di Mauro Geraci
Facciate ventilate di vetro scuro, a specchio, trasparenti, opache, d’alluminio e marmi multicolori, vetrate curve, appuntite, verde acqua, sgargianti tinteggiature, giardini anonimi ricreati tra grattacieli di cemento armato: con la fine del razionalismo socialista e la deregulation indotta dall’economia internazionale, Tirana e le città albanesi sono cadute in una gigantesca spirale di cemento e vetro che da anni, giorno per giorno, ne sta scalzando via per sempre il volto antico.
Da un mese all’altro chi si reca a Tirana non s’orienta più e anche i cittadini lamentano di non riconoscere più gli spazi loro familiari per i palazzi che vengono abbattuti in una notte, per le nuove strade che da un giorno all’altro squarciano vecchi quartieri, per i centri commerciali che deformano ogni angolo, per le torri di cemento armato che hanno sovrastato quella dell’Orologio e il più antico minareto Et’hem Bey simbolo della città, per le nuove chiese e moschee di dimensioni inusitate per una capitale di 800 mila abitanti, per l’emblematica Piazza Scanderbeg dove inesausti cantieri ostentano i poteri dei nuovi corsi (Geraci 2014: 244-264).
Dopo lo stadio Qemal Stafa, le prime aggraziate sale cinematografiche degli anni Venti e Trenta [1], l’antica stazione ferroviaria e gli storici bazar, i due Teatri Nazionali realizzati nel 1938 dal noto architetto italiano Giulio Bertè con un richiamo diretto al surrealismo e ai paesaggi metafisici di Giorgio De Chirico, posti ai margini del prestigioso boulevard di Tirana a due passi dal Municipio, dalla Galleria Nazionale delle Arti e dentro il parco Toptani, primi, delicatissimi esempi di razionalismo architettonico prefabbricato [2], saranno molto probabilmente le prossime vittime a cadere sotto le ruspe. Esecuzioni che le vigenti autorità governative ritengono paradossalmente necessarie alla costruzione di un nuovo teatro di appena seicento posti, quindi meno capiente della sala più grande di quello esistente che ne contiene pressoché mille.
In realtà, della superficie di terreno pubblico in cui si trovano i due teatri e i diversi edifici adiacenti (7500 mq circa) il progetto per il nuovo teatro nazionale ne occuperebbe meno della metà (3000 mq), mentre il resto sarebbe destinato non ai futuri spettatori bensì – come sempre più spesso accade in Albania – alla costruzione del Papillon, un alto, lucroso complesso residenziale e commerciale a più piani a forma di grande farfalla che, l’amara narrativa di Ismail Kadare, fra i più noti scrittori albanesi contemporanei, classificherebbe tra i nuovi “palazzi dei sogni”, che ancor oggi servono a cristallizzare, contenere, archiviare, blindare tra mura trasparenti i sogni ultramoderni degli albanesi [3]. Con reminiscenze kafkiane e orwelliane, Il palazzo dei sogni (2010) di Kadare alludeva, infatti, ai meandri, alle megalomanie, agli esibizionismi come agli isolazionismi che hanno caratterizzato la storia politica e architettonica dell’Albania contemporanea, specie quella del regime comunista di Enver Hoxha dove i palazzi del potere, concentrati nel quartiere blindato del Blloku, con le loro ampie vetrate tradivano l’opposto della trasparenza popolare, ergendosi a contenitori preposti a raccogliere, fin nelle più sperdute province, i sogni della popolazione per radunarli, archiviarli, classificarli, interpretarli, orientarli al fine di isolare e prevenire in tempo utile gli altri sogni, quelli nemici che avrebbero potuto indurre al rovesciamento del potere.
