di Luigi Speciale
Fra le specie di echinodermi più diffuse nel Mar Mediterraneo vi è il Paracentrotus lividus, il comune riccio di mare commestibile, presente lungo la maggior parte della costa a una profondità variabile fra 0 e -80 mt (maggiore diffusione fra 0 e -30 mt), sfruttato dal genere umano sin dai tempi più antichi. Le sue origini risalgono alla prima parte dell’Era Paleozoica, nel periodo comunemente denominato Cambriano (570-500 mil. di anni fa). Fossili di echinodermi integri o parziali sono stati rinvenuti e documentati lungo i principali rilievi montuosi della penisola italiana, dalle Alpi Marittime ai monti siciliani.
In particolare, nei monti prospicienti le coste della Sicilia occidentale, nella provincia di Trapani, è documentata la presenza di echinodermi fossili in un continuum che va dall’Aaleniano all’Oxfordiano (175-155 mil. di anni fa, piani del periodo Giurassico Medio e Superiore) (Catalano et al., 2011).
Il primo periodo dell’Era Quaternaria, il Pleistocene (2,5 mil.-10.000 anni fa), caratterizzato dall’alternarsi di lunghe fasi glaciali e interglaciali, è stato sicuramente uno dei momenti più sfavorevoli per la diffusione del Paracentrotus lividus nel bacino del Mediterraneo. Infatti, durante l’ultima glaciazione del Würm (80.000-10.000 anni fa) il livello del mare si è abbassato mediamente di -130 mt rispetto a quello attuale, con picchi di -200 mt e temperature molto rigide, che non sono particolarmente gradite al riccio di mare.
Il Pleistocene segna anche lo sviluppo delle prime comunità preistoriche, che vivevano sostanzialmente di caccia e raccolta. Lungo le coste mediterranee sono visibili alcuni siti preistorici, principalmente grotte e ripari, che evidenziano lo sfruttamento di molluschi, crostacei ed echinodermi come il Paracentrotus lividus.
Pur non avendo un dato certo in merito, si può ipotizzare la raccolta di ricci in superficie sino ai primi metri di profondità, utilizzando direttamente le mani o utensili oblunghi e piatti per agevolare il distacco dalla roccia; mentre per perforare la parte inferiore del guscio ed estrarre le gonadi, è plausibile l’utilizzo di drills (perforatori). Un’annotazione riguarda il dato archeologico: lo sfruttamento del Paracentrotus lividus in epoca preistorica è maggiormente attestato nella zona della Penisola Iberica, sia sul versante mediterraneo che su quello atlantico, mentre su tutto il resto del bacino del Mediterraneo la documentazione in merito è più esigua. Bisogna sottolineare il fatto che il riccio di mare non occupava un posto primario nelle abitudini alimentari, pur avendo degli ottimi valori nutrizionali, racchiusi però in minime quantità per soddisfare a pieno il fabbisogno energetico giornaliero; oltre a ciò, la reperibilità del dato non è del tutto semplice, se non attraverso l’analisi dei coproliti (escrementi fossili), spine e frammenti di esoscheletro. In altri casi, essi possono essere identificati e quantificati analizzando alcune strutture calcaree, note come lanterne di Aristotele (Guti’Errez Zugasti, 2011).
