di Luigi Lombardo
Feste religiose e saghe paesane spingono oggi migliaia di Siciliani a muoversi, percorrendo anche grandi distanze, per conoscere, osservare, partecipare, un particolare rito, un particolare cerimoniale, di cui si è sentito parlare, o di cui si son visti immagini e video o, solo in pochi casi, di cui si è letto. In questo coacervo di persone si annoverano devoti, curiosi e appassionati di fuochi d’artificio, turisti, neostudiosi delle feste, fotografi e operatori video, perfettamente aggiornati attraverso siti internet esplicitamente dedicati alle feste popolari siciliane. Si tratta di una popolazione eterogenea, che certamente ha poco in comune con i devoti di un tempo che compivano il pellegrinaggio, u viagghiu, dal paese di origine al santuario per vari motivi.
Tra devozione e mera curiosità si svolge oggi un rito collettivo che anima i centri urbani grandi e piccoli, e muove al contempo una certa economia, così da indurre gli organizzatori degli eventi festivi a trasformare la loro secolare festa, un tempo limitata alla comunità locale e ai soli pellegrini, in un programma turistico, spesso velleitario e dagli esiti sconfortanti.
Un elemento comunque appare incontrovertibile: tutti costoro sono, inconsapevolmente, agenti di un rito collettivo, che li spinge lungo il crinale del tempo festivo, attuando comportamenti che si inquadrano nel clima di una festa, e per ciò stesso, destrutturando il tempo della quotidianità e della ordinarietà, instaura il tempo del mito. Questo a prescindere dalle intenzioni dei partecipanti e dalle reali comprensioni del rituale cui essi partecipano.
Oggi si assiste ad un aumento esponenziale di sensibilità verso le manifestazioni della cultura tradizionale cui si associa dunque una crescita di interesse da parte dell’industria turistica, assieme al rinnovato interesse delle popolazioni locali per la riscoperta delle proprie tradizioni popolari. Tuttavia, anche in presenza di simili atteggiamenti, ambivalenti e discordanti, le feste quando ci sono e sono frequentate non sono mai reperti statici di un passato archeologico recuperato a tavolino: gli attori sono uomini e donne, giovani e anziani, vivi e attivi nel presente storico e con tutte le contraddizioni di cui sono portatori nel vivere immanente, in cui le feste svolgono il loro ruolo diverso se vogliamo da quello del passato, ma comunque lo svolgono: sono funzionali al presente storico, come con acume afferma l’antropologa Fatima Giallombardo fin dal 1990.
Una festa, pur muovendosi nel campo del mito e fuori del tempo storico, almeno nelle sue significazioni più recondite, è sempre infatti paradossalmente nella storia. Per cui le feste, se nelle loro strutture profonde rinviano al tempo esemplarmente dato, alle complesse dinamiche dell’immaginario, vivono radicate nel presente storico, come risultato di una coralità organizzativa esemplare, che addirittura si offre come alternativa o esempio alle inadempienze del potere politico e alle inerzie delle istituzioni. I comitati organizzatori delle feste sono momenti di una reale democrazia partecipata. Se poi esse sono anche «palcoscenico di visibilità sociale [...] dove la dinamica dei processi culturali si fa più viva e in esse si gioca anche l’acquisizione di un certo status sociale: come la leadership all’interno della comunità, che determina spesso anche la fortuna politica di qualche suo componente» (Giallombardo), non è fatto che possa indurre a scandalo o a condanne sommarie. È nella logica stessa della festa: i più capaci e i più autorevoli si impongono secondo una selezione di merito; e che poi qualcuno di questi raggiunga l’apice della carriera politica di un paese, non fa che confermare l’importanza della festa stessa, il suo essere momento dinamico di una comunità, piccola o grande che sia.
Altri fenomeni “degenerativi” delle feste, come gli inchini servili e altri comportamenti compiacenti rispetto alla vara del santo dinnanzi alla casa di un notabile mafioso, di cui con esplicita condanna ha scritto Berardino Palumbo, sono fenomeni certo esecrabili, che tuttavia vanno riportati al tema della festa come momento di universale condivisione, come sistema di emersione anche di comportamenti “oscuri”.
Resta un punto fermo, comunque e ovunque: non si dà festa senza lo svolgimento in nuce o manifesto di un tema mitico rifondativo, in cui l’immaginario collettivo gioca il suo ruolo di ordinamento e reintegrazione psico-sociale, di cui diremo più avanti. Ad esso in un modo o nell’altro partecipano tutti: devoti e forestieri, curiosi o fotografi, studiosi in erba, insomma l’universo dei viatores moderni.
