il centro in periferia
di Sergio Todesco
Le Mappe di Comunità sono il frutto di un’idea nata in Inghilterra agli inizi degli anni ’80 ad opera di Common Ground, un’associazione no-profit interessata a conoscere e valorizzare i patrimoni delle singole comunità locali attingendo alla memoria dei rispettivi componenti. Tale progetto prendeva le sue mosse da una presa d’atto dell’inadeguatezza delle cartografie fino a quel momento prodotte a rendere conto dello spirito dei luoghi, del loro genio, delle dinamiche sociali, demografiche, antropologiche che in essi avevano avuto storico svolgimento; il loro intento era quello di realizzare dei serbatoi di memoria da aggiungere alla fredda restituzione spaziale dei siti al fine di conferire loro spessore e consistenza attraverso forme narrative e manifestazioni di appartenenza da parte di chi li abitava o li aveva abitati.
In questo contributo, del cui carattere strettamente autobiografico mi scuso in anticipo, intendo riflettere e riconsiderare – a distanza di un sessantennio – ciò che ha significato per me il Rione “Santa Chiara”, nome così localmente attribuito al complesso Ina Casa realizzato nel quartiere Giostra di Messina (a motivo di una vicina chiesa dedicata alla santa), nel quale ho trascorso le stagioni dell’infanzia e della prima giovinezza nella Messina degli anni ’50-’60.
I nuclei abitativi «Ina Casa» hanno costituito un modello singolare nell’urbanistica italiana del Novecento. Il Piano Fanfani per l’incremento dell’occupazione operaia, risalente al 1949, intendeva porsi quale intervento mirante a dare una risposta concreta alla carenza di alloggi verificatasi, soprattutto nelle città meridionali, nel periodo della ricostruzione post-bellica, ancora più difficile in una città come Messina, sottoposta nel 1943 a pesantissimi bombardamenti a opera di incursioni aeree da parte degli Alleati. La sua realizzazione rappresentò un significativo esempio di democratizzazione dell’architettura residenziale, oltre a favorire – attraverso l’incremento della cantieristica edile – la ripresa economica nazionale.
Con tale modello insediativo, a Messina inglobato nei progetti dell’IACP (Istituto Autonomo Case Popolari), si giungeva a proporre un’articolazione degli spazi che dilatando su più ampia scala il modello arabo dei cortili riusciva a fornire agli abitanti una serie di spazi sociali assai articolata, utile non tanto a ospitare le automobili, a quei tempi ancora poco diffuse presso i ceti meno abbienti, quanto a garantire la possibilità di poter fruire di una dimensione comunitaria, collettiva, che non abbandonasse del tutto i modelli di relazione ancora vigenti negli spazi abitativi paesani.
Al centro di due dei cinque blocchi del Rione, il 4 e il 5 posti a sud del complesso, esisteva così un Centro Sociale, struttura condominiale funzionante come Centro Diurno per anziani ma anche come sede di assemblee che riguardassero la vita della comunità, mentre in un’ala di tale fabbricato situato tra un blocco e l’altro era ubicata l’abitazione del Portiere, cui era demandata la pulizia e la manutenzione degli spazi comuni nonché una qualche forma di sorveglianza del complesso rispetto a presenze e intromissioni esterne.
I miei genitori, sposatisi nel 1950, riuscirono ad avere assegnato un alloggio, divenuto dopo qualche anno proprietà a riscatto, e negli spazi esterni del Rione ho trascorso anni cruciali di iniziazione ai rapporti con i coetanei, ai giochi di gruppo che si praticavano nel cortile e negli spazi esterni, alla conoscenza del territorio e delle realtà in esso esistenti, ai molteplici eventi di ordine mercantile, spettacolare, rituale che in quell’areale periferico avevano luogo.
La mia infanzia si è così dispiegata tra il cortile e il torrente (’a sciumàra) ancora a quei tempi esistente, successivamente coperto e divenuto Viale Giostra ma negli anni ’50 ancora attraversato da pecorai e guardiani di porci, e per noi ragazzetti di otto-dieci anni frequente teatro di furibonde sassaiole, battaglie con lanci di pietre che scoppiavano tra noi abitanti del Rione e i ‘ragazzacci’ venuti da fuori, quelli abitanti nelle baracche il cui grosso insediamento retrostante i blocchi 1 e 4 del complesso veniva da noi considerato una sorta di hic sunt leones, un luogo liminare popolato da barbari.
