di Chiara Sebastiani
«… in America vi sono degli uomini più ebrei degli ebrei: mi riferisco ai negri. In America un ebreo è sì un ebreo, ma prima di tutto è un bianco» (Joseph Roth, Juden auf der Wanderschaft, 1927, tr. it. Ebrei erranti, 1985).Il 24 dicembre scorso, a Tunisi, in pieno centro e in pieno giorno, tre studenti congolesi ventenni, due ragazze e un ragazzo, vengono aggrediti da un uomo armato di coltello, e gravemente feriti. L’uomo si rivelerà affetto da disturbi psichici ma ciò non inficia l’evidente matrice razzista dell’aggressione. L’evento suscita un inedito risveglio delle coscienze. L’Associazione degli studenti e stagisti africani in Tunisia (AESAT) indice per il giorno successivo una manifestazione sull’avenue Bourguiba – uno dei luoghi simbolici della Rivoluzione del 2011. (Ben Zineb 2016) Alla manifestazione partecipa la deputata Jamila Debbech Ksiksi, prima e unica parlamentare esponente della minoranza tunisina di origini africane. L’indomani il primo ministro, Yussef Shahed, quarantenne fresco di nomina; pronuncia un discorso che da più parti viene definito “storico”. Afferma che è ora di aprire il dibattito su «un argomento tabù», vale dire sulle discriminazioni legate «al colore della pelle» di cui soffrono «i cittadini dell’Africa subsahariana». Sottolinea con vigore che si tratta di una violazione dei diritti umani, per superare la quale è necessario anche «un cambiamento di mentalità». Invita di conseguenza il Parlamento a promuovere urgentemente una legge che istituisca il reato di discriminazione razziale [1].
In quell’occasione France 24 cita Mehdi Ben Gharbia, ministro delle Relazioni con le istanze costituzionali, con la società civile e per i diritti umani, che ha parlato di un “flagello” della Tunisia (Rachid 2016). E Libération gli fa eco titolando: «La Tunisia si decide ad agire contro il razzismo verso i Neri» (Diarra 2016). Dalle sponde francesi, dove da anni viene denunciato, il razzismo sembra essersi trasferito, seguendo oscuri percorsi, sulle rive tunisine. Huffington Post Maghreb da anni – o meglio: da quando la Rivoluzione ha liberato le lingue e i media – pubblica una serie impressionante di testimonianze su aggressioni verbali e fisiche esplicitamente legate al colore della pelle delle vittime (Ben Hamadi 2013, Labassi 2016). La cronaca, recente e lontana, ne è costellata. Solo un paio di settimane dopo la Giornata internazionale per l’eliminazione della discriminazione razziale che si celebra il 21 marzo e alla quale i canali televisivi tunisini hanno dedicato diverse trasmissioni, uno studente della Costa d’Avorio sporge denuncia – con il sostegno dell’AESAT e della sua ambasciata – nei confronti di un taxista che prima lo imbroglia, poi lo picchia e lo insulta con epiteti razzisti [2]. Due anni fa un diplomatico senegalese, Oussmane Fall, a seguito di un diverbio all’aeroporto di Tunisi con un taxista che voleva – secondo una prassi corrente – chiedergli una cifra di gran lunga superiore a quella segnata sul contatore, viene arrestato e malmenato dalla polizia aeroportuale che non ha esitato a schierarsi con il taxista [3]. Malgrado le proteste dell’intero corpo diplomatico delle missioni subsahariane in Tunisia, e l’impegno del Ministero degli Affari Esteri Tunisino, sulla questione è caduto rapidamente il silenzio. Qualcuno ha commentato che se questo è il trattamento riservato ad un diplomatico è facile immaginare cosa subiscono gli africani “normali”. Nessuno invece si è chiesto come mai la solidarietà sia venuta solo dal corpo diplomatico “subsahariano” e non, come sarebbe stato logico aspettarsi, dal corpo diplomatico tout court, ovvero da tutte le ambasciate.
La Tunisia sarebbe dunque un paese razzista? Sulla sponda nord del Mediterraneo – infestata oggi dal razzismo anti-arabo e islamofobo – la domanda può sconcertare. Sia perché i Tunisini hanno subito il razzismo della colonizzazione prima, quello dell’emigrazione dopo, sia perché questo piccolo Paese è stato sempre citato come modello per l’intera regione del Nordafrica e del Medioriente, ieri per la sua vicinanza culturale all’Europa (Dakhlia 2011), oggi per la sua transizione democratica, unico successo, al momento, delle “primavere arabe”.