Mazzarino
Mazzarino è un centro agricolo dell’entroterra siciliano, in provincia di Caltanissetta. Vanta antiche origini e una storia legata in gran parte alla famiglia Branciforti-Carafa, che la arricchì di opere d’arte e di monumenti barocchi. Ma un’altra storia più profonda, ancestrale, può vantare la città, è quella legata al suo popolo, alle sue opere e ai suoi giorni, che la storia racconta solo di soppiatto.
Si tratta di quella storia “minore”, costituita dal vissuto popolare, che si radica in una memoria sedimentata, che è figlia e in certo senso confligge, con quella Storia evenementielle fatta di date e gesti, che resta incomprensibile se non si accompagna con una corretta lettura antropologica, che ne narri le vicende del quotidiano e del reale più profondo e dunque più vero.
É la storia di un popolo fiero, forgiato nelle lotte contadine dell’occupazione delle terre, orgoglioso della sua cultura millenaria, plasmato da un immaginario che in diverse espressioni mostra il suo forte legame con la terra e il lavoro. Anche quando il lavoro non c’era, negli anni delle lotte contadine del dopoguerra, e costringeva solfatari come Turi Scordu ad emigrare nelle miniere del Belgio, come ha raccontato nei suoi potenti versi il poeta Ignazio Buttitta.
Un popolo i cui santi, madonne e protettori sono “il frutto” di un rapporto antichissimo con la terra e il lavoro: un rapporto Dio-uomo che non è di solo do ut des, ma di partecipazione del primo al destino dell’altro. Un rapporto che si gioca in un tempo “altro”, quello mitico, un mito che tuttavia freme di storia, di uomini in carne ed ossa, di destini affidati ad una entità, a cui ci si affida con trepidazione e dedizione, se è vero che questi uomini eseguono ogni anno i riti che fanno parte della loro storia più autentica.
Fra questi, e in posizione eminente, è la festa del Signore dell’Olmo, o Signuri i maiu, che tutta Mazzarino aspetta ogni anno, da cui fa dipendere l’annata agraria, giunta al suo apice. Il SS.mo Crocifisso di Mazzarino si festeggia nel centro nisseno la prima domenica di maggio, ma è chiaramente legata a tutte le feste del Crocifisso che si celebrano tra il 1° e il 3 maggio. Si tratta di una classica festa su fondo leggendario: nella chiesa detta dell’Olmo si conserva un crocifisso in legno.
Racconta la leggenda che la statua fu acquistata ad Aidone da un artista che dopo averla venduta si pentì e volle riacquistarla a tutti i costi. Ma il rettore della chiesa non ne volle sapere. Fu così che l’uomo nottetempo, forzando la porta della chiesa, vi penetrò. Prima però volle posare il pesante bastone da viaggio, piantandolo davanti alla chiesa. Entrato dunque, si avviò per compiere il sacrilego gesto, ma un rumore di passi lo convinse ad abbandonare l’impresa. Uscì dal tempio, ma quando allungò la mano per riprendere il bastone, questo per un prodigio si trasformò in un gigantesco olmo.
L’albero fece mostra di sé per secoli davanti alla chiesa, ed ogni mese di maggio in coincidenza con la festa esso trasudava un olio considerato miracoloso (l’uogghiu santu), che ciascuno raccoglieva e portava in casa contro ogni avversità: guai a negare tutto ciò, poiché si era presi per eretici e scomunicati. Ma intorno al 1876 (la data non è certa) il rettore della chiesa per fare spazio davanti nel piano antistante, fece estirpare quell’olmo gigantesco fra le proteste del popolo, che accusò il prete di empietà. L’albero fu poi trapiantato a lato della chiesa negli anni trenta del ‘900, come ricorda una lapide “ad veterem traditionem renovandam”: tutto questo a furor di popolo. Ripristinato l’elemento centrale della narrazione e devozione popolare, la plurisecolare festa poté svolgersi più bella e più partecipata.
La domenica mattina cento devoti chiamati nuri, vestiti di una lunga camicia bianca, annodata ai fianchi, facenti parte della confraternita del Signore dell’olmo o della vara, prelevano il pesantissimo fercolo e a piedi scalzi lo portano in processione per la città. Essi si tramandano il posto sotto la vara di padre in figlio. Sul fercolo a baldacchino tutto di ferro dorato si dispone il crocifisso avvolto nel cotone e ricoperto di un delicato velo come fosse un sudario, assieme all’oru do signuri, i preziosi ex voto donati dai fedeli. Appena uscito il simulacro, preceduto dalle statue degli apostoli Pietro e Paolo, viene subito investito da una pioggia di corone di fiori di maggio (ciuri di maiu), intrecciate e lanciate dalle donne e dai bambini, assieme a profumati petali di rose: lo scopo è di riuscire ad agganciarle alla vara o alla statua del Cristo.