Una trasparenza blindata, quella del palazzo di vetro, che ricorda la “trasparenza del male” che Jean Baudrillard, già negli anni Novanta (1991), indicava quale strategia invisibile, strisciante della dominante imprenditoria neoliberista, sia essa quella dell’edilizia, bancaria o dell’alta finanza, della informazione o dell’informatica, del reale o del virtuale. Trasparenza che torna, del resto, nell’albanese Felix, protagonista del bel romanzo di Visar Zhiti – Il visionario alato e la donna proibita (2014) – che amaramente associa la pulitissima, trasparentissima e quasi invisibile porta a vetri del centro commerciale di Bologna contro cui sbatte e s’insanguina, a quella dell’Unione Europea.
Pensati per il teatro drammatico e leggero, in passato adibiti anche a tribunale e sede del Circolo Scanderbeg, i due teatri sono dotati di numerose sale particolarmente accessibili dall’antistante parco Toptani. Da poco in parte restaurati, essi vengono tuttora impiegati per le annuali, prestigiose stagioni teatrali, per concerti, spettacoli o iniziative destinate alle scuole.
A rendere ancor più inaudito il vasto progetto di abbattimento che prevede anche l’apertura al traffico del parco, sono, così, gli ultimi ottant’anni in cui i due teatri gemelli (dove, con la loro vasta produzione cinematografica, sono apparsi attori del calibro di Anna Magnani, Vittorio De Sica, Greta Garbo ecc.) hanno svolto il loro importante ruolo nell’ “intimità culturale” (Herzfeld 2003), nella sfera sentimentale, negli ideali artistici dei cittadini di Tirana; così anche l’intero complesso architettonico in cui si trovano inseriti, opera di architetti italiani di altissimo livello internazionale quali Gherardo Bosio e Armando Brasini; e l’amplissimo spazio intermedio tra i due teatri destinato agli spettacoli estivi che Bertè aveva dotato anche di una grande piscina tuttora funzionante come di portici e locali adibiti a falegnamerie, depositi di costumi e delle attrezzature di cui il teatro bisogna. Di tale pregevole complesso teatrale degli anni Trenta, il grande attore e regista cinematografico Edmond Budina così ricorda:
«Ho cominciato a frequentare il teatro negli anni Cinquanta, da bambino. Venivo sempre con mio zio che è stato uno tra i più grandi attori della storia del teatro albanese, Sulejman Pitarka. La cosa che m’impressionava di più erano i portinai che staccavano i biglietti, con un vestito a strisce rosse, col cappello, con una uniforme da favola, da sogno che me li faceva apparire come tanti re o generali. Forse questa è stata la prima visione che mi spinse verso il teatro. In quel periodo il teatro era un gioiello, non lo dimenticherò mai; c’era il responsabile di sala, uno alto, con gli occhi verdi anche lui vestito da generale che gestiva il guardaroba, prendeva il cappotto, era una magia. Io andavo con mio zio, era un ambiente bellissimo, con la piscina, tanto che in questo complesso teatrale ho portato sempre mia figlia Adele che ancora ha dei ricordi bellissimi. Poi a dodici anni ho cominciato a recitare a Korçë, la città dove nel ‘61 i miei si erano trasferiti, a scuola, nel Palazzo dei Pionieri, nella commedia. Però nella mia mente c’era sempre era il teatro nazionale di Tirana con la sua sala, il suo costoso pavimento alla veneziana… mi chiedevo se un giorno avessi mai recitato lì. Nel ’71 poi siamo tornati a Tirana e quel sogno si è avverato quando ho finito gli studi. Feci il concorso all’Accademia e lo vinsi. Dopo tre anni di studio mi presero al teatro per un anno di stage e poi stabilmente. Il mio primo spettacolo lo feci con mio zio che mise in scena uno spettacolo da regista. Fu il mio primo ruolo di protagonista perché prima avevo recitato come attore in altre occasioni, ricordo nel ’74 nel villaggio di Sorrël per i cooperativisti. Questo mio primo spettacolo da protagonista s’intitolava Tymra që pashtrohen (I fumi che si puliscono) di Zisa Cikuli, e parlava della fabbrica del nichel vicino Kukës. Io interpretavo un giovane emancipato, un eroe positivo» [4].