Jamila Debbech Ksisi parla con conoscenza di causa. Deputata, nata a Médenine, profondo Sud della Tunisia, da una famiglia originaria di Ben Guerdane, la città ai confini della Libia («e ne sono fiera»), è lei stessa membro della minoranza nera e il razzismo lo ha sperimentato sulla sua pelle. «Quando andavo a scuola ero sempre sola», ricorda, «gli altri mi evitavano. Ma questa esperienza mi ha dato forza». La sua carriera si snoda tra, una posizione dirigenziale nel settore pubblico, un’esperienza sindacale, un impegno attivo nella società civile, prima di approdare in Parlamento nel 2015. Ed è da quel momento che il razzismo – di cui fino allora aveva parlato poco pubblicamente – diventa uno degli ambiti del suo impegno, quasi avesse aspettato che esso andasse al di là del suo vissuto personale. Racconta:
«Da quando sono stata eletta in Parlamento, mi trovo a rappresentare la comunità nera. È la prima volta che questa vede un suo membro occupare una posizione ai vertici delle istituzioni. Poco dopo la mia elezione si è svolta la partita tra le nazionali di calcio della Tunisia e della Guinea. Al termine ci furono scontri, con violenze e insulti razzisti. In quell’occasione feci un discorso in Parlamento in seduta plenaria: esso venne apprezzato tanto dai Tunisini quanto dai subsahariani. È allora che ho pensato a una legge che faccia del razzismo un reato».
E aggiunge:
«Il razzismo in Tunisia è un argomento tabù. Soprattutto le élites del paese non ne parlano. Molti negano, alcuni ammettono. A lungo è prevalso questo ambiguo oscillare tra diniego e riconoscimento. Con la Rivoluzione le cose sono cambiate. La Rivoluzione ha aperto le porte alla libertà di parola e alla libertà di associazione, e di conseguenza alla mobilitazione della società civile e delle organizzazioni per i diritti umani».
Un progetto di legge – che prevede tra l’altro l’aggravante della motivazione razzista per violenze o aggressioni – è stato presentato il 14 giugno 2016 al Parlamento e i deputati della coalizione di maggioranza – sia dei liberali di Nidaa Tounès sia gli islamisti di Ennahdha – si sono impegnati ad appoggiare la proposta. I promotori del progetto, esponenti dell’attivismo sociale di sinistra – è il caso del Forum Tunisino per i Diritti Economici e Sociali (FTDES) – e dell’attivismo in materia di diritti umani – il Comitato per il rispetto delle libertà e dei diritti umani e la Rete euro-mediterranea per i diritti umani – rappresentano quella importante componente della società civile tunisina che guarda all’Europa alla cui cultura attinge. Ma la questione del razzismo in Tunisia non può essere capita solo attraverso i referenti linguistico-concettuali radicati nel contesto europeo. Il tema infatti è incastonato in un gioco di specchi e proiezioni reciproche tra le due sponde del Mediterraneo: basti pensare che in Tunisia gli arabi parlano di se stessi come “bianchi” mentre in Europa vengono messi tra i non-bianchi, o che in Francia qualche esponente delle comunità arabo-musulmane abbia invocato a propria tutela la legislazione sull’antisemitismo, ricordando ad una distratta opinione pubblica europea che arabi ed ebrei si considerano ambedue discendenti di Sem.
Lo stesso gioco di specchi e proiezioni reciproche che avviene tra le due sponde del nord e del sud del Mediterraneo si riproduce poi all’interno del Paese, sicché si può parlare di un razzismo “esterno”, dove la costruzione del “noi/altri” trova supporto nella dicotomia “cittadini/stranieri” e di un razzismo “interno” dove la stessa costruzione si basa esclusivamente sulla dicotomia “bianchi/neri”. E se il primo ha, malgrado tutto, un certo accesso alla coscienza collettiva, come dimostrano le periodiche denunce di media e associazioni dopo la Rivoluzione, il secondo sembra appartenere assai più alle zone d’ombra dell’inconscio culturale.