È nell’Olocene, l’epoca che va dalla fine dell’ultima glaciazione würmiana sino ai nostri giorni, in condizioni climatiche favorevoli, che il riccio di mare trova maggior diffusione. Più avanti sulla linea cronologica, la civiltà fenicio-punica ha lasciato tracce ben più evidenti sul suo sfruttamento lungo le coste dei luoghi sotto la sua influenza. In Sardegna, durante la campagna di scavi del 2005 nell’abitato dell’antica Sulky (Sant’Antioco), sono stati studiati i resti faunistici del vano magazzino dell’area cosiddetta del Cronicario, in un arco cronologico che va dal VII – V sec. a.C. (fase fenicia) al III sec. a.C (fase punica). Il ritrovamento al suo interno di vari molluschi bivalvi ancora chiusi e di frammenti di Paracentrotus lividus fa supporre che nel magazzino venissero conservati anche prodotti freschi, da vendere al dettaglio, come sembra confermare anche il ritrovamento di due anfore tagliate per poter estrarre più facilmente il contenuto (Carenti, Wilkens, 2009). Un altro esempio molto interessante è lo studio faunistico della “vasca 52” nel santuario fenicio-punico di Tas Silġ presso l’isola di Malta. Tale struttura, fondata intorno all’VIII sec. a.C., fu verosimilmente utilizzata per pratiche di abluzione e poi obliterata tra la seconda metà del II e il I secolo a.C. da uno scarico ricco di ceramica e resti faunistici terrestri e marini. Al suo interno, numerosi e difficilmente quantificabili erano i frammenti di esoscheletri e aculei di ricci di mare, molluschi, crostacei e diverse varietà di pesci. La loro alta percentuale tra i resti di animali terrestri riflette l’importanza del consumo di prodotti marini per le popolazioni di cultura fenicio-punica (De Grossi Mazzorin, Battafarano, 2009).
In epoca romana lo sfruttamento del Paracentrotus lividus è assiduo e continuo. Le fonti menzionano molto spesso la predilezione da parte dei Romani dei ricci provenienti da Miseno, nei pressi di Napoli. Esso diventa principalmente un prodotto d’élite, presente sulle tavole di molte ville patrizie. Ne è un esempio la casa di Marco Fabio Rufo, una tipica villa cittadina pompeiana, edificata fra il IV-III a.C e in uso sino al 79 d.C., data dell’eruzione del Vesuvio che sommerse l’intera Pompei (Grimaldi et al., 2011).
Anche in questo caso, i frammenti di teca di riccio di mare sono molto numerosi, tanto da ipotizzare un ingente consumo alimentare delle gonadi, (fig.3) e perché no, un fenomeno di collezionismo dei gusci di Paracentrotus lividus, come spesso avviene anche oggi fra gli appassionati del mare. Per quanto riguarda l’ambito gastronomico dei ricci di mare, bisogna menzionare la figura di Marco Gavio Apicio. Dalle testimonianze di Cassio Dione (LVII, 19, 5), della Historia Augusta (II, 5, 9), dallo scolio a Giovenale (IV, 23), da Seneca (Dialog. XII, 10, 8) e da Tacito (Ann. IV,1) egli dovrebbe aver vissuto fra il 25 a.C. e il 37 d.C., sotto l’imperatore Tiberio. Considerato il più grande gastronomo del basso impero, gli è attribuito erroneamente il De re coquinaria, un manuale di cucina con 478 ricette. Da un punto di vista filologico, è un testo molto complesso, costituito da più sezioni non omogenee tra loro, verosimilmente composte in più secoli, dal I a.C. al IV d.C. L’opera contiene ricette di salse e piatti completi, e si può datare in base alla lingua intorno al 385 d.C., con un linguaggio povero dal punto di vista letterario, ma adatto ai cuochi dell’epoca, trattandosi di un testo di uso corrente, al quale si aggiungevano in margine varianti e nuove ricette, dando così vita gradualmente al corpus attuale.
Una sezione del De re coquinaria (IX, 8) è dedicata alle ricette a base di ricci di mare, semplicemente bolliti e serviti su un piatto o conditi con una salsa a base di foglie di alloro, pepe, miele, un filo d’olio, uova e tanto altro. Di seguito alcune ricette:
In echino: accipies pultarium novum, oleum modicum, liquamen, vinum dulce, piper minutum. facies ut ferveat. cum ferbuerit, in singulos echinos mittes, agitabis, ter bulliat. cum coxeris, piper asparges et inferes.Aliter echino: piper, costum modice, mentam siccam, mulsum, liquamen, spicam Indicam et folium.
Aliter echino: solum mittes in aqua calida, coques, levas, in patella compones, addes folium, piper, mel, liquamen, olei modice, ova, et sic obligas. in thermospodio coques, piper asparges et inferes.
