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Il punto sul fenomeno migratorio in Italia: nuovi dati, vecchi problemi

COPERTINAdi Paolo Iafrate e Franco Pittau

In questo saggio abbiamo deciso di premettere al commento dei nuovi dati sul fenomeno migratorio in Italia un breve excursus sull’evoluzione delle leggi e dei dati sull’immigrazione, cercando di trovarvi gli spunti di commento alla situazione attuale. Siamo quindi passati all’analisi del Dossier Statistico Immigrazine 2015, il rapporto curato e edito dal Centro Studi e Ricerche Idos,  giunto alla 26.a edizione e, contrariamente alla prima impressione che niente sia cambiato, abbiamo evidenziato i grandi cambiamenti in corso all’interno della società italiana a seguito di questa presenza. Per farlo ci siamo astenuti dal fare ricorso alla grande quantità di dati contenuti nel Dossier e ne abbiamo selezionato solo alcuni da portare a supporto di alcune linee di lettura. Infine, cerchiamo di proporre una sintesi di questa esperienza quarantennale, mostrandone i numerosi problemi, qualche pregio e forse anche qualche speranza di miglioramento.

Excursus sull’evoluzione del fenomeno migratorio in Italia. Fino agli anni ‘70

Il fenomeno migratorio conosciuto dall’Italia sin dall’Unità fino agli anni ‘70 del secolo successivo è stato caratterizzato dall’esodo verso i Paesi esteri, prima in prevalenza transoceanici e poi europei. Gli emigrati sono stati circa 30 milioni e ancora oggi sono 5 milioni i cittadini italiani residenti all’estero. Ad essi il Dossier, come di consueto, dedica un capitolo, caratterizzato nel 2016 dall’affiancamento ai flussi tradizionali di quelli dei migranti qualificati. Secondo l’anagrafe consolari gli italiani all’estero sono 5.202.831: 400mila in più rispetto ai 4.811.163 iscritti all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero gestita dal Ministero dell’Interno e circa 200mila in più rispetto agli stranieri registrati come residenti nelle anagrafi dei comuni italiani. All’inizio degli anni Duemila, gli italiani all’estero erano poco meno di 4 milioni e gli stranieri in Italia meno di 1 milione e mezzo. Nel 2012 è avvenuto il sorpasso: 4.341.156 italiani nel mondo e 4.387.721 stranieri in Italia. Tre anni dopo, quindi, è avvenuto il controsorpasso, dovuto, da una parte, alla diminuzione degli stranieri che vengono in Italia e all’elevato numero dei residenti stranieri che acquistano la cittadinanza italiana e, dall’altra, all’aumento degli italiani che espatriano o che nascono all’estero da genitori italiani. Per queste ragioni, nel 2015, gli stranieri residenti in Italia hanno conosciuto un incremento di appena 12mila unità, mentre gli italiani residenti all’estero sono aumentati di 175mila unità secondo l’Aire e di oltre 200mila unità secondo le Anagrafi consolari, in coerenza ad un trend che sembra destinato a continuare.

Il principale motivo di iscrizione all’Aire è l’espatrio (52,5%: quasi 2,5 milioni di persone), ma non è trascurabile la nascita all’estero da almeno un genitore italiano già stabilitosi all’estero (39,2%: quasi 2 milioni di persone); gli altri motivi sono la reiscrizione dopo un periodo di irreperibilità (6,0%), l’acquisizione della cittadinanza italiana (3,3%, pari a circa 160mila casi), il trasferimento dall’Aire di un altro comune (1,3%).  207.209 italiani si sono iscritti all’Aire nel corso del 2015 (di cui 51.960 in provenienza dal Nord Ovest, 47.593 dal Nord Est, 17.055 dal Centro, 48.412 dal Sud e 25.026 dalle Isole): 4,5% per acquisto di cittadinanza, 6,5% per reiscrizione a seguito di irreperibilità, 11,0% per trasferimento dall’Aire di un altro comune, 51,9% per espatrio. I nuovi iscritti, rispetto a quelli in precedenza registrati, sono caratterizzati da un’età più giovane: minori 33,8%, giovani adulti e adulti tra i 18 e 64 anni 60,0% (di cui 25,3% alla fascia 30-44 anni), 65 anni e più 6,2%.