Il simulacro è trainato (assai simbolicamente per la verità) da trecentotrenta piccoli confratelli con delle lunghe corde, che al contempo li lega al loro Cristo forse per sempre. Gli emigranti, che tornano per questa festa in massa, sono fra i più attivi. Via via che il Crocifisso procede, mentre i nudi scandiscono la classica cantilena “viva Gesù e-Ccrucifissu”, le corone ricoprono la vara fino a sommergerla quasi, fino a farle acquistare un colore giallo solare, sopra il colore azolo (azzurro) delle colonne. Subito cominciano i “miracoli”, perché la vara improvvisamente e per centinaia di volte lungo il percorso stramazza ora a destra ora a sinistra, fin quasi a toccare terra. Qualcuno racconta che il gesto significa che nei pressi v’è qualche fedifrago che avendo promesso un’offerta non ha mantenuto fede al voto fatto: «u Signuri ci l’havi cu chiddi ca fannu finta i nenti, ma u signuri i vidi e li richiamma e si fa pisanti pisanti davanti ad iddi e quasi li vo scacciari», e i portatori sono costretti ad assecondare una forza misteriosa.
La processione attraversa le strette vie del centro addobbate con fiori, palme, bandierine colorate, coperte ricamate tra le più ricche in una gara fra quartieri che si conclude senza vincitori. Giunta in piazza Vittorio Veneto, la vara sosta in preghiera, dopo aver più volte inscenato la pantomima di cui s’è detto verso le case dei ricchi del paese. La sete è stemperata da abbondanti bevute di vino, mentre dai balconi vengono lanciate le colombe e ancora altre corone di fiori.
Fino a qualche decennio addietro, quando la vara entrava nella chiesa della Madonna del Màzzaro, si racconta che i portatori erano presi da una forza misteriosa che li faceva correre verso l’altare maggiore dove è esposto il quadro della patrona: si diceva che «u signuri un vidi l’ura di vidiri a so matri». Ma non finiva qui perché quando il simulacro tenta di uscire è la madre a richiamarlo e i portatori indietreggiano improvvisamente attratti da una potente attrazione, fra le lacrime e gli evviva di tutti i fedeli presenti in massa. Questo rito fu a un certo punto proibito per la paura che a causa di questi continui andirivieni il pavimento della chiesa sprofondasse e tutti precipitassero nelle cripte sotterranee. Così si proibì l’ingresso, ma fu una rivoluzione. Si ripristinò il rito a patto che (con la presenza dei carabinieri) tutto si svolgesse in pochi minuti : trasuta e sciuta nta nu lampu, come si disse dall’autorità.
Quando nel pomeriggio la vara è riportata nella sua chiesa questa si riempie all’inverosimile: tutti aspettano il miracolo, che avviene puntualmente: u signuruzzu cianci si dice: allora tutti con dei fazzoletti raccolgono quelle “lacrime” sante che si depositano nei freddi marmi e li custodiscono in casa contro ogni male. Chi non vede che superstizioni è il parroco che depreca l’usanza, ma poi si sente rimbrottato: “i parrini faciti perdiri a fidi”.
Pare che la festa risalga al terremoto del 1693, ma è chiaro che le sue radici sono più antiche e si perdono nella notte del mito. Superata la prima emozione, che suscita anche in chi a questi riti è ormai abituato, a noi tocca decodificare, a tavolino direi, i segni di una festa assai sentita, il loro significato profondo, che favorisce la persistenza di un culto secolare.
Il simbolo chiave della festa, e il più importante (non parlo dei fiori di maggio che meriterebbero una trattazione), è certamente quello della croce, che fa un tutt’uno con quello dell’albero, non a caso presente nella leggenda base della festa. Croce ed albero si richiamano, per essere simboli vegetali per eccellenza, essi si legano all’immagine archetipo dell’Albero della vita, della rinascita naturale, di cui il Cristo è esemplificazione che personifica questo percorso dalla morte alla vita. Sotto l’apparente polimorfismo del simbolo dell’albero, la struttura che si rivela è quella di un cosmo vivente, che si rigenera senza interruzione.
L’albero è il cosmo stesso, esso è axis mundi, che lega cielo e terra e viceversa (albero rovesciato). Fra questi alberi della rinascita vegetale rientra l’albero di maggio, l’albero della cuccagna, l’antenna dei giochi del primo maggio. Non occorre ripetere le bellissime pagine di Mircea Eliade nel volume Trattato di storia delle religioni. In un capitoletto dell’opera lo studioso parla esplicitamente del rapporto albero-croce: la croce fu fatta col legno dell’Albero della vita, su di esso fu crocifisso il Redentore. Narra una leggenda che la croce fu piantata nel luogo dove giaceva il peccatore Adamo e che il sangue del Redentore lo bagnasse salvandolo dal peccato originale e con lui riscattando tutta l’umanità.