In echino salso: echinum salsum cum liquamen optimum, caroeno, pipere, temperabis et adpones. Aliter: echinis salsis liquamen optimum admisces, et quasi recentes apparebunt, ita ut a balneo sumi possint. (De re coquinaria, IX, 8)
Come si può notare, in queste ricette vi è la costante presenza del liquamen, per alcune fonti identificabile col garum (Geoponica, XX, 46), un liquido derivante dalla spremitura di alici fresche, dal gusto molto forte e salato ma particolarmente apprezzato nel mondo romano sia per condire carne, pesce e verdure, ottimo conservante di alimenti, in alternativa al sale.
Un’ultima osservazione riguarda l’utilizzo del riccio di mare come esca per catturare alcuni dei suoi predatori: l’orata e il sarago, insieme al polpo e alla stella marina. Rompendo alcuni gusci di riccio e rigettandoli in mare si attira una grossa quantità e varietà di pesci, a quel punto facilmente catturabili con l’ausilio di reti o “coppi”. Non è un caso, infatti, che queste specie siano spesso associate al ritrovamento di resti di Paracentrotus lividus. Pur non disponendo di fonti dirette in merito a tale uso, questa tecnica è ipotizzabile anche in epoca romana e non solo, forte del tramandamento della cultura marinara attraverso i secoli, che ha portato sino ai nostri giorni tantissime tecniche e tecnologie che erano già conosciute con certezza nel mondo antico.
Uno dei crostacei più diffusi e sfruttati nel Mediterraneo è sicuramente il Parapenaeus longirostris, il comune gambero rosa (o bianco) che vive a una profondità variabile fra -20 e -700 mt (maggior diffusione fra -100 e -400 mt). Purtroppo non è possibile creare un excursus storico similare a quello del Paracentrotus lividus ed è molto importante specificare che tutte le informazioni a seguire non sono prettamente specifiche per questa specie di gambero, ma possono essere prese in considerazione con dovuto metodo filologico e distacco. Proprio per questo precisiamo che le fonti citate che seguiranno non chiariscono con esattezza se si tratti di gambero rosa, rosso o di altro tipo. Sebbene intorno a 50.000 anni fa le popolazioni umane fossero in grado di navigare abilmente, praticando in alcuni casi straordinari la pesca d’altura (Sud Est asiatico e Australia), in epoca preistorica veniva praticata prevalentemente la pesca costiera, e considerando le profondità a cui vive il Parapenaeus longirostris è plausibile comprendere la mancanza del dato archeologico. La pesca d’altura e, nel caso specifico del gambero rosa, la pesca a strascico nel Mediterraneo hanno sicuramente origini più recenti, richiedendo delle conoscenze sia marittime sia tecnico-navali ben più complesse.
In epoca romana la pesca del gambero è accertata e documentata. Viene spesso menzionata la città marinara di Minturno (al confine fra Lazio e Campania), da cui provengono gamberi di ottima qualità e dimensione, dato ripreso nel 1787 dal biologo Filippo Cavolini nell’opera Memoria sulla generazione dei pesci e dei granchi («Tra i Gamberi furono in pregio quelli presso l’antica Minturno»). Sempre a Minturno viveva il già citato Marco Gavio Apicio, sul cui personaggio si sono tramandati diversi aneddoti, uno dei quali racconta di un suo viaggio ad Alessandria d’Egitto. Apicio era orgogliosissimo dei gamberi che si trovavano nel mare di Minturno. Un giorno, colto da un atroce dubbio, saltò su una delle sue imbarcazioni e prese il mare, diretto in Libia (inteso come Nord Africa), poiché qualcuno gli aveva raccontato che lì avrebbe trovato dei gamberi molto più grandi di quelli di Minturno (le città di riferimento sono Alessandria d’Egitto e Smirne). La traversata fu lunga e scomoda, a causa del tempo pessimo, ma Apicio riuscì comunque a giungere in Libia dove già si era sparsa la voce del suo viaggio alla ricerca dei gamberi giganti. Giunto nel porto, venne assalito dai pescatori della zona, che gli portarono dei gamberi di notevoli dimensioni. Nessuno però con un esemplare che fosse grande almeno quanto uno di quelli a lui già noti; fu così che Apicio tornò alla sua Minturno, ben soddisfatto del primato ottenuto.