Dal punto di vista della psicologia sociale possiamo denominare il lungo periodo che va dall’Unità d’Italia fino agli ’70 del secolo successivo quale “epopea migratoria”, presentata anche come un esodo biblico e caratterizzata da una crescente attenzione alle partenze e ai residenti all’estero, una fase esitata in leggi che hanno previsto forme di rappresentanza sociali e parlamentari e l’accesso al diritto di voto all’estero.

Anni 60, stazione di Milano

Anni 60, stazione di Milano

1970-1989

Gli immigrati aumentano da 150mila a quasi 500mila. In questo periodo viene approvata la prima legge  sull’immigrazione (legge 943 del 1986), primo firmatario il deputato democristiano Franco Foschi, mentre gli altri due firmatari sono un parlamentare comunista e l’altro socialista, a riprova che nella Prima Repubblica sussisteva la possibilità di coinvolgere, su temi sociali di grande importanza sociale, anche i partiti di opposizione: in effetti, questa legge, approvata proprio al limite prima della chiusura della legislatura, ebbe un’amplissima maggioranza. Consistente fu anche la maggioranza che sostenne la legge del 1990, mentre la Seconda Repubblica ha posto in evidenza l’orientamento restrittivo dello schieramento di centro-destra. A proposito di questa prima legge va, comunque osservato che, mentre secondo la Costituzione repubblicana approvata nel 1947 la posizione dello straniero va regolata per legge, sono stati necessari quasi venti anni per dare attuazione al dettato costituzionale, e in questo lungo intervallo è stato applicato il Testo Unico sulla Pubbblica Sicurezza del 1931, completato all’occorrenza da disposizioni ministeriali per far fronte alle nuove esigenze.

In un’Europa, rimasta profondamente segnata dal primo shock petrolifero del 1987 e pronta a chiudere le frontiere nei periodi di bassa congiuntura, questa legge ha costituito un passo innovativo in linea con la convenzione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro del 1975 sui lavoratori migranti, con validi spunti di apertura culturale e attenzione al coinvolgimento territoriale, da ritenere comunque parziali perché la legge si occupa solo degli ingressi per motivi di lavoro; viene anche varata la prima regolarizzazione (la prima rispetto alle altre sei che seguiranno, l’ultima nel 2012).

In questo periodo l’atteggiamento della società nei confronti dei primi immigrati può ritenersi caratterizzato da un atteggiamento di “indifferenza” o di “noncuranza”: gli immigrati allora erano pochi, e quei pochi lavoravano nei campi o presso le famiglie, quindi per lo più invisibili, e non costituivano un problema. Anche allora insorsero dei problemi legati al terrorismo e delle stragi furono  perpetrate contemporaneamente il 27 dicembre del 1985, a Vienna e a Roma, che costituirono un fattore che accelerò l’approvazione della legge sull’immigrazione. La stessa preoccupazione si riscontrò in precedenza, quando nel 1981 si registrò l’attentato a Papa Giovanni Paolo II nella piazza S. Pietro ad opera del giovane turco Ali Agca: la proposta di legge sull’immigrazione venne approvata solo dalla Camera dei Deputati prima che nel 1982 si chiudesse la legislatura.

 Funerali di Masslo a Villa Literno, agosto 1989

Funerali di Masslo a Villa Literno, agosto 1989

1990-1999

Questo decennio è molto importante perché l’immigrazione divenne più visibile come fenomeno, attirando una crescente attenzione del legislatore, che cercò di superare “l’emergenza”. La seconda legge (n. 39/90, nota come “legge Martelli”, fu presentata come decreto legge, per la cui approvazione molto si adoperò l’allora vicepresidente del Consiglio dei ministri Claudio Martelli, interessato a dare all’azione del governo una impostazione unitaria e recuperare le iniziative portate autonomamente avanti dal ministro del lavoro Carlo Donat Cattin, il quale varò per suo conto una sorta di sanatoria. Un forte impulso in tal senso venne anche dalla cronaca dell’assassinio nelle campagne di Villa Literno del giovane africano Jerry Essan Maslo, un fatto che suscitò una profonda emozione in tutta Italia e portò a Roma a una manifestazione antirazzista destinata a coinvolgere oltre 100mila persone. Il consenso parlamentare risultò ancora molto elevato, ma non mancarono affatto le continue contrapposizioni del Partito Repubblicano (erano contrari alla legge anche il Partito Liberale e il Movimento sociale italiano). Questa legge, come quella precedente, risulta caratterizzata da una grande apertura: si occupava di definire meglio le disposizioni sul soggiorno, avviava la prima programmazione dei flussi, superava la riserva geografica  nei confronti dei richiedenti asilo (prima venivano accettati solo quelli in provenienza dai Paesi comunisti dell’Est Europa), stabiliva l’assegnazione di un sussidio finanziario ai richiedenti asilo fino alla definizione della loro domanda, varava la seconda regolarizzazione che concedeva la facoltà di esercitare un lavoro autonomo o imprenditoriale in deroga alla vigenza di trattamenti di reciprocità con i loro Paesi di origine.