Di questo razzismo duale Jamila Ksiksi fornisce una sintesi folgorante:
«Ci sono i neri Tunisini e i subsahariani. Ambedue sono oggetto di discriminazione ma si tratta di discriminazioni diverse. Per i subsahariani le discriminazioni si appoggiano sulla loro condizione giuridica di stranieri, sono legate alle normative sui migranti, a problemi di accettazione e di integrazione. Per quanto riguarda i neri Tunisini, invece, non sono accettati i matrimoni con loro».
Vi sono dunque due tipi di comunità nere in Tunisia, quella dei neri di nazionalità straniera oggetto di un “razzismo di strada” che si manifesta nello spazio pubblico, e quella dei neri tunisini oggetto di un “razzismo domestico” che si manifesta negli spazi privati e della vita quotidiana. E se sui primi esistono alcuni studi (vedi ad esempio Pouessel 2014), sui secondi non c’è quasi nulla.
La comunità subsahariana
L’espressione “subsahariani” con la quale vengono designati in Tunisia gli stranieri dalla pelle nera già connota modalità specifiche di costruzione del “noi” e degli “altri”. Se in Europa quelli della sponda sud del Mediterraneo sono comunque “Africani” – caso mai distinti tra popolazioni del “Nordafrica” e dell’“Africa nera” – in Tunisia la stessa africanità è una nozione contesa: rivendicata dai subsahariani, rifiutata dai nordafricani.
La mancanza di dati precisi sull’immigrazione subsahariana in Tunisia è in parte il frutto di scelte politiche del passato regime in parte dei mezzi carenti ci cui dispone l’IstitutoNazionale di Statistica in Tunisia. Una ricerca recente li stimava intorno ai 10 mila (Mazzella 2012). Poiché la legislazione tunisina vieta il lavoro agli stranieri quanti svolgono attività retribuite lo fanno in nero il che rende ogni quantificazione difficile. La comunità nera subsahariana visibile è in larga parte una minoranza qualificata o una vera e propria élite composta da un lato di studenti e stagisti, dall’altro da professionisti in condizioni particolari, membri del corpo diplomatico, giocatori di football, dipendenti di società offshore. Ad essa si sono aggiunti, nel decennio 2003-2013, i circa mille funzionari della BAD (Banque Africaine du Développement) – costretta a trasferire la propria sede di Abidjan in seguito al colpo di stato in Costa d’Avorio – i quali, accompagnati dai loro familiari, hanno riversato di colpo su Tunisi una nutrita élite africana.
Padre Silvio Moreno, di origini argentine, da otto anni si occupa presso al Prelatura di Tunisi della pastorale dei giovani africani – che sono al 70% cristiani (la minoranza musulmana proviene prevalentemente dal Ciad e dal Mali). Sulla questione del razzismo contro i neri in Tunisia afferma: «Il fenomeno esiste. Ma sono casi isolati, molti giovani subsahariani vengono bene accolti. Non penso che il razzismo sia una caratteristica della Tunisia. Certo qui la cultura araba lo produce». E spiega: «Molte cose si mescolano: la comunità subsahariana è fatta di neri, cristiani e francofoni. Tutto questo in un Paese musulmano …» Aggiunge, quasi a voler evitare fraintendimenti: «Per gli Occidentali, naturalmente, le cose vanno diversamente …» Vale a dire che nel caso di questi ultimi l’essere bianchi (e ricchi) trasforma cristianesimo e francofonia in connotati di prestigio. Nella borghesia tunisina la francofonia è sempre stata un tratto di distinzione e oggi si sta manifestando una discreta attrazione per il cristianesimo, alimentata proprio dall’immigrazione sub sahariana, ivi compreso quella elitaria della BAD. (Boissevain 2013) Ed è sufficiente recarsi nella cattedrale di Tunisi, situata al centro città, o nella chiesa cattolica dedicata a Giovanna d’Arco, nel vecchio quartiere delle ambasciate del Belvedere, per capire quali profondi mutamenti l’immigrazione subsahariana abbia prodotto nelle parrocchie. «Metà dei nostri parrocchiani erano della BAD» ricorda padre Silvio. Qui, in occasione delle grandi festività di Natale e di Pasqua, a fianco di pochi anziani Francesi o Italiani, una giovane, benestante, entusiasta comunità africana ha importato con i suoi fedeli i suoi costumi variopinti e i suoi cori dirompenti.