Per i cristiani la croce è sostegno del mondo, posta com’è al suo centro, come luogo liminare tra vita e morte, tra cielo, terra, inferno. La croce è fonte di guarigione, sorgente di vita, poiché il suo legno deriva dall’Albero della vita. É anche fonte di ringiovanimento. Il mito della croce salda antichissime mitologie con la prospettiva salvifica del cristianesimo. Essa compie miracoli, non potendo prescindere dal simbolo madre che è appunto l’albero. La croce in quanto legno drizzato, albero artificiale, non fa che drenare le accezioni simboliche proprie di ogni simbolismo vegetale. Se essa è scala di ascensione (dalla morte alla vita) è perché è contaminata dagli archetipi ascensionali: per rovesciamento essa da emblema romano infamante diventa simbolo sacro ed unica spes. È simbolo della totalizzazione spaziale, unione dei contrari, isomorfo al koua cinese (unione di yang e yin). In quanto legno è sede del fuoco, che si genera per sfregamento nel vai e vieni ritmico: una ierogamia da cui scaturisce il figlio fuoco. Principio di rigenerazione e rinnovamento ciclico.
L’albero annuncia il ciclo vegetale, un divenire drammatico che dalla fruttificazione passa alla caducità. Ma l’ottimismo ciclico (eterno ritorno) è rafforzato dalla verticalità dell’albero, che richiama la stazione eretta dell’uomo. Essa, la verticalità, innesta immagini ascensionali, che declinano verso l’utopia progressista, verso un messianismo filiale, una filiazione arborescente, da cui, attraverso gradi e passaggi, scaturisce l’immagine di un dio Salvatore.
É così che nel simbolo dell’albero e della croce si saldano due visioni del tempo (le uniche sinora possibili): il tempo ciclico dell’eterno ritorno e il tempo rettilineo della salvezza una tantum: paganesimo e giudaismo ne sono i referenti storici. Ma non si dimentichi che l’albero è legno che si lega all’altro grandioso simbolo: il fuoco. Ogni albero e ogni legno, in quanto servono a costruire una ruota o una croce, servono in ultima analisi a produrre fuoco irreversibile.
«È per questi motivi che nell’immaginario – scrive il Durand – ogni albero è irrevocabilmente genealogico, indicativo di un senso unico del tempo e della storia». Esso ci conduce ad una collaborazione dinamica col divenire che fa di quest’ultimo l’alleato, e non più il nemico, di ogni maturazione e di ogni crescita, il tutore verticale e vegetale di ogni progresso. Il tempo o lo si affronta attraverso le armi del simbolismo guerriero e polemico o lo si ingabbia attraverso una assimilazione ciclica e progressistica, che ne plachi o ne annulli l’inesorabilità. Il tempo non è più vinto attraverso la assicurazione del ritorno, dalla ripetizione (eterno ciclo), ma in quanto dalla combinazione dei contrari scaturisce un “prodotto” definitivo, un progresso che giustifica il divenire stesso, perché l’irreversibilità è dominata e diventa promessa di vita eterna: segna il passaggio da archetipi circolari ad archetipi sintetici e inglobanti, che instaureranno i miti del progresso e i messianismi storici e rivoluzionari. L’immaginario in questo modo impatta la storia, che ne diviene un prodotto soggetto alle leggi del divenire.
Dialoghi Mediterranei, n. 62, luglio 2023
Riferimenti bibliografici
I. Buttitta, Il poeta in piazza, Feltrinelli Milano 1977
G. Durand, Le strutture antropologiche dell’immaginario, Dedalo Bari, 1987
M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, Bollati Boringhieri Torino 2008
F. Giallombardo, Festa orgia società, Flaccovio Palermo 1990
B. Palumbo, Piegare i santi. Inchini rituali e pratiche mafiose, Marietti Milano 2020
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Luigi Lombardo, già direttore della Biblioteca comunale di Buccheri (SR), ha insegnato nella Facoltà di Scienze della Formazione presso l’Università di Catania. Nel 1971 ha collaborato alla nascita della Casa Museo, dove, dopo la morte di A. Uccello, ha organizzato diverse mostre etnografiche. Alterna la ricerca storico-archivistica a quella etno-antropologica con particolare riferimento alle tradizioni popolari dell’area iblea. È autore di diverse pubblicazioni. Le sue ultime ricerche sono orientate verso lo studio delle culture alimentari mediterranee. Per i tipi Le Fate di recente ha pubblicato L’impresa della neve in Sicilia. Tra lusso e consumo di massa (2019); Taula Matri. La cucina nelle terre di Verga (2020); Processo a Cassandra (2021).
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