso che punta a una progressiva chiarificazione di alcuni problemi e di messa a punto teorica e pratica delle soluzioni più efficaci.
Un’altra obiezione ricorrente è che far coesistere la relatività concettuale con la possibilità di sostenere un giudizio in linea di principio generale, in quanto argomentabile, ha senso solo all’interno di un certo tipo di discorso e di determinate regole di discussione razionale. Questa obiezione da una parte ha a che fare con alcune posizioni di scetticismo filosofico che sarebbe davvero troppo lungo e complicato discutere qui (ma ho fatto qualche tentativo altrove), e che chiamano in causa lo statuto della realtà e della sua rappresentazione. Lasciando da parte questo rarefatto livello teorico rimane il problema che il discorso di cui parliamo è legato agli ideali della scienza, della ragione e dell’illuminismo di cui parlava Dei, cioè, si potrebbe sostenere, a una storia occidentale. Penso che contro tale obiezione possa risultare particolarmente utile l’esempio di quel tipo specifico di discorso e di discussione razionale che chiamiamo “antropologia”. Certo, se scegliamo come termine a quo Erodoto, non abbiamo difficoltà a trovare precedenti extraoccidentali di indagatori della diversità culturale, ma se ci atteniamo invece alla data di nascita canonica, da E.B. Tylor e la sua definizione di cultura, è difficile pensare a un filone di discorsività più strettamente legato a una genealogia occidentale moderna. Ma proprio qui sta secondo me il punto: sono decenni, da prima del saggio di Geertz, se non addirittura di quello di Sahlins, che tale eredità storico-culturale viene costantemente tematizzata e discussa perché la genealogia occidentale non si traduca in sordità conoscitiva attuale. Ne abbiamo discusso e ne discutiamo sul piano epistemologico, metodologico e istituzionale e per quanto tale percorso, come tutti i percorsi di aggiornamento, non sia mai definitivamente compiuto, mi pare che attualmente sarebbe una semplificazione del tutto illegittima definire “occidentale” una disciplina insegnata in moltissime altre parti del mondo da persone di molte provenienze diverse, pur se la stessa disciplina ha indubbiamente origini occidentali. Vorrei sottolineare che è lo stesso discorso che Graeber giustamente applica alle scienze in generale. Che l’una o l’altra sia nata in quel contesto, o per un tratto importante della sua storia vi si sia sviluppata, non significa che si possa considerarla un monopolio occidentale. Di solito non lo era nemmeno nel passato, ma certamente non lo è nel presente.
Se l’antropologia continua a esistere come filone di discorsività non-più-solo-occidentale, allora, oltre a molte discontinuità col suo passato, presenterà necessariamente alcune linee di continuità, come per esempio un atteggiamento “laico”, che vuole spiegare in termini umani anche fenomeni che chiamano in causa una dimensione extra-umana o trascendente, e che dialoga con le altre scienze sociali e talvolta con le scienze dure sui propri strumenti concettuali di base. All’interno della discorsività antropologica si fa ampio e abituale ricorso a giudizi implicitamente “progressisti”. Si deplora per esempio che i riferimenti al patrimonio culturale locale possano riproporre ancora un lessico frazeriano, o che si parli ancora di “società semplici”, o si riaffacci ancora la tendenza a sovrapporre culture, people and place. Non si può nemmeno dire che gli autori più “radicali” ricorrano di meno a questo tipo di argomenti, anzi sono forse particolarmente inclini a usare come una critica il fatto che una certa posizione sia vecchia, nel senso di superata. Questo genere di osservazioni implicano che ci sia uno stato meno e uno più avanzato della conoscenza e della riflessione, e che sia auspicabile un costante aggiornamento, non solo all’interno della disciplina, ma anche nella sua ricezione in un contesto sociale più ampio. In tutti i casi, si allude a risultati cumulativi. Anche i limiti e l’esatta natura di questa cumulatività rappresentano naturalmente una questione molto complessa, su cui le idee possono divergere (penso ad esempio alle diverse posizioni di due maestri dell’antropologia italiana come Pietro Clemente e Francesco Remotti), e probabilmente il minimo che si può dire è che il sapere antropologico non sarà cumulativo nello stesso senso in cui lo sono le scienze dure. Tuttavia, riprendendo l’esempio usato da Fabio Dei, resta il fatto che una nozione come quella di “efficacia simbolica” va intesa come un ampliamento e un rafforzamento della comprensione scientifica e razionale del mondo, insomma come un progresso, non come il suo contrario.