La speranza di allora era che queste nuove norme introducessero una regolamentazione a regime dei flussi migratori, senza rendersi pienamente conto che, rispetto alle dimensioni strutturali del fenomeno e alle cause che lo determinano, le leggi (specialmente quelle di un solo Paese di immigrazione), se non vengono completate da una serie di altri interventi, possono esplicare solo un’efficacia limitata.

Nel 1995, un decreto legge (n. 489 del 18 novembre 1995) presentato dal Governo tecnico presieduto dall’on. Lamberto Dini, sorretto congiuntamente dallo schieramento di centro sinistra e da una partito di destra come la Lega Nord (entrata in contrasto con l’on. Berlusconi), si presentò come un Giano bifronte, perché da una parte introduceva delle aperture di estremo interesse (ad esempio, la copertura sanitaria per tutti come diritto fondamentale delle persone) e dall’altro avallava scorciatoie giuridiche in tema di espulsioni (senza chiedere la conferma dell’organo giudicante). Intanto la Corte Costituzionale pose fine alla prassi di riproporre al Parlamento un decreto legge in precedenza respinto, per cui dal testo del decreto legge in questione venne estrapolata e approvata solo la previsione di una regolarizzazione (la terza). Nel 1997 i soggiornanti stranieri diventano più di un milione.

La terza legge è quella che pone fine al legiferare di emergenza: è la n. 40 del 1998, conosciuta come ”Legge Turco Napolitano”. Molto impegnativo fu il lavoro preparatorio, svoltosi per diversi anni presso il Cnel con la produzione di una voluminosa documentazione. Il governo si adoperò per l’approvazione di una legge snella ma compendiosa, imperniata su questi principi: programmazione dei flussi, accoglienza e integrazione, espulsione dei non aventi diritti (con l’istituzione di centri di trattenimento, attualmente denominanti Cie, recependo le richieste avanzate dall’Ue in tal senso). La legge, passata nonostante la dura opposizione della minoranza parlamentare, costituisce ancora oggi l’ossatura del Testo Unico sull’Immigrazione (decreto legislativo 286/1986), nonostante le modifiche restrittive successivamente apportate.

È stato detto, e non a torto, che in questo caso i parlamentari hanno proposto un equilibrio più avanzato di quello effettivamente raggiunto a livello di società. Forse anche per questo non sono mancati i ripensamenti (ad esempio, con l’introduzione della titolarità della carta di soggiorno per potere ottenere le prestazioni di assistenza sociale). Una delle aperture più interessanti fu la previsione dell’arrivo sotto sponsorizzazione, che impegnava persone già residenti in Italia a garantire vitto, alloggio e assistenza sanitaria agli immigrati da far venire a lavorare in Italia fino a che gli stessi non avessero raggiunto l’autonomia. Quattro anni dopo questa disposizione fu soppressa e sostituita con l’inconsistente e costosa formazione in loco dei candidati a immigrare in Italia, facendo venir meno il coinvolgimento della popolazione nell’accoglienza. Un’altra apertura, fortunatamente rimasta ma non perfezionata da successivi interventi legislativi per evitare un “far west” fai da te, è stata la prima formalizzazione del valore della mediazione culturale. Fortemente innovativa fu anche la deroga generalizzata al principio di reciprocità per l’esercizio di un lavoro autonomo o imprenditoriale, apertura rivelatasi appropriata perché ha consentito una vera e propria fioritura di imprese gestite da immigrati. 