I luoghi di queste e tante altre memorie – da circa un anno ogni sera ricordati da registi, attori, costumisti, falegnami, architetti, storici locali, giornalisti, studiosi e politici non solo albanesi all’interno del Movimento Aleanca pro Mbrojten Teatrin (Alleanza per la Difesa del Teatro) che con grandi manifestazioni in loco e sui media ha raccolto una fortissima opposizione alla loro demolizione [5] – forse verranno così distrutti e soppiantati dalle enormi pareti vitree del nuovo teatro nazionale, il cui progetto è stato presentato a marzo e approvato a settembre 2018 dall’attuale ampia maggioranza con una legge speciale emanata dal Parlamento. Provvedimento legislativo che a piè pari, forse per timore di non avere i voti necessari all’approvazione, ha inteso scavalcare gli organi politico-amministrativi del Comune di Tirana.
Progetto direttamente assegnato a BIG (Bjarke Ingels Group), imponente studio architettonico danese che, nel 2011, quando l’attuale Presidente del Consiglio Edi Rama ricopriva il ruolo di sindaco, aveva collaborato col Municipio di Tirana presentando progetti per la costruzione di una nuova moschea e di un Museo dell’Armonia Religiosa, mai messi in atto. Per l’attuazione del progetto danese, il governo oggi presieduto da Rama ha pensato così a un partenariato pubblico-privato coinvolgendo, immediatamente e più o meno esplicitamente, le “parti private” cioè le società di costruzioni Fusha, Kastrati e Edil Al-It. Sebbene l’attuazione dell’intero progetto fosse stata per ben due volte cassata dall’attuale presidente della Repubblica Ilir Meta che non ne ha sottoscritto il provvedimento rinviandolo a ulteriori, approfonditi iter parlamentari, la legge speciale è stata ostinatamente ripresentata e riapprovata dal Parlamento riproponendo, così, il modello spasmodico di abbattimento e innalzamento del “nuovo” Paese che, come già detto, non è affatto nuovo per l’Albania.
Si tratta di un modello antropologico che si lega intimamente all’ideologia del potere così come s’è venuta configurando in Albania sin dalla seconda metà dell’Ottocento, da quando attraverso il movimento per l’indipendenza e la Rilindja (“Rinascimento”) si giunse, nel 1912, al coronamento dell’autonomia nazionale dall’impero turco-ottomano. Pratiche radicali di distruzione e ricostruzione architettonica che, come ho avuto modo di osservare e studiare dal 2002 a oggi in una continua osservazione sul campo (Geraci 2014), in Albania ben s’inquadrano entro l’ideologia “prometeica” che, sin dall’Ottocento, accomuna sinergicamente le poetiche letterarie e artistiche albanesi al susseguirsi di stagioni politiche pensate sempre come nuove, immortali, capaci di realizzare una volta e per sempre quell’Albania naturale, fatale, ideale che s’avverte sempre sfuggente e sfasata rispetto a quella reale, che si ritiene esser stata sempre tradita dai regimi che si sono avvicendati e, quindi, non ancora inverata.
Politiche “prometeiche”, fondate su culti personalistici d’autocrati semidei, di liberatori/dittatori – da Re Zog a Hoxha, fino ai leader attuali della democrazia – che s’insediano con lo scopo d’incenerire il mondo pregresso forgiandolo velocemente a propria immagine e somiglianza con fuochi di volta in volta sottratti all’Olimpo dell’ex Unione Sovietica come, oggi, a quello dell’Europa o dell’America neoliberista. Politiche dove l’insediamento delle nuove autorità coincide con la radicale condanna delle autorialità o con l’abbattimento delle vecchie o dissidenti voci e architetture: si pensi solo alle centinaia di scrittori e poeti perseguitati, come alle preziosissime chiese e moschee distrutte, in nome dell’ateismo di Stato, dal passato regime comunista assieme agli archivi e ai numerosissimi testi sacri d’epoca bizantina che servirono a produrre montagne di carta destinata alla capillare letteratura di una propaganda imposta, casa per casa, come parte dei poveri stipendi. Come fosse il Nuovo Testamento, le famiglie dovevano obbligatoriamente custodire e sottoporre a giornaliere recitazioni gli innumerevoli libri scritti da Enver Hoxha [6].
