il centro in periferia
di Pietro Clemente
Una nascita
Il primo numero de “Il Centro in periferia’ è uscito il 1° settembre 2017 come rubrica nella rivista Dialoghi Mediterranei. Da allora sono passati 5 anni e 30 numeri. Ragione per cui è d’obbligo fare un piccolo bilancio insieme a qualche rito di memoria e di passaggio. Col primo rito di memoria voglio ringraziare il direttore Antonino Cusumano e tutto lo staff che lavora con lui, ringraziare per avere promosso e ospitato la rubrica, ma soprattutto per l’aiuto, la sintonia, lo spirito di collaborazione per cui non mi sento ospite ma parte della rivista. Tanti nomi di autori mi sono diventati familiari anche per i contributi che hanno dato al Centro in periferia, che, essendo ormai diventato un terreno di consuetudine, Antonino ed io abbiamo finito per chiamare con l’acronimo CIP.
Siamo oggi al CIP n. 57. Sono tornato indietro al n. 27 del 2017 e mi sono riguardato l’editoriale. Il titolo era ‘Piccoli paesi decrescono’ e faceva riferimento alla nascita di una rete di associazioni impegnate nei piccoli centri e ad una generazione di quarantenni che ne era protagonista. Nel testo di allora leggo alcune citazioni che sono riti di fondazione. Mi riferisco alla frase di Adorno che parla di Benjamin e che dà il nome al CIP perché pone il centro in periferia e poi all’idea di Claude Lévi Strauss di una umanità cui è congeniale vivere in comunità di piccole dimensioni come un invito al ritorno a società ‘naturali’ per contrastare il ‘cancro’ della società espansiva della modernità. Per me oggi è un piccolo rito riproporre questi riferimenti:
«Misura dell’esperienza, che fa da base a ciascuna frase di Benjamin, è la forza di porre incessantemente il centro in periferia invece di sviluppare il periferico a partire dal centro, come pretendono l’esercizio dei filosofi e della teoria tradizionale» [1].
«Occorre dunque ammettere che ragioni più profonde, d’ordine sociale e morale, mantengono il numero degli individui destinati a vivere insieme entro certi limiti, tra cui si collocherebbe quella che potremmo chiamare la popolazione ottimale. Sarebbe dunque possibile verificare sperimentalmente l’esistenza di un bisogno di vivere in piccole comunità, bisogno che è forse condiviso da tutti gli uomini; ma che non impedisce alle comunità di unirsi quando una di esse subisca un attacco venuto dall’esterno …..Contrariamente a Rousseau, che voleva abolire nello Stato tutte le società parziali, una certa restaurazione delle società parziali offre un ultimo strumento per rendere alle libertà malate un po’ di salute e di vigore. Purtroppo non dipende dal legislatore far risalire alle società occidentali la china su cui stanno da parecchi secoli scivolando … Ma può almeno mostrarsi attento all’inversione di tendenza di cui qua e là si scorgono gli indizi; incoraggiarla nelle sue manifestazioni imprevedibili….» [2].
Nell’editoriale di 30 numeri fa, trovo anche un riferimento ai temi della ‘località’ proposti da Alberto Magnaghi e dalla Società dei Territorialisti, e in particolare quello della ‘coscienza di luogo’ [3].
Con il senno di poi, mi accorgo che, sul piano concettuale, questo insieme di citazioni può apparire un fritto misto. Tuttavia ci colgo ancora i tratti di una fisionomia della rubrica. In Adorno trovo il senso di un movimento quasi fisico che spinge a trasformare i luoghi periferici nel centro di un mondo nuovo, in Becattini e Magnaghi trovo l’idea del valore rilevante dell’esperienza territoriale del lavoro e della vita collettiva come plasmatrici dei luoghi. In Lévi Strauss la tesi centrale va in ‘contropelo’ rispetto alla modernità fatta di metropoli e di pianure e dà valore a società parziali, locali e di piccola dimensione, tesi che è apparsa antiuniversalista, antiprogressiva e di destra, ma è un tema importante che dimostra che affrontare il mondo delle zone interne è anche rileggere in controtendenza la modernità.