 Lo sbarco degli albanesi, agosto 1991

Lo sbarco degli albanesi, agosto 1991

Dal 2000 ad oggi

Con il decennio di inizio secolo l’Italia ha conosciuto un periodo di rilevante aumento numerico della popolazione immigrata, passata da meno di 1,5 milioni a quasi 5 milioni, tetto poi superato dal 2004. Gli anni di crisi hanno solo ridimensionato l’entità dei flussi, senza cancellarli: da una media di 350mila iscrizioni di cittadini stranieri in provenienza dall’estero si è scesi a 250mila nel 2015.  Con le cosiddette “primavere arabe” del 2011 è iniziata la fase dei flussi misti, in cui ai profughi che arrivano per motivi umanitari si affiancano persone che si spostano per motivi di lavoro, mentre hanno continuato a seguire le regolari procedure quelli interessati ai ricongiungimenti familiari. Gli sbarchi sono stati tra i 150mila e i 170mila l’anno nel triennio 2014-2016 e hanno visto il governo italiano impegnato nell’accoglienza senza un sostanziale aiuto dell’Unione europea e in conseguenza crescenti malumori da parte degli Enti Locali e della popolazione (atteggiamento questo riscontrabile anche in diversi altri Paesi europei).

Gli interventi legislativi di questo periodo si possono definire ispirati alla strategia di Penelope, perché in parte consistiti nel modificare restrittivamente diversi articoli del Testo Unico. Così è stato fatto dalla legge 179 del 2002, nota come “legge Bossi-Fini”, ispirata alla convinzione della necessità di un rigido legame tra lavoro e permesso di soggiorno e alla iniqua consequenzialità tra rigidità della norma e regolarità. A questa legge è legata una (la quinta) sanatoria di straordinaria ampiezza (700mila domande). Come era prevedibile, le norme che consentivano l’espulsione senza un avallo giudiziario sono state dichiarate incostituzionali.

Ancora più restrittive sono state, nel 2008, le disposizioni contenute nel cosiddetto “pacchetto sicurezza” del ministro Maroni (seguite anch’esse da una regolarizzazione ma solo per colf e badanti  e da un’altra nel 2012, la settima e ultima della serie). Il “pacchetto sicurezza” sembra ispirato alla filosofia che ritiene necessario difendersi dallo straniero anche con le fantomatiche “ronde popolari”, queste finite fortunatamente nel nulla, mentre altre norme sono state dichiarate incostituzionali e altre depennate per il diffuso contrasto da parte della società civile (inizialmente si voleva formalizzare che i medici quando assistevano un immigrato irregolare dovessero denunciarlo alle autorità di polizia).

Negli anni della crisi, sotto il peso della disoccupazione e delle difficoltà di creare nuovi posti di lavoro in un Paese dai bassi tassi di sviluppo e attardato rispetto alla media europea, non si è riusciti a venire a capo della “questione sviluppo” e solo dal 2014 è finita la recessione. Nel 2015 gli arrivi per lavoro sono quasi cessati (fatta eccezione per poche migliaia di stagionali), sono continuati gli ingressi per ricongiungimento familiare (seppure un po’ ridotti rispetto al passato), si sono imposti gli sbarchi dei profughi e, insieme con loro, di migranti alla ricerca di lavoro (perciò si parla di “flussi misti”). La strategia europea in materia di politica migratoria è opaca, inconcludente e finora ha insistito con determinazione sulla registrazione delle impronte da parte dello Stato in cui sbarcano i richiedenti asilo e del conseguente obbligo di presa in carico da parte del Paese di sbarco ai sensi della Convenzione di Dublino.

È fondato qualificare questo periodo come quello della “inconcludenza”: da parte italiana e anche da parte europea. In Italia non si è riusciti a condividere un minimo comune denominatore di politica migratoria tra gli schieramenti politici, pur essendo necessario per conferire efficacia alle misure adottate. Gli aggiustamenti normativi sono avvenuti per decisioni giudiziarie o interne o della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ovvero per l’obbligo di applicare le direttive europee. Quanto detto vale, ad esempio, per l’obbligo di concedere le prestazioni non contributive ai titolari di permesso di soggiorno (anche se non lungo soggiornanti), per portare a 5 da 6 anni il requisito necessario per ottenere la carta di soggiorno (poi diventato permesso UE di lungo soggiorno), per diminuire la tassa per il rinnovo del permesso di soggiorno, per non effettuare i rimpatri con immediatezza senza lasciare a disposizione il tempo per un eventuale ritorno volontario, per il superamento delle discriminazioni occulte fondate sulla residenza non meno degli ostacoli frapposti all’accesso ai posti pubblici (che risulta essere finora solo una riconoscimento formale perché scarsamente attuato), per l’accesso al servizio civile ecc.