Tutto questo è compatibile con il riferimento a un universalmente, elementarmente, razionalmente umano che traspare “nelle” differenze culturali e non “sotto” di esse, che non cancella il ruolo della diversità ma neanche prevede che si trasformi in impermeabilità – la sordità parziale di Lévi-Strauss o le “guerre di religione”, speriamo metaforiche, di Latour. È un’altra questione troppo grande per affrontarla in queste pagine, quella di una nozione, se non altro minimale, di natura umana come sfondo necessario del progetto scientifico della disciplina. In ogni caso, l’idea che si facciano passi avanti mi sembra molto meno dubbia all’atto pratico di quanto non appaia a volte nelle prese di posizione di principio e credo che il richiamo a una possibilità di dialogo “universale” sia particolarmente necessario in un bazar. Anche perché l’alternativa esiste, è reale e non solo ipotetica, e assomiglia molto a quel culturalismo separatista che invece nei bazar si trova terribilmente a disagio. Il pensiero di destra legge da tempo in questa chiave le posizioni di Lévi-Strauss, riconducendole a una logica spengleriana di traiettorie di sviluppo e di declino di specifici mondi culturali, ognuno chiuso nel proprio stile di vita e di pensiero, incommensurabile ad altri e più pregiato quanto più è autentico e quanto meno è mescolato. Bisogna ricordare che, se si tratta di andar contro la nozione di progresso e di immaginare rétrovolutions, il pensiero di destra è di gran lunga più efficace, non avendo problemi a far coesistere il primitivismo neotradizionalista con lo sciovinismo nazionalista e, se necessario, anche suprematista. Disgraziatamente mi sembra che proprio in questa linea si stia delineando all’orizzonte un altro “mondo possibile”, e sempre più chiaramente da un anno all’altro.
In un altro senso, certo, si può sempre decidere che nel caso dell’antropologia il peccato originale del suo pedigree occidentale sia imperdonabile; quindi scegliere di starne fuori e dedicarsi a forme di esperienza e di competenza alternative, radicate in storie culturali molto diverse e lontane. Come gli sciamanesimi siberiani o amazzonici di cui hanno scritto Sergio Botta (2018) e lo stesso Amselle (2013), mostrando i modi talvolta sorprendenti in cui alcuni aspetti di tali tradizioni sono recuperati e riplasmati entro forme e contesti della spiritualità contemporanea, spesso in chiave new age e trovando anzi crescente attenzione e mercato presso i ceti borghesi dei paesi abbienti. Il che potrebbe far sospettare che neanche in questo caso abbia più molto senso vederla come una questione di Occidente o non-Occidente.
Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024
[*] Questo articolo è stato prodotto nell’ambito del progetto Science and Ideology Today. Environmentalism, Primitivism, and Sexuality (ZID) presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Zagabria, approvato dal Ministero della Scienza e dell’Istruzione della Repubblica di Croazia e finanziato attraverso il National Recovery and Resilience Plan 2021-2026 dell’Unione Europea – NextGenerationEU.
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Federico Scarpelli, è professore associato di antropologia culturale all’Università di Salerno. Tra i suoi principali interessi figurano l’antropologia urbana e l’epistemologia delle scienze sociali. È autore delle monografie La memoria del territorio (Pacini 2007); In un unico mondo. Una lettura antropologica di John Searle (Rosenberg & Sellier 2016); Centro storico, senso dei luoghi, gentrification (CISU 2020). È fondatore dell’associazione Anthropolis, per cui ha curato i volumi collettanei Il rione incompiuto (CISU 2009); Voci della città (con A. Romano, Carocci 2011) e Passare ponte (con C. Cingolani, Carocci 2011).
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