I primi sei articoli del 2017 davano avvio ad una rete tra luoghi e associazioni di piccoli paesi. Vanno ricordati il Teatro Povero di Monticchiello (diventato una cooperativa di comunità), il mondo museale di Soriano Calabro, l’esperienza dell’associazione SIMBDEA (Società Italiana per la Museografia e i Beni Demo-Etno-Antropologici) a Cocullo, l’attività dell’Associazione Casa Lussu ad Armungia, dell’Associazione Realtà virtuose di Padru, e della Fondazione Revelli a Cuneo e a Paralup. Questa piccola rete, che si è subito connessa col lavoro di Vito Teti in Calabria, ha prodotto vari incontri nazionali, sia nei singoli luoghi che a Roma, ed ha creato un interesse più ampio presso altre associazioni (Trentino, Friuli, Lazio, Abruzzo). Il CIP (il Centro in Periferia) ha dato voce a queste ma anche a tante altre esperienze allargando i racconti al di fuori della rete.
A distanza di cinque anni posso dire che i racconti continuano e si allargano ma la rete non c’è più. Molte cose che sembravano semplici appaiono oggi più complesse e lo spirito comune tra i vari soggetti che operano verso il ‘Riabitare l’Italia’ non sembra molto saldo. Sarebbe forse l’occasione per il CIP di aprire una nuova fase chiudendo quella precedente e cercando di capire cosa fare. Una sorta di pausa di riflessione.
Negli ultimi numeri ho cercato di analizzare alcuni di questi aspetti. L’immagine del presente e la prospettiva del futuro e sul ‘che fare?’ è per me piuttosto lontana dalla chiarezza. Vi è stata una certa crescita delle iniziative ma purtroppo una scarsa connessione tra di esse. Si presentano ora alcune novità, come l’avvio di un PRIN antropologico legato a diverse università italiane che prevede iniziative di studio su alcune zone marginali. Una bella novità ma sarebbe auspicabile, per la buona riuscita di questo progetto di studio, che lo scenario delle iniziative rivolte al tema del ‘Riabitare l’Italia’ fosse più nitido.
Una nuova fase
Dal 2019 siamo entrati nell’epoca COVID e dal 2022 nell’epoca delle nuove guerre e del definirsi di una nuova frattura del mondo, una nuova cortina di ferro. Si accentuano i segnali di prossimità del disastro ambientale: ogni estate se ne vedono segni vistosi: il riscaldamento globale, lo scioglimento dei ghiacciai, la mancanza d’acqua. Di fronte a questi segni l’universo dei piccoli paesi italiani è solo un’inezia nel panorama generale anche se ha nessi molto forti con politiche di salvaguardia ambientale. Intanto l’intera questione ecologica sembra travolta dal problema del gas russo e del gigantesco bisogno energetico che caratterizza l’Europa moderna e industriale. Bisogno irriducibile a dimensioni di energie rinnovabili e accentuato dalla crisi militare, dal dramma di civili uccisi dentro una guerra non dichiarata che apre una ferita insanabile dentro l’Europa.
C’è una perdita di senso, un sentimento terribile di impotenza perché la vita nell’Europa occidentale sembra trasformare la guerra vicina in normalità, e si vive, giorno dopo giorno, come se non esistesse, e tutti noi ci troviamo in questa dimensione di rimozione. Al tempo stesso i morti di COVID, che sono ogni giorno di più di quelli morti nella guerra in Ucraina, sono ormai relegati nelle note a margine di giornali e TV, e mostrano un cambiamento in atto, una incuria della generazione di mezzo verso la generazione anziana. Sono scenari davvero drammatici entro i quali è sempre più complesso guardare positivamente alla rinascita delle aree marginali, se non per vederle come luoghi da ‘sfollamento’, come rifugio da possibili disastri climatici o bellici. È una fase complicata in cui è difficile pensare e progettare senza tenere nel conto l’apocalisse nel cui gorgo siamo finiti o stiamo finendo.