Nel De re coquinaria non vi è una sezione specifica sulla preparazione di ricette a base di gamberi, ma nel libro X sono trascritti gli ingredienti per preparare delle salse adatte ad ogni tipo di pesce e crostaceo. Ad esempio, il gambero fritto, ricetta tradizionale già in voga in epoca romana, poteva essere accompagnato da una salsa dai seguenti ingredienti:
Ius diabotanon in pisce frixo: piscem quemlibet curas, lavas, friges. teres piper, cuminum, coriandri semen, laseris radicem, origanum, rutam, fricabis, suffundes acetum, adicies caryotam, mel, defritum, oleum, liquamen, temperabis, refundes in caccabum, facies ut ferveat. cum ferbuerit, piscem frictum perfundes, piper asperges et inferes. (De re coquinaria, X, 1)Come si può notare è una salsa ricca di spezie variegate (pepe, origano, cumino, coriandolo), alcune radici, come il silfio, e non manca mai l’aceto, presente in quasi tutte le salse romane conosciute.
In ambito artistico, le raffigurazioni pittorico-parietali del Parapenaeus longirostris sono del tutto assenti. Le motivazioni possono essere rintracciate in fattori propriamente tecnici e non solo: se si pensa ai mosaici e alle tessere che li compongono, queste hanno dimensioni molto ridotte (7×7 mm circa), e rappresentare un elemento piccolo come il gambero risulta impossibile (Gertwagen et al., 2011); meno problematica sarebbe la sua rappresentazione pittorica, ma anche in questo caso le testimonianze sono esigue. Se fosse solo un problema tecnico, legato alle dimensioni dell’oggetto da illustrare, sarebbe lecito chiedersi perché il gambero non venisse rappresentato con misure sproporzionate rispetto a quelle reali, essendo oltretutto un fenomeno abbastanza diffuso nella pittura romana e nell’arte del mosaico antico. Questa mancata “enfatizzazione” del gambero in ambito artistico potrebbe essere un indizio per capire la sua reale importanza nello sfruttamento ittico di epoca romana, bizantina e oltre. Analizzando le fonti letterarie e artistiche, pesci come il tonno, la triglia, l’orata avevano uno smercio considerevole e sicuramente maggiore rispetto ai gamberi. Le preferenze andrebbero comunque valutate per zona geografica, considerando tutte le popolazioni che vivevano e pescavano sulla costa mediterranea e la distribuzione ittica locale. Inoltre, bisogna sempre ricordare che anche in periodo romano si praticava principalmente la pesca costiera, e in riferimento al gambero rosa, il dato è determinante, poiché esso vive in acque più profonde. Lo stesso tipo di pesca era praticato anche in epoca medievale, con “l’aggravante” dello sviluppo della pesca fluviale e delle acque interne. È nel XIX secolo, con l’invenzione delle imbarcazioni a motore, che la pesca d’altura trova continuità nel Mediterraneo, arrivando ai giorni nostri, in cui la pesca del Parapenaeus longirostris è diventata un’attività di rilevante importanza per Paesi come l’Italia, la Spagna e la Francia.
Dialoghi Mediterranei, n.11, gennaio 2015
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Luigi Speciale, libero professionista laureato in archeologia presso l’Università degli Studi di Bologna, specializzato in Archeologia navale e preistoria e protostoria europea. Ha collaborato assiduamente col Dipartimento di Archeologia dell’Ateneo di Bologna partecipando a missioni archeologiche in Medio Oriente (Sultanato d’Oman), Asia Centrale (Uzbekistan) e Italia Meridionale (Puglia e Sicilia). Attualmente lavora a Palermo come consulente archeologico.
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