Nel mentre, a fronte di una massa di 3 milioni di disoccupati (dei quali quasi un sesto costituito da straniero) è ripresa l’emigrazione degli italiani verso l’estero arrivati a 102mila nel 2015, dei quali oltre la metà diplomati e laureati, per cui si è parlato di spreco senza alcun ritorno, senza pensare che a fronte di 400mila laureati che si contano  all’estero, vi sono circa 500mila laureati stranieri in Italia. Quanto alla inconcludenza dell’Unione europea basti pensare alla incapacità di modificare sostanzialmente la Convenzione di Dublino sui richiedenti asilo, un atto giuridico di cui è palese l’irrazionalità perché addossa per intero l’accoglienza allo Stato, e la farraginosità delle procedure previste per dislocare una quota dei richiedenti asilo presenti nello Stato di primo sbarco.  

4.Il quadro della situazione attuale alla luce dei precedenti storici

Tra il 2014 e il 2015  sembrerebbe a prima vista che la situazione sia rimasta stazionaria, perché il livello della popolazione straniera è rimasta di 5 milioni, fatta eccezione per un lieve aumento di 12mila unità che ha portato i residenti a 5.026.153. Questa, però, è una lettura superficiale di quanto sta accadendo. Illustreremo di seguito quattro chiavi di lettura: cambiamenti imponenti ma sotto traccia; squilbrio demografico e flusso in arrivo; sbarchi attuali e sbarchi prevedibili; una società diventata multiculturale e multireligiosa.

 Cambiamenti imponenti, in parte “sotto traccia”

Nel 2015 è stata registrata una notevole movimentazione, come risulta dal bilancio demografico dell’Istat: 250mila persone sono state registrate in provenienza dall’estero (tra ricongiungimenti familiari, persone venute per lavoro, per studio e altri motivi, nonché le persone sbarcate registratesi come residenti) contro 45mila registrate in uscita. Inoltre, sono stati 72mila i nuovi nati da entrambi i genitori stranieri e 64mila gli immigrati ai quali non è stato rinnovato il permesso di soggiorno: a questi flussi si aggiungono 178mila stranieri  diventati cittadini italiani (complessivamente circa 1 milione e 250mila) per un totale di oltre 600mila persone in movimento.

Rispetto al 2014 rimane consistente e spesso in aumento l’incidenza degli immigrati sui residenti (8,3%), sulle compravendite immobiliari (8,7%), sulle imprese attive (9,1%), sui matrimoni (9,2%), sugli  iscritti a scuola (9,2%), sugli occupati (10,5%), sui disoccupati (15,0%), sui lavoratori assunti per la prima volta (28,9%, ma in questo caso il riferimento non è agli stranieri ma ai nati all’estero).

Sono numeri che meritano una maggiore attenzione: da una parte continua a essere elevato il numero delle persone registrate in provenienza dall’estero (250mila), che trova un corrispettivo nei grandi flussi degli emigrati italiani in atto nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale, quando, con maggiore consapevolezza, si parlava di “esodo biblico”; d’altra parte, questi movimenti prendono per così dire una “via carsica” e se ne perde la traccia se si guarda solo all’aumento complessivo degli stranieri residenti. Se ne scopre invece il percorso se si allarga l’osservazione e, specialmente, si tiene conto che il tasso di acquisizione di cittadinanza, anche a prescindere dalla riforma della legge a favore degli stranieri nati in Italia, ha superato per la prima volta la percentuale media di acquisizione riscontrabile in Europa. In altre parole, una parte consistente dell’immigrazione si sottrae alla considerazione se il ragionamento viene limitato agli stranieri senza fare riferimento alle persone di origine straniera che hanno acquisito la cittadinanza italiana.