Ritorno ad Armungia
Armungia, piccolo paese del Gerrei, nella Sardegna sud orientale. luogo natale di Emilio Lussu, è stato per me il punto di inizio sia di una campagna di ricerca nei paesi (1998) sia del progetto culturale di ‘Riabitare l’Italia’ (2016). Un luogo di memoria, un luogo di debiti simbolici, di scoperta delle cose che si hanno sotto il naso. Tutto era cominciato con un colloquio con Giovanni Lussu, il figlio di Emilio, amico di giovinezza e con un suo sogno che mi ero sentito di condividere. Ce ne è traccia nel n. 1 del 2006 della rivista Lares [4], che dava conto di un triennio di ricerche sul campo della cattedra di Antropologia culturale dell’Università di Roma. È stata una bella occasione di esperienza di ricerca che non ebbe però effetti in termini di cambiamenti e iniziative locali. Ma l’incontro con Armungia fu rilanciato nel 2016 in seguito al ritorno di Tommaso, nipote di Emilio Lussu alla casa del nonno. A Tommaso e alla sua compagna Barbara si deve la nascita della Associazione Casa Lussu, e l’esperienza nel campo dell’artigianato tessile tradizionale.
La memoria di questa vicenda costituisce uno dei miei primi scritti sul n. 19 del maggio 2016 di Dialoghi Mediterranei: Casa Lussu. La casa della storia e delle storie [5]. Da queste iniziative nacque la breve stagione della rete dei piccoli paesi e del festival di Armungia ‘Vieni a prendere un caffè ad Armungia’, festival che voleva essere un luogo di incontro e scambio di esperienze tra i protagonisti reali dello sviluppo locale. Fu un ciclo che vide ad Armungia nel mese di giugno dal 2016 al 2019 quattro eventi, con attori di sviluppo locale e studiosi. Vi furono poi incontri della rete dei piccoli paesi a Paralup, a Soriano, a Monticchiello e a Roma. Incontri segnalati e condivisi sia su Dialoghi Mediterranei che su Facebook. Poi le iniziative vennero declinando sia per l’autocentrismo quasi obbligato delle associazioni impegnate con grande sforzo nelle loro sedi, sia per la disattenzione dei sindaci e delle istituzioni, sia infine per l’arrivo del Covid. Forse se fossimo riusciti a superare il tempo del Covid e ad arrivare a quello del PNRR, la rete avrebbe avuto più successo. Comunque sono comparsi sulla scena diversi nuovi soggetti. Tra questi la Rete sarda delle Associazioni – Comunità per lo Sviluppo e alcune associazioni assai attive come la Pro-loco di Fiamignano. Stiamo cercando di connetterci con gli Ecomusei: quelli del Piemonte sono già impegnati in una collaborazione con il CIP. Piccoli segnali interessanti ancorché disparati.
Oggi Casa Lussu ha riorganizzato i suoi progetti. Il lavoro e la rete legata alla tessitura tradizionale sono un canale laterale sempre attivo, ma al centro delle iniziative ci sono ora i temi della agricoltura innovativa e della biodiversità. Tommaso Lussu lavora per la Cooperativa agricola ‘Su niu e s’achili’ (Il nido dell’aquila) di San Nicolò Gerrei, paese confinante di Armungia, già partner nei festival e protagonista da molto tempo dell’investimento sulla biodiversità in Sardegna, anche con attività di ristorazione. La Cooperativa studia le questioni dei concimi organici, fa parte della Rete nazionale delle terre ritrovate, collabora con l’impresa sociale ‘Lavoro insieme’ legata alle iniziative della Caritas, che ha lanciato delle attività di valorizzazione dei prodotti di filiera del Gerrei. Tommaso mi ha segnalato le iniziative nazionali e sarde della rete Semi Rurali nonché la rete Core-Organic DIVERSILIENCE operante in Norvegia, Finlandia, Danimarca, Romania, Bulgaria, Slovenia e Italia che mira a diversificare le produzioni biologiche per incrementarne la resilienza.