Il cortile era un vero e proprio teatro, dato che in esso transitavano figure sociali di ogni tipo. In estate quasi ogni giorno passava il carretto del gelataio, il cui richiamo cadenzato (Geeelati! Geeelati!) stimolava in molti il desiderio di sorbire una tantum coni o sorbetti. Ma altri venditori ambulanti fornivano al Rione un sottofondo sonoro assai frequente, dai robivecchi ai venditori di prodotti dell’orto, ai venditori di gelsi, appena colti e offerti entro un cestino adagiati su un tappeto vegetale di pàmpini (gghiòsa, haiu gghiòsaaaa haiu!).
L’àmbito ludico, in quanto comprendente un patrimonio orale, delle tecniche del corpo e dei rituali che, come hanno ormai dimostrato numerose ricerche etnologiche e storico-religiose, affondano le proprie radici in tempi assai lontani avendo subìto nel corso della storia un mutamento di senso rispetto alla loro originaria cifra sacrale, è quello che unitamente alle feste e al teatro popolari è in grado di introdurci maggiormente alla comprensione delle modalità di conservazione e trasmissione dei saperi tradizionali nella Messina degli anni ’50. Il luogo al contempo reale e simbolico di espletamento delle attività connesse a tale ambito – al contrario di quanto avviene nel caso delle pratiche ludiche odierne – è rappresentato proprio da cortili analoghi a quello esistente a Santa Chiara.
Derivanti dal vicolo cieco proprio dell’impianto urbanistico islamico e poi via via transitati verso forme sempre diverse in epoca tardo-medievale, rinascimentale, barocca, ottocentesca, questi si vennero costituendo nella Messina della ricostruzione come spazi di servizio all’interno degli isolati o come spazi condominiali per gruppi di palazzine facenti parte del medesimo Rione e furono al contempo – e in grado eminente – spazi di socializzazione, di apprendimento delle regole di coesistenza comunitaria per gruppi di giovani la cui età andava dai 5 ai 12-13 anni, e soprattutto spazi che dischiudevano la conoscenza del mondo esterno, della città o della porzione di essa che veniva fatta oggetto di progressiva scoperta, tanto sul versante umano quanto su quello territoriale; infine, per ciò che interessa in questa sede e che coinvolge il mio tentativo mnemonico, spazio dei giochi.
La cultura popolare messinese di quegli anni è stata ricca di giochi e povera di giocattoli; i pochi giocattoli disponibili (almeno per la maggior parte di noi bambini e ragazzi) erano caratterizzati dall’assenza di una produzione massificata, la loro realizzazione essendo affidata a un artigianato minore o addirittura all’inventiva e alla fabrilità individuali, dalla relativa semplicità nella struttura e povertà nei materiali (legno, canna, stoffa, carta etc.) e dall’essere funzionalmente inseriti nelle attività ludiche espresse da comunità giovanili come quella di cui facevo parte. Non esisteva pertanto il giocattolo feticcio a partire dal quale si creava un gioco, bensì dei giochi, delle pratiche ludiche collettive e comunitarie all’interno delle quali si elaboravano, come frutto di bricolage, oggetti ludici elementari, quasi sempre privi di una propria autonomia e di un proprio status, almeno secondo l’accezione invalsa nell’universo ludico della società dei consumi, ponendosi piuttosto come beni strumentali utili a trascorrere opportunamente attrezzati la vita sociale dei cortili. Provo a enumerare brevemente tali manufatti, con l’avvertenza che una trattazione dei complessi rituali ludici che ne disciplinavano l’uso richiederebbe ben più spazio di quello qui utilizzato:
1- u carritteddu era il piccolo carretto autocostruito avente per ruote cuscinetti a sfera d’acciaio;
2- u paloggiu era una trottola in legno con punta d’acciaio la cui movimentazione era determinata da un rapido quanto abile svolgimento della lazzata, il laccio di cotone che l’avvolgeva;
3- altro corredo indispensabile alle attività di strada era la cerbottana (‘u cannòlu) i cui dardi acuminati (i ’mpènnuli) si confezionavano avvolgendo rapidamente mezza pagina di quaderno in senso longitudinale che veniva così ridotta a cono affilato;
4- ’a ciunna, accessorio fondamentale nel percorso iniziatico di un giovane kouros, era la fionda costruita utilizzando un ramo biforcuto, strisce di gomma ricavate da camere d’aria di bicicletta dismesse e un pezzo di cuoio che gli scarpari del tempo generosamente regalavano;