Anche gli studenti stanno cambiando il volto non solo della capitale ma delle città costiere – Sfax, Sousse, Monastir – e del Centro-Nord-ovest, Bizerta, Jendouba, grazie al reclutamento di studenti tramite reti private specializzate. I dati su questi ultimi sono anch’essi alquanto incerti. L’AESAT fornisce nel 2002 la cifra assai bassa di 1129 (Pellicani e Palmisano 2002). Secondo Christian Burkasa, presidente dell’associazione degli studenti congolesi in Tunisia, sarebbero stati circa 12 mila prima della Rivoluzione, cifra che oggi si sarebbe dimezzata. Per Padre Silvio, invece, ancora due anni fa ci sarebbero stati circa 10 mila studenti, e oggi i giovani non sarebbero meno di 7-8 mila, grazie anche al grande flusso in entrata di quelli provenienti dalla Costa d’Avorio ai quali non è richiesto il visto. Il calo, più che all’insicurezza, al razzismo, al deterioramento della formazione universitaria, gli appare legato alla crisi economica che ha fatto anche scendere il numero delle borse di studio.
«Le università private tunisine sono alla caccia di studenti subsahariani: cercano di reclutarne il più possibile. Si avvantaggiano del fatto che questi ultimi non hanno accesso alle università pubbliche tunisine, salvo nel caso di precisi accordi con altri stati – è il caso dell’Angola e della Guinea Equatoriale – che mettono a disposizione borse di studio. Le università private sono molto care – anche 70 o 80 000 dinari – e gli studenti ufficialmente non possono lavorare per mantenersi agli studi poiché solo le imprese offshore possono assumere stranieri. Sono quindi sfruttati su tutti i fronti: come manodopera saltuaria in nero, come utenti delle università, come consumatori, come inquilini. A fronte di affitti cari, vengono loro sistematicamente riservati gli alloggi peggiori, agli ultimi piani, in cattive condizioni. Inoltre nelle università private non si parla francese ma arabo, lingua che molti non conoscono. Beninteso le cose andavano diversamente quando qui c’era la BAD. Ai suoi funzionari sono stati offerti appartamenti di lusso e ottime scuole private per i figli …».
Come tutti, Padre Silvio si basa, oltre che sui dati forniti dalle associazioni studentesche, su quelli forniti dalla Caritas e dall’OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni). Queste stesse fonti, oltre al contatto diretto della prelatura con le comunità africane cristiane, gli fanno quantificare in circa 15 mila la presenza complessiva della comunità subsahariana.
«Non sono tutti studenti. Ci sono quelli che usano la Tunisia come ponte per la Francia o il Canada. Ci sono quelli senza documenti e quelli che lavorano in nero. E fanno i “lavori dei neri”: nei bar e nei caffè, nei campi e nei cantieri. Un nero costa meno di un bianco: il razzismo è questo».
Che genere di razzismo
Vi è anche, nel razzismo, una componente di genere che vede le donne vittime due volte: da un lato di forme specifiche di sfruttamento, dall’altro delle rappresentazioni che ne derivano. «Tra la Tunisia e la Costa d’Avorio» – è ancora padre Silvio a raccontarlo – «c’è una vero e proprio traffico schiavistico reso più facile dal fatto che non è necessario il visto. Riguarda soprattutto domestiche e prostitute e si appoggia su reti estesissime».
Ma donne e ragazze provenienti dai Paesi subsahariani sono vittime di sistematiche molestie sessuali, è la denuncia di Dramane dit Boutia Konaté, presidente dell’Associazione degli Studenti e Stagisti Maliani in Tunisia, che vive in Tunisia da cinque anni, è laureato in Diritto Internazionale, sta preparando un Master presso una università privata, e dichiara di non aver incontrato problemi di razzismo.
«Il problema principale non è il razzismo, è la necessità del permesso di soggiorno. Per tutto, anche per avere un contratto di affitto regolare. Il bollo sul permesso di soggiorno è passato da 15 a 75 dinari. Inoltre quando esci dalla Tunisia all’aeroporto ti fanno pagare un’ammenda di 300 dinari se hai presentato il permesso di soggiorno in ritardo. Ma spesso il ritardo è dovuto agli uffici amministrativi che non rispettano i tempi per smaltire la pratica. E presso i commissariati di polizia qualcuno rifiuta di farla. Oppure ti chiedono del denaro. In un commissariato dell’Ariana [periferia di Tunisi] c’è un certo Ali che approfitta della situazione per portarsi a letto le ragazze. Del resto le molestie sessuali, da parte dell’amministrazione, nei confronti delle ragazze, sono correnti. Hanno a che fare con l’idea che la gente ha delle donne nere. Vengono assimilate alle prostitute».