Si tratta di un segnale forte di connessione tra attività che nascono dal settore del patrimonio culturale materiale e immateriale e iniziative che provengono dal patrimonio contadino e naturalistico. Patrimonio e agricoltura infatti sono vissuti perlopiù come canali diversi e ciò testimonia la frammentarietà dell’attenzione allo sviluppo locale. In questi giorni stanno venendo a compimento i progetti locali delle ‘green communities’ legati al PNRR. È davvero assurdo che non abbiano connessioni con i progetti appena chiusi del ‘bando borghi’. Al governo e alla politica serve dividere, cosa che non serve certo ai protagonisti locali dello sviluppo. Armungia ha avuto un contributo significativo per il PNRR borghi, e non è presunzione credere che lo abbia avuto per essere diventata un ‘centro in periferia’, un luogo conosciuto a livello nazionale ed europeo.
L’Associazione Casa Lussu vuol tornare ad essere nel 2023 un punto di incontro, di riflessione e di riferimento sui temi del PNRR. I temi che oggi propone suggeriscono una considerazione di fondo: non esiste sviluppo locale basato solo sul turismo perché una scelta di questo tipo finirebbe per distorcere la vita reale della comunità. Legare patrimonio materiale e immateriale all’agricoltura, all’allevamento, all’artigianato è un orientamento di marcia più adeguato. Mi auguro che su questi temi si apra un nuovo ciclo di scambi di esperienza e di conoscenze.
Eppur si muove
La mia speranza è che, al di là dei grandi silenzi e dei grandi drammi del nostro tempo, qualcosa in profondità si stia muovendo. Vado a caccia di segnali. Mi è capitato di trovare in Sardegna tante iniziative di ritorno ai paesi, che nascevano dopo anni di emigrazione, dalla scoperta dei luoghi di origine dei nonni. Ho trovato queste tracce nei due seminari sardi che ho seguito nell’estate. Il primo, a giugno, era un dottorato nazionale di architetti e ingegneri realizzato nell’Alta Gallura [6], ed il secondo, a luglio, era la Summer School di sviluppo locale di Seneghe. In questi due incontri sono state raccontate tante esperienze rilevanti per lo più di agricoltura e allevamento e di tecnologie basate su energie rinnovabili, che avrebbero bisogno di maggiore notorietà e interconnessioni. Esperienze legate – come dicevo – al ‘ritorno’ nei luoghi dei nonni.
Il seminario di Seneghe, dedicato all’economista territorialista Sebastiano Brusco e animato dal sociologo rurale Benedetto Meloni, fa riferimento ad un’area dell’Alto Oristanese martoriata dagli incendi, caratterizzata da piantagioni di ulivi e da un olio di alta qualità ben presente sul mercato. Tra i temi dell’incontro il recupero degli ulivi traversati dal fuoco. Ma il cuore del dibattito era il nesso tra produzione locale e turismo. L’altro grande tema trattato riguardava il rapporto tra seminari di formazione e progettazione di iniziative e imprese di sviluppo locale. In questi incontri sono state raccontate molte esperienze di grande originalità, si sono avuti momenti di dibattito sulle politiche territoriali con la presenza di sindaci, di responsabili regionali di partiti e rappresentanti della rete sarda delle associazioni. Si è discusso del concetto attuale di comunità facendo anche riferimento alla Convenzione di Faro.