5.Squilibrio demografico e flussi in arrivo

Nel 2015, tra i cittadini italiani residenti, le morti sono prevalse sulle nuove nascite di 228mila unità e le cancellazioni anagrafiche per l’estero che prevalgono sui rientri dall’estero per 72mila unità. In prospettiva, nel periodo 2011-2065 il saldo naturale della popolazione residente sarà pesantemente negativo di ben 11,5 milioni di unità (28,5 milioni di nascite contro 40 milioni di decessi). Questo squilibrio potrà essere compensato dai flussi migratori che saranno positivi per 12 milioni (17,9 milioni di ingressi contro 5,9 milioni di uscite). Secondo le previsioni dell’Istat (ipotesi media) per assicurare un certo equilibrio demografico all’Italia bisogna prevedere all’inizio del periodo un ingresso netto di 300mila immigrati, che andrà degradando sino a stabilizzarsi, a regime, su un livello attorno alle 175mila persone.

Come accade in tutte le previsioni, questi numeri possono cambiare perché basati su una serie di fattori ipotizzati per il futuro di una certa entità, e la gravità di questa proiezione potrebbe ridimensionarsi ma anche diventare più pesante e, in ogni modo, non bisogna dimenticare che si tratta di una ipotesi media (quella che ha maggiori probabilità di realizzarsi): si può però ritenere che il futuro demografico dell’Italia non può essere concepito senza nuovi arrivi di immigrati.

Ciò detto, è anche chiaro che le esigenze demografiche abbisognano di interventi di accompagnamento: misure adeguate di accoglienza, inserimento occupazionale e sociale e integrazione. L’inserimento occupazionale viene pregiudicato se manca lo sviluppo, quello sociale se viene meno la disponibilità all’accoglienza da parte della popolazione e dei politici. Lo sviluppo è il fattore non disponibile in misura sufficiente, altrimenti l’accettazione degli immigrati sarebbe più agevole. Nella prima decade del secolo, a fronte di tassi di sviluppo di poco superiori al 2% (negli anni migliori) è stato possibile conoscere un tasso di disoccupazione più contenuto rispetto a quello attuale e, per rispondere alle necessità del mercato, inserire anche un numero rilevante di stranieri, saldando esigenze demografiche ed esigenze occupazionali. A questo binomio virtuoso bisognerebbe pensare anziché fare degli immigrati il capro espiatorio di una situazione economica insoddisfacente.

Sbarchi attuali e sbarchi prevedibiliAPTOPIX Italy Europe Migrants

Gli sbarchi rappresentano flussi non programmati, destinati a diventare un fattore sempre più consistente nei futuri scenari migratori. Nell’ultimo decennio c’è stata una loro crescita esponenziale a seguito di eventi bellici o conflitti interni (Afghanistan, Irak e Siria in Medio Oriente e vari Paesi dell’Africa) e, per quanto riguarda i migranti economici, di situazione di sviluppo insoddisfacenti e di fattori climatico-ambientali. Non si pensava in Italia che, dopo l’arrivo di 50mila tunisini, gli sbarchi potessero continuare con numeri ancora più elevati (150mila nel 2014, 154mila nel 2015 e più di 170mila nel 2016). La preoccupazione e l’impreparazione di fronte a questi arrivi continuati sono evidenti, ma non si può pensare a breve a cambiamenti radicali. Da una parte l’Unione europea non ha né idee chiare al riguardo (lo dimostra la complessa e inapplicata strategia dei ricollocamenti) né le capacità decisionali auspicabili (neppure per aiutare gli Stati membri più esposti e neppure per consentire loro di utilizzare risorse proprie in deroga al patto di stabilità). D’altra parte non è prevedibile quando verrà ultimato in Libia il processo di pacificazione per poter attuare un controllo sistematico dei trafficanti di richiedenti asilo e di manodopera, impegnati ad incentivare l’attraversamento del Mediterraneo verso l’Europa immaginata come l’ancora di salvezza della loro esistenza. L’Italia, seppure concepita da molte persone sbarcate come luogo di passaggio, secondo la vigente normativa europea, diventa il Paese responsabile della loro accoglienza.