Un ulteriore dato inquietante denunciato da Dramane è il peggioramento della situazione degli studenti subsahariani dopo la Rivoluzione.
«Ai tempi di Ben Ali le cose andavano meglio. Da tutti i punti di vista: alloggio, sicurezza, cibo …Dopo la Rivoluzione, si è cercato di favorire i Tunisini».
Lo confermano altre voci. In caso di diverbio tra Tunisini e neri subsahariani la polizia ferma sistematicamente questi ultimi. È successo per esempio una sera in cui un gruppo di Tunisini, dopo un diverbio tra un tassista e un Senegalese, sono andati all’attacco, armati di pietre e bastoni, di un palazzo nel quartiere centrale di La Fayette, interamente abitato da studenti africani. Chiamata dal Senegalese, la polizia lo ha portato al commissariato lasciando gli aggressori indisturbati. Interessante il commento di una giovane studentessa congolese, testimone dell’episodio:
«Questo incidente è perfettamente rappresentativo del clima di insicurezza che viviamo dopo la caduta di Ben Ali. Si tratta ovviamente di un problema che riguarda tutti i Tunisini ma penso che noi, stranieri neri, siamo particolarmente esposti. Da un lato perché il razzismo contro i neri è ben radicato in Tunisia. Dall’altro perché certi Tunisini pensano che gli studenti stranieri, in particolare i neri africani, fossero troppo protetti sotto il regime di Ben Ali. E’ vero che la polizia ci sosteneva spesso in caso di piccoli diverbi. Gli studenti stranieri neri sono in maggioranza nelle università private e il regime non aveva interesse a cambiare questa situazione. Oggi le stesse persone pensano che dobbiamo tornarcene a casa. Del resto quella sera ho sentito delle persone gridare: ‘Ben Ali è partito! Questa è la Tunisia, non l’Africa’» (Mania 2013).
Il quartiere La Fayette, al centro di Tunisi e al cuore della vecchia “città europea” (così chiamata in contrapposizione alla medina), un tempo elegante quartiere residenziale e sede di missioni diplomatiche, ha conosciuto dopo l’indipendenza prima un processo di “arabizzazione”, a seguito anche della partenza della nutrita comunità ebrea che vi abitava, con conseguente deterioramento degli immobili, poi un processo di terziarizzazione e di pauperizzazione, che hanno inciso sulle condizioni di sicurezza. Oggi, mentre alcuni palazzi decadenti vengono tirati giù e sostituiti da nuovi immobili di lusso, quelli vecchi, scarsamente mantenuti, vengono affittati soprattutto a stranieri, in particolare a studenti: i prezzi salgono costantemente mentre le condizioni abitative peggiorano. Lo stesso processo si osserva in altre parti della vecchia città coloniale, per esempio intorno al grande mercato informale di Moncef Bey o ai margini del vecchio quartiere italiano della Piccola Sicilia. Qui la notte, quasi a rivalsa verso una popolazione autoctona che li sfrutta e li disprezza insieme, gruppi di giovani africani, secondo le usanze degli studenti di tutto il mondo, girano rumorosi, le loro risate suonano una sfida ai residenti che dormono, le belle ragazze in minigonna fanno un contrasto stridente con le lunghe vesti scure che celano i corpi delle musulmane tunisine dei ceti popolari.
È alla luce di questo confronto latente che vanno comprese le parole di Yazid, trent’anni, ceto medio, ottimo francese, il quale lavora come informatico in Congo, parla diverse lingue africane e intrattiene con i neri rapporti di grande familiarità.
«Sai cosa ti dico? Gli Africani sono più razzisti degli Arabi. Loro si sentono superiori. Non si lasciano avvicinare. Io ci riesco perché parlo la loro lingua e li conosco, lavoro con loro. Altrimenti ti escludono. Sono fieri della loro cultura».
Aggiunge Kalthoum, buona borghesia tunisina, studi universitari in Francia, oggi insegnante in pensione:
«La gente è stata abituata in passato a vedere i Neri in veste di domestici, oggi in veste di studenti spesso di famiglie benestanti o di alti funzionari: nel primo caso questo genera disprezzo, nel secondo risentimento».