A mio parere, se le risorse di coraggio, fantasia, praticità che si sono intraviste in questi due incontri territoriali sardi saranno in grado di resistere nella tempesta, diventeranno contagiose e produrranno nuove seminagioni d’esperienza. Occorre prepararsi a orientare le iniziative per evitare la ripetizione e la dispersione. Non solo per gli enti locali che poco o nulla orientano lo sviluppo locale, ma anche per associazioni di rete dei comuni come ANCI e UNCEM che pure è molto attiva.
Sul piano della ricerca mi pare importante segnalare il Convegno nazionale della Società dei Territorialisti, tenutosi il 9 luglio scorso, in collaborazione con una ampia rete di Dottorati di ricerca di Università italiane. Il Convegno aveva lo scopo di fare il punto e sollecitare l’impegno di ricerca sui temi della bioregionalità e dell’ecoterritorialismo in una vasta prospettiva interdisciplinare. L’orientamento teorico della Società dei Territorialisti è contrario al puro approccio ecologista e favorisce le forme storiche del rapporto uomo-natura, forme solidali la cui co-evoluzione senza violente forzature è una guida per lo sviluppo locale rispettoso dell’ambiente. Gli atti saranno un ulteriore elemento per orientarsi in questo mondo che presenta grande complessità teorica e politica e importanti prospettive.
È uscito l’ultimo libro di Vito Teti col titolo La restanza. Orietta Sorgi recensendolo in questo numero di Dialoghi ha scritto: «Vito Teti è stato interprete, osservatore e protagonista diretto di quelle trasformazioni che hanno coinvolto non soltanto la Calabria ma tutto il Sud Italia. Ha vissuto in prima linea il dramma dell’emigrazione attraverso l’esperienza del padre, partito per il Canada quando lui aveva otto anni. Ha assistito al tramonto della cultura contadina e al cambiamento dei luoghi a lui più cari. Ha interrogato le rovine e le macerie dei piccoli centri devastati dall’incuria e da una mancata tutela del territorio. E tuttavia, nel pessimismo cosmico dei nostri tempi, individua nella restanza una via d’uscita, un filo di speranza per il futuro, esortando gli uomini a camminare».
Abbiamo bisogno di sguardi lunghi e di meditazioni che guardano il presente raccontando la carica di passato che c’è dentro, che si difende e si perde.
In questo scenario complesso l’Associazione Riabitare l’Italia [7] ha voluto lanciare, con intenzione esplicitamente polemica, il volumetto Contro i borghi. Il libretto, presentato in incontri in giro per l’Italia e su Facebook, ha avuto una certa attenzione e successo già dal momento della sua uscita il 1° luglio scorso. Filippo Barbera ha voluto ribadire i temi del libro in un ampio e bell’articolo apparso sul quotidiano Domani del 12 agosto: La bell’Italia è solo un mito. Il paese è pieno di posti brutti. Un titolo ambiguo ma di certo ironico. Barbera critica il mito della Bellitalia in modo duro e convincente. È una Italia fatta di grandi musei, di luoghi ‘comuni’ in tutti i sensi, costruita dalle compagnie turistiche e dalla pubblicità. Quell’Italia che per anni ho criticato, segnalando che le guide rosse del TCI mostravano nel paesaggio solo chiese e castelli e preferivano suggerire la visione di una acquasantiera del Quattrocento piuttosto che il paesaggio agrario che le stava intorno. Così come condivido la critica al ‘bando borghi’ del Ministero della Cultura. Infatti nel bando la nozione di borgo è stata usata in maniera discriminatoria finendo per differenziare i borghi ‘storicizzati’ [8] dal resto dei paesi. Ma per fortuna le scelte regionali hanno forzato il bando: in Sardegna Armungia e Seneghe – che non sono borghi in quel senso – sono entrate nelle graduatorie, così come in Toscana il paese vincitore Castelnuovo dei Sabbioni (Cavriglia) è un antico centro minerario dismesso con una borgata abbandonata (anche qui si tratta di un non borgo).