5- ’a scupetta sparatappi era un rudimentale fucile realizzato utilizzando un listello di legno, un elastico bianco recuperato da mutande dismesse e una molletta che fungeva da cane e da grilletto al contempo. Il tappo (quasi sempre di birra, le cui varietà iconografiche erano oggetto di accanito collezionismo) veniva agganciato all’elastico e fissato alla molletta, sollevando la quale veniva – a mo’ di catapulta – scagliato in avanti;
6- ’a praneta era l’aquilone fatto con canne messe a croce, a formare un rombo, e carta velina;
7- l’accu ch’i friccini. Si trattava di un arco con frecce, entrambi ricavati dalle stecche metalliche degli ombrelli rotti;
8- u ciccu era il cerchio ricavato dallo scheletro di una ruota di bicicletta, che veniva spinto con un bastoncino. Vinceva naturalmente chi fosse riuscito a farlo girare più a lungo;
9- i lignedda erano due bastoncini di cui l’uno, più robusto, sollevava e lanciava l’altro, dall’estremità appuntita, evitando la presa diretta con le mani. Il gioco, a squadre, prevedeva che il ligneddu scagliato da un battitore collocato all’interno di un’area rotonda (“la casa”) potesse essere intercettato da un componente la squadra avversa, operante all’esterno. Le articolate fasi di tale gioco lo assimilano a una sorta di baseball nostrano;
10-’e cciappi consistevano in pezzi di mattonelle arrotondati e levigati, lanciata a mo’ di bocce verso un brigghiu di legno;
11-’a palla, molto spesso, in mancanza di un pallone vero e proprio, realizzata arrotolando degli stracci fortemente compattati e tenuti insieme da legatura a spago.
Nella vicina Via Canova una piccola bottega ci forniva tanto i cuscinetti a sfera utili a fungere da ruote nei carrettini di legno che ci costruivamo, quanto i paloggi, trottole in legno movimentate da un rapido scioglimento (’a lazzata) dello spago (u lazzu) con cui venivano preventivamente avvolte.
Delle quattro categorie entro le quali Roger Caillois fa rientrare l’intera gamma di attività ludiche, ossia l’agon (competizione), l’alea (azzardo), la mimicry (mimesi) e l’ilinx (vertigine), le più praticate erano senz’altro la prima e l’ultima, con qualche concessione alla terza, come più adatte a una education sentiméntale basata sulla sempre maggiore padronanza del territorio, del gruppo e del corpo. I giochi degli anni cinquanta-sessanta – e per quanto risulta da interviste da me fatte a persone più anziane anche degli anni quaranta – si articolano così in due principali tipologie, quella che potremmo definire territoriale e quella che a buon diritto può essere chiamata corporea; fanno parte del primo gruppo a libirari, a’mmucciatedda, ’a guéra etc., mentre nel secondo si annoverano u campanaru, càncara e bona, carica carica chi ti vegnu, una avanti alla luna, ’a mmoffa ’o suddàtu di evangelica memoria, cui segue un terzo gruppo che diremmo misto comprendente ’a pista (ch’i tappi), a monti, ’e cciappi, a pammu ’ntéra, a pammu ’o muru, a botta, a ciuscia etc. Per inciso, molti di questi giochi li ho ritrovati in seguito leggendo, con una punta di emozione, il volume di Giuseppe Pitrè sui Giuochi fanciulleschi siciliani.
I cortili come il mio erano anche, in un senso più lato, i palcoscenici per incontri comunitari e per transazioni di varia natura in cui si venivano negoziando beni e servizi nonché, soprattutto, ideologie, memorie, saperi e concezioni del mondo: essi erano, come poc’anzi ricordavo, attraversati da venditori ambulanti di suppellettili domestiche, di stoffe, di gelati, di frutta che banniavano la propria merce, da pecorai che scendendo dalla cintura di villaggi posti attorno alla città vendevano latte fresco, ricotta e formaggi proponendoli di casa in casa, da suonatori di zampogna (ciaramiddari) e da esecutori di novene (nuviniddari) che nei periodi deputati dell’anno fornivano dietro pagamento le proprie prestazioni musicali, etc.; addirittura, negli anni cinquanta prese piede la vendita a domicilio di grandi bambole di celluloide o di porcellana vestite con sontuosi quanto pacchiani abiti di raso e tulle, impiegate per arricchire i poveri arredi di casa ponendole in bell’ordine su di un letto o di un divano, il cui costo (da mille a tremila lire) veniva rateizzato con pagamenti settimanali di £ 100, esatte a domicilio da tali bambolari.