I neri tunisini
Se per i neri di provenienza subsahariana in Tunisia il problema principale è legato allo stauts giuridico, ben diversa è la posizione dei neri tunisini. I primi hanno la (fondata) sensazione che senza il ricatto del permesso di soggiorno sarebbero meno esposti ad abusi ed angherie. Ma le discriminazioni che subiscono i secondi hanno esclusivamente radici storico-sociali. E se con una legge si può cambiare da un giorno all’altro lo status di un gruppo sociale, non altrettanto facile è cambiare le mentalità. Prova ne sia che se la schiavitù è stata ufficialmente abolita nel 1846, di fatto, secondo Saadia Mosbah, presidente dell’associazione M’nemti che si batte contro il razzismo, «nel sud essa ha perdurato fino al 1890. ‘E fino ad oggi a Djerba’ aggiunge» (Luytens 2015)
Ho chiamato il razzismo nei confronti dei neri tunisini un razzismo “interno” rispetto a quello nei confronti dei neri subsahariani che si può definire razzismo “esterno”. Con ciò intendo dire che le proiezioni negative della società tunisina – che sono una ben nota componente del razzismo (Siebert 2003) – nel secondo caso vengono proiettate su un gruppo definito come straniero, e quindi passibile di espulsione, mentre nel primo toccano un gruppo riconosciuto come facente parte della società, che può quindi solo essere marginalizzato (Larguèche 1999). E queste proiezioni attingono variamente – attraverso una rielaborazione distorta e fantasmatica – alla storia, alla geografia, alla religione.
«Se c’è razzismo» spiega Kalthoum, «lo si deve ad una lunga tradizione di impiego dei neri come domestici. In passato avere servitori neri, sull’esempio delle famiglie dei bey, era un tratto di distinzione». Alle origini di questa tradizione c’è la schiavitù, uno dei fattori più spesso indicati per spiegare le radici del razzismo. In realtà i processi sono più complessi. La schiavitù nelle società arabe non ha mai riguardato soltanto i Neri. In Tunisia schiavi neri provenienti da guerre tribali africane e schiavi bianchi provenienti da razzie sulle coste europee e da atti di pirateria in Mediterraneo hanno storicamente coesistito. Ma se gli schiavi neri non sono mai usciti dalla loro condizione subalterna di domestici, per gli schiavi bianchi le prospettive andavano da un estremo all’altro: per gli uomini dalle galere alle massime funzioni pubbliche, per le donne dallo stupro al matrimonio con nobili.
La schiavitù era un grande commercio al quale, negli anni della modernità, hanno partecipato tutti, Europei e Africani, Cristiani e Musulmani, governanti e avventurieri, diplomatici e mercanti, banche e associazioni caritatevoli. Agli albori della mondializzazione dei mercati, il più sicuro indicatore della differenza di condizione tra Bianchi e Neri, ancorché schiavi ambedue, stava nella differenza di prezzo – potremmo dire cinicamente dello spread – tra gli uni e gli altri: il prezzo massimo di uno schiavo nero non raggiungeva quello minimo di uno schiavo bianco (Valensi 1967). Tale differenza era legata ai rapporti di forza tra i Paesi fornitori della “merce”: la merce umana proveniente dall’Europa era dotata di maggiore competenza, rispondeva ai requisiti estetici imposti dal canone culturale dominante e proveniva da Paesi in grado di pagare alti riscatti. L’Africa, i suoi, non provava nemmeno a riscattarli: erano bocche superflue che esportava come forza-lavoro – «triste bestiame» scrive la Valensi – così come il sud italiano esportava i suoi emigranti fino a cinquant’anni fa.
È in questo contesto che si iscrive il paradosso di una Tunisia che ha abolito la schiavitù prima della Francia e degli Stati Uniti, ma tuttavia «ne conserva residui nella società e nella mentalità», come afferma Jamila Ksiksi. Residui quali certi cognomi, o lo stato civile che a Djerba mantiene la menzione ‘atig, “schiavo affrancato”, o l’interdetto matrimoniale o autobus separati per scolari bianchi e neri (Yene 2013), o addirittura cimiteri separati. «E vengono ancora usati correntemente termini razzisti come oussif” -“schiavo”, per estensione “nero”» – ricorda ancora Jamila.