Nello scritto di Barbera porre al centro del bersaglio polemico i ’borghi’ rischia di avere come conseguenza una forte spaccatura dentro il mondo delle culture locali, culture che spesso hanno aderito alle associazioni che promuovono i ‘borghi’. La parola “borgo” viene usata come responsabile di azioni mistificatorie dell’immagine dell’Italia. Accusare di mistificazione tutti i ceti sociali, compreso il mitico ‘ceto medio riflessivo’ [9] mi sembra davvero un esercizio di estremismo [10].
In Val Pellice mi è capitato di leggere in una vetrina di panettiere ‘forno a legna di borgata’. Si tratta forse di una pubblicità che mostra che il venditore fa parte di una Italia distorta e ipnotizzata dal capitalismo? Penso che sia un modo legittimo per molti operatori culturali di luoghi di creare movimento e sviluppo [11] attraverso lavoro organizzativo, inventivo, relazionale.
Da anni critico il modo insensato con cui politici e amministratori poco fantasiosi vogliono fruire della risorsa “turismo”. Il caso di Matera, capitale della cultura 2019, è stato paradigmatico della mancanza di programmazione. Nelle grandi città turistiche sono nati movimenti di lotta contro un turismo drammaticamente invasivo, presidiato e difeso però da milioni di commercianti. Ma è fondamentale che il valore del turismo – qualitativo e non invadente – abbia la funzione di sollecitare economie locali, facendo apprezzare le risorse presenti anche nei paesi che si sentono “brutti”. Leggendo il libro Contro i borghi (dove vi è anche un mio contributo) resto perplesso sulla interpretazione che ne fornisce Barbera e temo una possibile frattura in uno spazio che mi sembra utile tenere unito. Sono d’accordo con la conclusione laddove si chiedono politiche incentrate sul valore della vita quotidiana degli abitanti dei territori e non su una presunta e conclamata ‘bellezza’. Ma sento molto lontano il linguaggio di Barbera così carico di implicazioni etiche e di disgusti estetici. Per quel che ne so mi sembra cosa molto lontana dal vero il chiamare «musealizzazione patrimonialista con calcificazione della comunità locale» cose vive e piene di gente della vita quotidiana come possono essere le ‘rievocazioni storiche’. Mi sembra inoltre offensivo verso il mondo dei musei e del patrimonio del quale mi occupo da quasi cinquanta anni, con tante battaglie e qualche successo, considerarlo “calcificante”. Ma è giusto discutere di questi temi, in modo che ognuno si faccia una sua idea. Il volume Contro i borghi si presenta come libro di battaglia e che se ne discuta è segno che funziona. In questo numero di Dialoghi, ne troviamo la recensione in un testo appassionato e attualizzante di Giuseppe Sorce.
Dovrei parlare sia delle iniziative di UNCEM, che consiglio a tutti di seguire attraverso il sito e la sua newsletter, che delle attività del Forum Diseguaglianze e Diversità, che ha tra i suoi obbiettivi di giustizia sociale il tema delle diseguaglianze territoriali, e che prende sistematicamente posizione sulle scelte dei governi in una prospettiva di critica costruttiva, come nel caso del PNRR. Ma il mio editoriale è già troppo lungo, per colpa delle memorie e delle difficili riflessioni sul futuro.
Molte voci
Il numero 57 di Dialoghi Mediterranei e 30° del “Centro in Periferia”, è ricco di voci e di per sé potrebbe essere foriero di una continuazione utile dell’impresa. Il testo proposto da Costantino Cossu che riguarda l’articolo della Costituzione sulla insularità è un dato di cronaca ma è anche un nodo teorico non da poco, un nodo che si può estendere a tutto il campo delle disuguaglianze territoriali. Spesso per metafora abbiamo chiamato ‘isole’ certe aree marginalizzate. Da un lato la legge europea e poi anche italiana e le sue possibili conseguenze operative separano le isole dagli altri luoghi di lontananza, dall’altro il dibattito aperto in Sardegna è estendibile a tutto l’universo delle periferie. È giusto perciò accogliere una norma che diminuisce il disagio della distanza ma che purtroppo non modifica il meccanismo che la produce? Da questo punto di vista il lavoro stesso della SNAI può essere criticato. Auspico che se ne discuta anche al di là del dibattito sull’insularità.