A tali strategie “prometeiche” è anche riconducibile la riscrittura di quelle stesse Alpi albanesi, nell’Ottocento idealizzate dai grandi poeti della Rilindja quali confini naturali, linguistici e culturali della nascente nazione, successivamente voluta dalla guida comunista sui monti sopra Berat. Hoxha, infatti, volle che sulle alte colline di Berat fosse il proprio nome – “ENVER” – a essere chimicamente impresso in modo indelebile con candide lettere gigantesche, visibili dagli aerei oltre confine, che studenti e professori avevano l’obbligo di pulire e mantenere sempre vive; scritta che tuttavia, nel 2008, dopo anni dalla caduta del comunismo, è stata cambiata in “NEVER” da Armando Lulaj e dalla sua squadra di giovani artisti. Da ricordare, in tal senso, il vero e proprio culto dei busti marmorei o bronzei di Stalin, Lenin, Mao, Hoxha, dei capi partizan, osservato attraverso l’installazione di statue gigantesche e monumenti marxisti-leninisti disseminati a ogni angolo delle città, sui monti e ben testimoniato dal lirico finale de Il commissario Memo (1970) di Dritëro Agolli, tra i più fini e interessanti novellisti albanesi del periodo comunista.
Corpi in bronzo o in pietra che, in una vera e propria pantomima delle statue, avevano la funzione di dislocare ovunque la presenza statuaria e imperitura del “Compagno Enver”, “novello Prometeo”, come lo definisce Fatos Lubonja (1994: 80-82), creatore e protettore degli “uomini nuovi” dell’era comunista. Tuttavia, anche qui, all’indomani della perestrojka e della caduta del muro di Berlino, il regime dovette fare i conti con l’imbarazzante dismissione dei suoi “pezzi”, i cui volti scolpiti apparvero sempre più residui polverosi di un’era titanica ormai al tramonto. Così i bronzi, dopo il 1991, vennero divelti, trascinati nelle piazze, accatastati nei depositi delle fabbriche, distrutti, fusi secondo un interessantissimo processo di dismissione ben documentato da Besnik Mustafaj (1993), scrittore ed ex Ministro degli Esteri che ebbe un ruolo di primo piano nella costruzione dell’Albania democratica.
Processo di veloce dismissione del passato regime che, nel 1999, vedrà lo storico dell’arte Gëzim Qëndro, direttore della Galleria Nazionale delle Arti di Tirana, inaugurare la mostra Homo socialisticus: in un’ampia sala blu notte, dall’alto illuminata solo da fredde luci bianche, decine di busti raffiguranti i più potenti esponenti della vecchia nomenklatura comunista erano stati allineati su cubiche scaffalature dello stesso colore e per cinque anni lasciati andare ai grigi depositi della polvere che vi si sedimentavano sottolineandone i resti spettrali. Crollo delle statue comuniste cui ha anche assistito il grande poeta Visar Zhiti che così lo ricorda:
«Cadono le statue sotto di noi.
Anche morte uccidono di nuovo. I piedistalli vuoti.
Tristissimi per la caduta.
Perché li vedo così? Soffrono?
Le statue non sentono dolore.
[…] Cadono le statue dentro di noi scrosciando,
S’accumulano i loro pezzi
Come brandelli di tragedia
E andiamo in un altro secolo,
in un altro anfiteatro» (Zhiti 1993: 196-197).
E nell’odierno anfiteatro albanese, tali pratiche trovano eclatanti proseguimenti dal 2010 al 2014, coi tentativi da parte dell’ex governo di Sali Berisha, di demolire la Piramida, la monumentale, affascinante Piramide che nel 1988, tre anni dopo la sua morte, veniva eretta nel mezzo del gigantesco boulevard di Tirana quale mausoleo dedicato a Hoxha. Essa, forse, apparve subito quale simbolica, monumentale prosecuzione urbana delle montagne e delle verticalità isolanti e distintive da esse mediate sin dalle antiche fasi della costruzione nazionale ricapitolate in uno dei più importanti capolavori della letteratura albanese del Novecento, Il liuto delle montagne di Gjergj Fishta, poeta e monaco francescano di Scutari che il regime volle condannare anche dopo la morte distruggendone la tomba e gettandone i resti in mare.