E poco importa che a discendere dagli schiavi non siano solo i neri e che gli schiavi cristiani sotto i bey di Tunisi abbiano fornito allo Stato buona parte dei suoi quadri politico-militari, al punto da far concorrenza alle élites locali nei processi di promozione sociale. Conta invece che questi processi siano stati pressoché inesistenti per gli schiavi neri affrancati (Larguèche 1999). Da questa diversa traiettoria degli affrancati prende origine un disprezzo le cui componenti potrebbero essere più classiste che razziste.
Accanto alla storia, anche l’immaginario collettivo attinge alla geografia, alla straordinaria posizione della Tunisia, testa di ponte naturale tra Africa ed Europa, tra un Mediterraneo che qui tocca il suo punto più stretto e un Sahara che assume dimensioni oceaniche. Come sottolinea Jamila:
«I Tunisini si credono europei e non africani. Eppure è proprio l’antico nome della Tunisia – Ifriqiya– che si è esteso all’intero continente! La marginalizzazione dell’africanità in Tunisia è frutto di una ecisione politica. Il Maghreb era legato alla Francia e la Francia voleva che lo sviluppo della Tunisia fosse alla francese. In ciò sostenuta da Burghiba, che pure aveva tentato una apertura all’Africa».
Il razzismo attinge anche a «una comprensione distorta dell’Islam» secondo Jamila. Ci si potrebbe infatti chiedere come mai il razzismo sia il grande tabù di una società musulmana, vale a dire una società dove la stragrande maggioranza della popolazione si riconosce – per fede o per cultura – in una religione che fa dell’uguaglianza degli uomini un assunto basilare. Se ai tempi della missione profetica di Mohammed la schiavitù esisteva in tutte le società del vecchio mondo, e se l’Islam – al pari del Cristianesimo e dell’Ebraismo – non lo ha mai vietato, tuttavia il Corano e la Sunna sono privi di ambiguità per quanto concerne l’eguaglianza di tutti gli uomini, e le loro prescrizioni in materia di organizzazione sociale tendevano chiaramente ad un graduale superamento della schiavitù. Ciononostante si sono sviluppate nei secoli errate interpretazioni – l’Islam ammette la schiavitù, gli schiavi sono Neri, di conseguenza sarebbero una razza inferiore – e quantità di pratiche sociali che nulla hanno a che fare con i precetti religiosi. Ma per quanto le manifestazioni di razzismo in Tunisia siano un fenomeno prettamente socio-culturale – come emerge per esempio dalla raffinata testimonianza di una artista (Mosbah 2004) – il non-detto che lega razzismo e schiavismo all’Islam è una componente del tabù.
Infine, se «l’africanità della Tunisia è un fatto indiscutibile», non se ne trovano quasi tracce nella letteratura, nella fiction televisiva e nel cinema, dove il notevole lungometraggio del regista Mahmoud Ben Mahmoud, Les siestes grenadines (1999) resta un caso isolato. I dati che riguardano i neri Tunisini sono straordinariamente scarsi. Alcune associazioni li quantificano intorno al 15% della popolazione ma mancano basi statistiche., anche se da un sondaggio di opinione realizzato dall’Istituto Nazionale di Statistica nel 2016 risulta che in Tunisia si verificano 700 atti di razzismo ogni giorno. Così Jamila Ksiksi ha appena fondato l’Osservatorio Africano di Lotta contro la Discriminazione Razziale che raggruppa intorno ad un ambizioso progetto scientifico una nutrita squadra di giuristi, avvocati, giornalisti, artisti, sociologi, docenti con lo scopo di studiare le discriminazioni presenti «nelle leggi, nelle istituzioni, negli spiriti» e di fornire al contempo studi e ricerche, azioni di sostegno alle minoranze discriminate e una intepretazione dello sviluppo che guardi all’Africa e non solo all’Europa. In quest’ultima direzione, peraltro, sembra anche muoversi la politica tunisina: è proprio di queste settimane il viaggio di Youssef Chahed in una serie di Paesi dell’Africa subsahariana con lo scopo di rafforzare la cooperazione economica Ma se le linee politiche si possono cambiare da un giorno all’altro, più complicato è trasformare le coscienze.