Anche volendo sperare in una positiva evoluzione in Libia e nella politica migratoria europea, va tenuto in conto che il continente africano sarà sempre più un’area di partenza di migranti, perché da qui a metà secolo la popolazione raddoppierà arrivando a 2 miliardi e mezzo di persone e, non  essendo possibile creare in loco centinaia di milioni di nuovi posti di lavoro, molti prenderanno le vie dell’esodo e il Paese più facilmente raggiungibile è l’Italia.

In attesa di una più equa normativa europea sull’accoglienza dei richiedenti asilo a livello europeo, della pacificazione della Libia, di accordi operativi con  i Paesi di origine e di transito dei migranti, di investimenti da parte europea sullo sviluppo del continente africano (un processo efficace ma di lunga durata), l’Italia è chiamata ad elaborare una sua strategia in grado di far fronte a questo nuovo scenario, che non sarebbe esatto chiamare emergenza in quanto destinato a ripetersi nel tempo. Il Governo, tramite le Prefetture, ha attivato oltre 3mila centri di assistenza straordinari in aggiunta a quelli che fanno capo allo Sprar (Sistema per l’accoglienza dei richiedenti asilo e i rifugiati) e altri centri in precedenza istituti, accogliendo in totale oltre 180mila persone. Sia nei centri in precedenza istituiti sia in quelli di nuova creazione si riscontrano problemi, tutti risolvibili in un mondo perfetto ma difficili da gestire in quello reale, in cui il potenziamento del sistema è avvenuto in così breve tempo: vanno capiti sia i disagi delle persone da accogliere (evidenti e indubbi), sia le difficoltà incontrate dalle autorità chiamate a provvedere alla loro accoglienza (da prendere parimenti in considerazione) e tenuto sempre presente l’obiettivo della tutela dei diritti. In ambito sociale (e se ne è dimostrata la fattibilità anche con alcune iniziative pilota) per un’accoglienza, sempre più destinata a configurarsi come una dimensione normale nella società italiana, non pare più sufficiente puntare solo su strutture speciali e si dovrebbe tentare un coinvolgimento generalizzato delle famiglie italiane, riservando loro una quota parte della retta giornalmente pagata per il richiedente asilo, così da migliorare la qualità del vitto, dell’alloggio, della pratica della lingua italiana, dei legami con il territorio Naturalmente ciò potrà essere fatto solo facendo precedere un’accurata selezione delle famiglie tramite strutture del terzo settore, chiamate anche a completare l’accoglienza familiare con l’insegnamento dell’italiano, l’educazione civica, l’accertamento delle competente professionali in vista di un futuro inserimento e così via. Non si deplorerà mai a sufficienza la soppressione dell’istituto della sponsorizzazione introdotto dalla legge 40/1998, che avrebbe favorito una mentalità aperta all’ accoglienza, per giunta in questo con un non trascurabile  beneficio finanziario per le famiglie. Questa impostazione potrebbe assicurare un po’ di respiro per diversi anni, con la speranza che nel frattempo l’UE venga a capo della sua politica migratoria e sia di maggiore aiuto all’Italia.

6.Una società diventata multiculturale e multireligiosa

A differenza di altri Paesi europei di immigrazione, in Italia i cittadini stranieri sono arrivati dalle più disparate nazioni dei diversi continenti, apportando una molteplicità di culture, tradizioni, religioni. L’alternativa tra assimilazione e multiculturalismo è stata superata dall’Italia con il riconoscimento della mediazione culturale, presente nella legge 40 dl 1998, che unisce al rispetto delle legge e al principio di uguaglianza di fronte ad essa il riconoscimento delle differenze che non costituiscono un ostacolo alla convivenza.

Questa impostazione vale anche per le differenze religiose, che ormai fanno parte del panorama nazionale e vengono evidenziate da una molteplicità di luoghi di culto (ve ne sono oltre 300 solo a Roma), che, pur spesso allestiti presso vecchi fabbricati e garage riadattati, sono di grande efficacia aggregativa nei confronti delle rispettive comunità,  non solo per le esigenze religiose ma anche per quelle socio-culturali. Contrariamente alle prospettive ipotizzate dal secolarismo, le fedi, così intensamente e visibilmente vissute dagli immigrati, stanno riportando la dimensione religiosa nello spazio pubblico delle società europee e anche in Italia.