L’accenno alle attività eminentemente rituali degli esecutori di novene mi consente un accenno al grande tema del patrimonio orale messinese, ampiamente raccolto e studiato da folkloristi ottocenteschi come Tommaso Cannizzaro ma alquanto trascurato nei secoli successivi, a parte alcune lodevoli eccezioni. Molti anni dopo, già adulto, appresi che nel blocco 1 del complesso aveva avuto e aveva ancora la sua residenza Nino La Camera, singolare figura di studioso, ancorché autodidatta, di musiche tradizionali e di testimonianze orali di una cultura a quei tempi ancora organicamente radicata nelle aree periferiche della città. Fattomi anch’io ricercatore, e nel corso di un’indagine sulle edicole votive messinesi e sul loro impiego rituale, volli andare a trovare quest’uomo, assai anziano ma straordinariamente lucido, che mi fece dono di alcuni preziosi dattiloscritti sulle novene da lui registrate dal dopoguerra in poi.
La Camera fu indubbiamente il più grande raccoglitore contemporaneo di documenti relativi al patrimonio orale messinese, nonostante che la quasi totalità della sua produzione sia rimasta inedita e non agevolmente disponibile per gli studiosi. Dai numerosi accenni che egli dedica alla persistenza di tale patrimonio è però lecito ipotizzare che anche in questo caso con la fine degli anni cinquanta abbia preso avvio, in perfetta concomitanza con la pasoliniana scomparsa delle lucciole, l’improvviso quanto rovinoso collasso di tutta una serie di pratiche fabulatorie dismesse nel giro di pochi anni, la cui scomparsa contribuì al grave depauperamento della cultura popolare messinese, con pesantissime ricadute sull’omogeneità e sull’ampiezza di registro del patrimonio linguistico e dialettale dei ceti popolari e delle fasce sociali periferiche di questa città.
Anche qui, non è arduo misurare in tutta la sua estensione il danno inferto dall’omologazione culturale di massa perpetrata da televisione e mass-media in genere, con la colpevole responsabilità in primo luogo del linguaggio triviale, piatto e perentorio a un tempo dell’universo pubblicitario e del mondo patinato e fasullo dello spettacolo (dico ciò senza voler demonizzare alcuna delle forme di spettacolo che costellano la nostra modernità bensì deplorandone l’uso strumentale e manipolatorio che assai sovente ne è stato fatto).
Anche fuori dell’universo alquanto ristretto del cortile e delle sue immediate adiacenze non mancavano le attrazioni. Per coloro che potevano permetterselo, fino al 1964 (anno in cui un incendio pose fine a tutto) era possibile in prossimità del Torrente Giostra assistere a uno spettacolo dell’Opera dei Pupi messo in scena da Venerando Gargano, coadiuvato dalla sorella Tina e già affiancato dal figlio Rosario. Ma, con grande apertura alla modernità, erano altresì a portata di mano, anzi di sguardo, ben tre sale cinematografiche nelle quali, per chi potesse disporre delle poche lire necessarie, era possibile visionare film a volontà.
Dei ventisei cinema ancora esistenti all’inizio degli anni Sessanta ne rimane oggi un numero da contare in una mano; tra le vittime di questa morìa di sale quelli a portata dei ragazzi di rione erano il cinema Garibaldi e l’Excelsior, poi rasi al suolo nel giro di un mese perché sulle loro macerie potessero sorgere nuovi complessi residenziali, e l’Astra, meno frequentato per una maggiore sua distanza ma non del tutto trascurato, anch’esso poi incongruamente riconvertito e ridotto a Pub. Il primo dei tre era stato in origine un teatrino dei pupi, con il mitico puparo Alessandro Morasca (Don Lisciandru), poi negli anni qui ricordati un cinema, infine un teatro; il secondo (all’epoca “l’Accessòre”) un cinematografo di grande dignità architettonica. Tutte e tre le sale proponevano due film al giorno proiettati consecutivamente, in genere un mitologico (Ercole, Maciste, Ursus) e un western, meglio se con gli indiani. Se ai ragazzi, principali utenti degli spettacoli, il film non garbava, vuoi perché eccessivamente “sfoltito” vuoi per fisiognomica antipatia verso uno dei personaggi, ecco che urla di protesta, fischi e schiamazzi esplodevano improvvisi suscitando la discesa in campo della maschera, un martire d’altri tempi che al giorno d’oggi si limita a spizzicare i biglietti ma che allora era, ante litteram, una specie di poliziotto di quartiere. Se poi si decideva di “andare ai materassi” per esistenziale ribellione verso l’ordine costituito, era costume procedere sistematicamente al distacco tramite schiodatura dei pannelli lignei a lambrì che foderavano le pareti del cinema, e lo spettacolo giungeva felicemente a termine tra le sputazzate dei privilegiati in galleria e le jastìme dei paria in sala, proprio come genialmente ha riproposto Peppuccio Tornatore nel suo Nuovo Cinema Paradiso.