Di marmo bianco di Carrara e vetro, la Piramide solo per qualche anno fu davvero museo-mausoleo con «esposti la penna, gli occhiali, la lente d’ingrandimento da presbite, il cappotto e anche la vecchia Fiat Millecento del padre della patria socialista» (Caiazza 2008: 59). Poi, nel ’91, alla caduta del regime, fu devastata, insozzata e successivamente, alla fine degli anni Novanta, adibita al Centro Internazionale di Cultura intitolato allo scrittore di Durazzo Pjetër Arbnori, e quindi elevata a simbolo delle persecuzioni inflitte dalla dittatura di Hoxha. Dal 2007 la Piramide diventa, di volta in volta, sede delle più importanti manifestazioni artistiche della capitale, dalle fiere del libro a quelle per l’infanzia, dalle mostre d’arte che tuttora vi si tengono alle sfilate di moda, alle rassegne di musica, cinema e teatro. Dal 2010 – ed è questa forse la ragione per la quale il Partito Democratico di Berisha puntò alla sua demolizione additandola quale edificio “oggi intollerabile nel centro di Tirana” perché costruito «per immortalare il ricordo del più feroce dittatore dell’Europa del dopoguerra» – fu contemporaneamente concessa come sede a Top Channel, emittente televisiva d’area socialista i cui livelli d’ascolto in pochi anni svettarono tra quelli di tutto il Paese.
Nell’area risultante dall’abbattimento della Piramide, primo simbolo della passata dittatura, un progetto architettonico prevedeva già allora l’edificazione di un nuovo teatro o di un gigantesco palazzo di vetro da inaugurare nel 2012 quale nuova sede del Parlamento, per i cento anni dall’indipendenza nazionale. Immediate le reazioni della popolazione; soprattutto quelle dell’opposizione socialista, paradossalmente la stessa che, oggi al governo, punta alla distruzione dei due teatri nazionali da cui siamo partiti. Fa impressione come l’allora sindaco di Tirana Edi Rama, oggi a capo del governo, abbia interpretato l’eventuale distruzione della Piramide quale scempio di un monumento certo partorito dal culto personalistico di Hoxha in sintonia con quello che fu di Stalin o di Ceauşescu, ma comunque oggi mutato completamente di segno e quindi da tutelare tra gli anelli del patrimonio architettonico albanese, al pari di altre testimonianze edili del dominio ottomano o di quello fascista. Oggi lo stesso leader sembra, infatti, aver cambiato diametralmente opinione essendo il principale, forte, acceso promotore del nuovo Papillon e, quindi, della demolizione dei teatri nazionali costruiti a Tirana da Bertè durante il periodo dell’occupazione italiana dell’Albania.
La simbologia della piramide del resto ha interessato anche gli innumerevoli rifacimenti subiti dalla grandissima Piazza Scanderbeg che costituisce il centro nevralgico, storico, politico, istituzionale, culturale di Tirana. Più volte rifatta dopo il ’91 dalle varie amministrazioni intervenute sull’assetto che la piazza aveva assunto durante il regime comunista che, comunque, l’aveva a sua volta radicalmente modificata rispetto all’originale progetto realizzato dagli architetti italiani negli anni Trenta, il contrappunto piramidale riguarda il generale progetto di riconfigurazione di Piazza Scanderbeg inizialmente affidato a uno studio architettonico belga e poi avviato nel 2009 dal comune di Tirana e dall’allora sindaco Rama. Ricondotto alle manie di grandezza dei leader politici che s’ostinano a voler imprimere il proprio sigillo sul corpo della città, sugli esiti di tale rifacimento circolarono all’epoca voci affatto sicure e discordi: da chi attribuiva gli enormi scavi che affliggevano l’intera area all’ammodernamento della rete idrica e fognaria che ne avrebbe lasciato invariati i lineamenti, a chi invece riportava la voce di un grande specchio d’acqua che, per il fabbisogno cittadino, avrebbe dovuto sorgere al centro della piazza, alimentato da piogge filtrate da pozzi di raccolta lungo i bordi; fino a coloro che al contrario mostravano dubbi circa la completa realizzazione del progetto belga che avrebbe subito molti rimaneggiamenti in corso d’opera.