La scelta di una religione e la possibilità di praticarne il rito sono diritti fondamentali degli immigrati, anche se la loro accettazione è tutt’altro che facile da parte della popolazione, specialmente dopo l’attacco alle Torri gemelle a New York nel settembre del 2001 e i recenti eventi terroristici perpetrati da sedicenti musulmani nel 2015 e nel 2016 in Francia e in altri Paesi. Le motivazioni religiose degli attentatori sono state sconfessate e denunciate sempre più anche tra gli immigrati musulmani e le loro associazioni, ma bisogna insistere su una condanna sempre più decisa del terrorismo religioso sottolineando che il tema della misericordia, che ha costituito il leit motivo del Giubileo straordinario dei cattolici nel 2016, è comune anche alle religioni.

La diversità religiosa fa ormai parte dell’Italia attraverso gli immigrati, tra i quali prevalgono i cristiani (poco più del 50%, con prevalenza degli ortodossi), mentre poco meno di un terzo sono  i musulmani e poco meno del 10% i fedeli di religioni orientali. Percentuali inferiori caratterizzano gli altri gruppi e però agli agnostici e agli atei spetta un corposo 4,5%. Secondo una proiezione del Pew Research Center a metà secolo nell’Unione europea i musulmani potrebbero essere il 10% della popolazione. In Italia, su 12 milioni di immigrati ipotizzati alla stessa data, i musulmani potrebbero essere all’incirca 4 milioni, su una popolazione di poco superiore ai 60 milioni.

Più che preoccuparsi di invasioni di tipo religioso, bisogna abituarsi a convivere con i fedeli di altre religioni e, nel contempo, sollecitare il rispetto delle leggi e delle tradizioni italiane e assicurare la nostra disponibilità a favorirne in maniera ordinata l’esercizio del culto, che ora incontra diversi ostacoli.

Conclusioni

È sufficiente trarre le conclusioni in maniera molto schematica. L’Italia ha una serie di primati statistici perché è il Paese con:

-          la più consistente emigrazione tra i Paesi industrializzati;

-          la maggior crescita dell’immigrazione negli ultimi 40 anni;

-          una equivalenza tra emigrati e immigrati (5 milioni per ciascuna categoria);

-          le maggiori collettività di romeni, albanesi ed egiziani;

-          il maggior apporto degli immigrati a livello demografico.

L’Italia merita anche dei riconoscimenti per il salvataggio e il soccorso delle vite in mare; la concezione della mediazione tra le culture; la tolleranza religiosa (pur contrastata in diversi ambiti). Ma non mancano i rilievi da fare dal momento che in Italia si riscontra l’oblio di quasi un secolo e mezzo di emigrazione all’estero; è palese l’incapacità di pervenire a un minimo comune denominatore; è distorta la concezione delle pari opportunità da cui è conseguita un’integrazione subalterna. In conclusione: l’immigrazione senz’altro ci accompagnerà in misura rilevante nel corso di questo secolo, mentre è incerto se noi riusciremo a inquadrarla nella maniera dovuta.

Dialoghi Mediterranei, n.23, gennaio 2017

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Paolo Iafrate, ha conseguito il dottorato presso l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata in Sistema Giuridico Romanistico ed Unificazione del Diritto – indirizzo Diritto Musulmano e dei Paese Islamici. Si occupa delle problematiche di diritto penale e diritto dell’immigrazione, sia come ricercatore che come avvocato. Numerosi sono i suoi contributi sulle denunce presentate contro i cittadini stranieri e sulla metodologia da seguire per pervenire a una loro retta interpretazione. È attivamente impegnato, quale componente del Consiglio Scientifico presso il Centro Ricerche Economiche e Giuridiche (CREG), nonchè in qualità di docente e componente del comitato scientifico all’interno del Master in Economia Diritto e Intercultura delle Migrazioni (MEDIM) presso l’Università di Tor Vergata.
Franco Pittau, ideatore del Dossier Statistico Immigrazione (il primo annuario di questo genere realizzato in Italia) e suo referente scientifico fino ad oggi, si occupa del fenomeno migratorio dai primi anni ’70, ha vissuto delle esperienze sul campo in Belgio e in Germania, è autore di numerose pubblicazioni specifiche ed è attualmente presidente onorario del Centro Sudi e Ricerche IDOS/Immigrazione Dossier Statistico.

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