Felicemente? Felicemente! La città di Messina era a quei tempi, ancora, un luogo dell’incantamento, un luogo ancora tutto da godere. Era ancora possibile provare emozioni in questa città.
Sono consapevole che per rendere più completa e attendibile la mia parish map avrei dovuto trattare anche degli oggetti che popolavano la vita quotidiana di quel tempo. Solo che tali oggetti “del mondo di ieri” mi paiono essere gli ultimi baluardi materici di un contesto socio-esistenziale ormai collassato e languente, ed essendo oggi non più strutturati in un sistema all’interno del quale il loro uso obbediva un tempo alla logica della funzionalità e del dovere essere piuttosto che dell’estetica o dell’effimero, la loro “nostalgica” rievocazione costituirebbe l’estrema pallida epifania di una cultura che negandosi nei suoi contenuti ha finito col distruggere le sue stesse forme e giunge oggi a testimoniare di se stessa solo in virtù dell’interesse di un piccolo esercito di raccoglitori, archeologi matti e disperatissimi di un passato del quale solo adesso si inizia ad avvertire con sgomento la siderale distanza.
Chi conosce più un caliaturi? Chi fa ancora uso della muschera? Chi ha più gustato, diciamo dal centro-sinistra in poi, una gazzusa c’a pallina o conserva ancora la memoria olfattiva del D.D.T.? Mi pare che in tale prospettiva il sistema degli oggetti di una volta alluda nella sua globalità alla ricchezza, allo spessore, alla profondità e alla bellezza di un mondo scomparso, rimanendo a cospetto della città odierna e dei suoi paesaggi come griglia virtuale e ininfluente, fonte più di pudica rimozione che di cocente rimorso; ove qualcuno cercasse caparbiamente di pervenire al recupero di un’identità sognata proponendosi di ricompattare un universo oggettuale ormai da troppo tempo disgregato, tale sforzo, piuttosto che indurre a malinconiche considerazioni e a sistematici autodafé sulle magnifiche sorti e progressive degli ultimi decenni, si tradurrebbe nella banale quanto sterile fruizione di una wunderkammer nostrana.
Bene, questa è la personal parish map che, sul filo della memoria, mi sono provato a costruire. Una mappa più che altro incongruamente nostalgica, ormai lacera e sbiadita, assai piena di vuoti perché a essa è mancata purtroppo la dimensione corale, comunitaria che ogni mappa identitaria dovrebbe avere, pena ridursi, come la mia credo si riduca, a una piccola, un po’ patetica recerche du temps perdu provinciale, priva della grandezza di una malattia ispiratrice e con il gusto di gazzosa al posto di quello dell’infuso di tiglio.
Dialoghi Mediterranei, n. 57, settembre 2022
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Sergio Todesco, laureato in Filosofia, si è poi dedicato agli studi antropologici. Ha diretto la Sezione Antropologica della Soprintendenza di Messina, il Museo Regionale “Giuseppe Cocchiara”, il Parco Archeologico dei Nebrodi Occidentali, la Biblioteca Regionale di Messina. Ha svolto attività di docenza universitaria nelle discipline demo-etno-antropologiche e museografiche. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni, tra le quali Teatro mobile. Le feste di Mezz’agosto a Messina, 1991; Atlante dei Beni Etno-antropologici eoliani, 1995; IconaeMessanenses – Edicole votive nella città di Messina, 1997; Angelino Patti fotografo in Tusa, 1999; In forma di festa. Le ragioni del sacro in provincia di Messina, 2003; Miracoli. Il patrimonio votivo popolare della provincia di Messina, 2007; Vet-ri-flessi. Un pincisanti del XXI secolo, 2011; Matrimoniu. Nozze tradizionali di Sicilia, 2014; Castel di Tusa nelle immagini e nelle trame orali di un secolo, 2016; Angoli di mondo, 2020; L’immaginario rappresentato. Orizzonti rituali, mitologie, narrazioni (2021).
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