L’identità negata
La coscienza del Tunisino è la coscienza del decolonizzato. La coscienza del decolonizzato è una coscienza infelice. Non sa come definirsi non sa quale sia la sua lingua. Ha creduto che l’indipendenza, con un colpo di bacchetta magica, avrebbe restituito alle popolazioni la loro identità, la loro cultura, i loro valori antichi. (Béji 2008). Se ciò non è avvenuto ciò dimostrerebbe che gli antichi padroni avevano ragione: gli arabi sono irrimediabilmente inferiori. Il razzismo che si manifesta nei confronti dei Neri è la proiezione del senso di inferiorità che si annida nell’inconscio culturale dei “decolonizzati”. Sulla negritudine dell’africano si fonda la bianchezza dell’arabo. L’arabo “decolonizzato” è razzista anzitutto verso sé stesso, al punto da disprezzare la propria lingua, da definirsi in qualunque modo – berbero, fenicio, romano – purché non sia arabo. Per il colonizzato il mondo si divideva in due: il Bianco e il non-Bianco, nero, arabo, indiano poco importa. La città coloniale si divideva in «una città di bianchi, di stranieri» e una città indigena – «il quartiere negro, la medina, la riserva […] luogo malfamato popolato di uomini malfamati» (Fanon 1961). Con l’indipendenza, una parte della popolazione – élites e ceti medi – ha sognato di diventare bianca a sua volta.
Al giovane arabo che si chiede come mai France24 sia così sensibile al razzismo in Tunisia ma insensibile al razzismo in Francia risponde la giovane africana chiedendosi come mai gli arabi della diaspora, pronti a mobilitarsi contro il razzismo che li colpisce in Europa, passino sotto silenzio quello che esiste nei loro Paesi di origine. Questo costante gioco di rispecchiamenti e di proiezioni è al cuore delle problematiche del razzismo in Tunisia.
Dialoghi Mediterranei, n.25, maggio 2017
Note
[1] Cfr. “Youssef Chahed: une loi criminalisant le racism sera bientôt adoptee”, Businessnews, 26 dicembre 2016, ttp://www.businessnews.com.tn/youssef-chahed–une-loi-criminalisant-le-racisme-sera-bientot-adoptee,520,69227,3
[2] Cfr. “Agression raciste à Tunis: Plainte contre un chauffeur de taxi”, Kapitalis, 11 aprile 2017 http://kapitalis.com/tunisie/2017/04/11/agression-raciste-a-tunis-plainte-contre-un-chauffeur-de-taxi/
[3] Cfr. “Un diplomate sénégalais violemment tabassé à l’aéroport Tunis-Carthage”, Espace Manager, 6 luglio 2015, http://www.espacemanager.com/un-diplomate-senegalais-violemment-tabasse-par-la-police-laeroport-tunis-carthage-voila-ce-qui-est
Riferimenti bibliografici
Ben Hamadi, S. (2013), “Le racisme envers les noirs en Tunisie, une réalité occultée”, Huffington Post Maghreb, 23 luglio, http://www.huffpostmaghreb.com/2013/07/24/racisme-noir-tunisie_n_3638938.html
Ben Zineb, M. (2016), “Crime raciste ou fait divers”, Businessnews, 26 dicembre,http://www.businessnews.com.tn/Crime-raciste-ou-fait-divers,-quand-l%E2%80%99amalgame-dessert-la-cause,519,69241,3
Béji, H. (2008), Nous, decolonizes, Paris, Arléa.
Boissevain, K. (2013), “Des conversions au christianisme à Tunis. Vers quell protestantisme?”, Histoire, monde et cutures réligieuses, n.28, 4: 47-62.
Dakhlia, J. (2011), Tunisie. Le pays sans bruit, Arles, Actes Sud.
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Chiara Sebastiani, sociologa, politologa, psicoanalista, è docente di Politiche urbane e locali e di Teoria della sfera pubblica presso l’Università di Bologna. Tra i suoi temi di interesse le politiche delle città, lo spazio pubblico, le questioni di genere. Su questi temi ha svolto ricerca in Europa e in Africa. Ha vissuto e insegnato in Tunisia dove dal 2011 ha seguito sistematicamente le trasformazioni in corso, scrivendp numerosi articoli e un libro (Una città una rivoluzione. Tunisi e la riconquista dello spazio pubblico, Cosenza, Pellegrini Editore, 2014). Tra le sue altre pubblicazioni: La politica delle città, Bologna, Il Mulino, 2007 e La sfida delle parole. Lessico antiretorico per tempi di crisi, Bologna, Editrice Socialmente, 2014.
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