Progetto che, con immagine opposta al concavo della vasca acquifera, avrebbe invece previsto l’edificazione di una gigantesca ma bassissima e calpestabile piramide, avente come vertice pressoché il centro della piazza, come base l’intero suo perimetro e appena un metro e settanta centimetri di altezza. L’interno, stratificato in piani sotterranei, avrebbe ospitato centri commerciali, cinema, ritrovi e il grande parcheggio oggi già realizzato. Quale pavimento della piazza circondato da piccoli boschetti d’alberi e ammattonato coi marmi multicolori provenienti da tutte parti dell’Albania esaltati dall’acqua che, di tanto in tanto, fuoriesce da fessure in esso collocate, la nuova piramide cittadina oggi è sorta in opposizione simbolica rispetto a quella realizzata per Hoxha negli anni Ottanta, cioè per rappresentare la sollevazione apicale del popolo dalle pregresse condizioni di dominio. A coronare l’ipermoderno risorgimento architettonico albanese, l’area limitrofa a Piazza Scanderbeg divenuta sede di una folta schiera di grattacieli avveniristici che prosegue quella che già metteva in linea il Tirana International Hotel, lo Sky Club, le Twin Towers, la Galeria. Un grattacielo avrebbe dovuto perfino sorgere dentro il cortile del Museo Storico Nazionale, il cui celebre mosaico Albania, che in un quadro di ben 400 metri quadri ricapitola l’intero mito della storia nazionale albanese, sarebbe andato probabilmente distrutto per sempre.
Al di là degli orizzonti e delle simbologie verticali del potere, ben comprensibili alla luce di una vasta antropologia simbolica e politica, a richiedere una futura, approfondita sorveglianza etnografica e antropologica sono qui i tratti paradossali che il progetto del nuovo teatro nazionale di Tirana assume nella lunga serie delle architetture ostensive, distruttive e ricostruttive di cui qui s’è dato solo qualche eclatante cenno. Verticalità che ha un costante bisogno d’imprese che erigano palazzi, che orientino, contengano o seppelliscano i sogni e i loro produttori. Una verticalità autoritaria che intercorre tra chi siede dietro i vetri alti del Palazzo e chi sta in piazza e radicata ancora in una serie di paradossi tutti da comprendere: quello di un nuovo teatro che si vuole costruire abbattendone due; quello di una memoria storica che si vuole mantenere e tutelare eliminandone, però, i prestigiosi locali; quello del Teatro dei Sogni, del “trasparente” Papillon, dietro al quale sembra rimanere salda l’equazione che vede sempre gli stessi imprenditori seduti ai tavoli, «a volte a fianco di Rama a volte a fianco di Berisha» (Lubonja 2006). Una verticalità narrata, denunciata ma che, nel frattempo, cementifica e cristallizza in altezza l’Albania e una metropoli che sale a colpo d’occhio e, con nuove parvenze di sogni, attrae ogni aquila dalle montagne, come ogni corvo che già il grande poeta Migjeni vedeva ammalarsi e sbattere, con le ali chine, contro le fortezze medievali
«simbolo delle speranze perdute
con urla disperate gracchiano di tempi tramontati,
quando i castelli millenari sfavillavano beati» (Migjeni 2006: 19).
Come i castelli millenari d’Albania forse, un domani, il Teatro dei Sogni di Tirana non sfavillerà beato e diventerà a sua volta rudere di tramontati tempi.