L’intervento di Moreno Miorelli su Topolò era atteso da trenta numeri, perché questa comunità di confine, con i suoi tratti italo/sloveni, andava in controcorrente con la storia del Novecento ed oggi va nella direzione indicata dall’Europa scegliendo Gorizia e Nova Goriza come capitale europea della cultura nel 2025. Quello di Miorelli, è un bel testo fortemente soggettivo che va letto in sintonia con la scheda biografica, e mostra come nascono, come vengono gestite, cosa significano per la vita le scelte di porre il centro in periferia. Un forte peso della soggettività, ma questa volta nella memoria del passato, è quello che caratterizza il testo di Sergio Todesco, assiduo collaboratore di Dialoghi e figura di rilievo nella vicenda siciliana del patrimonio culturale. È interessante leggere i testi di Todesco e di Miorelli ‘vicini’: sono storie di due epoche che dicono entrambe qualcosa dell’altra.
Gabriella Da Re, protagonista della nascita del Museo Sa Domu de is ainas di Armungia, ricorda la morte di Nando Cossu, fondatore del Museo del Giocattolo, sullo sfondo della difficile storia della creazione di musei in Sardegna piena di conflitti con gli amministratori. Da Re introduce una dimensione di sentimenti e di dolori nella progettualità museale. Nando Cossu, creatore di un museo originale e leggero, allontanato dalla sua creatura per dura volontà del Comune di Ales, è il filo nero di una professionalità negata, o non ascoltata, che percorre anche la mia storia di musei mancati, e che invita noi studiosi e progettisti alla dimensione emotiva: piangere insieme per le incomprensioni, gli insuccessi, la sordità degli interlocutori.
Mariano Fresta recensisce un libro ricco di voci autobiografiche, dove il dolore è di casa. Si parla di storie di terremoto, di vite segnate da una doppia marginalità, quella di essere sia zone periferiche che quella di dovere affrontare, dopo i mesi dei grandi riflettori nazionali, la lentezza, se non l’inesistenza, degli investimenti di ricostruzione. In questo quadro Settimio Adriani di Fiamignano racconta con franchezza e con rabbia dolorosa le richieste non ascoltate fatte alle istituzioni, le promesse non mantenute in una realtà dove la Pro-loco è ricca di iniziative e di lavoro appassionato della comunità locale, testimoniato anche dalla collaborazione sistematica con la nostra rubrica. Mariacristina Mona e Corradino Seddaiu raccontano la comunità di Rapone, comunità in movimento che investe la propria identità sulla narrativa di tradizione orale, e quella di Bisinchi in Corsica che sperimenta un Erasmus rurale, il cui progetto è quello di orientare i giovani verso il mondo delle campagne come loro possibile futuro. Sardegna-Corsica, narrativa di tradizione orale sono pezzi della mia storia di studioso e di sardo: sento in questi testi delle continuità e delle fratture, ma anche il senso di qualcosa che va avanti e si muove che è bene stare ad osservare con speranza.
Dialoghi Mediterranei, n. 57, settembre 2022
Note
[1] T. W. Adorno, “Introduzione agli ‘Scritti’ di Benjamin”, in Th. W. Adorno, Note per la letteratura 1961-1968, Torino, Einaudi, 1979: 246.
[2] C. Lévi Strauss, “Riflessioni sulla libertà”, in Lo sguardo da lontano. Antropologia, cultura, scienza a raffronto, Torino, Einaudi, 1984. Lo scritto sulla libertà è stato pensato nel 1976 per una occasione pubblica.
[3] Alberto Magnaghi, Il progetto locale. Verso la coscienza di luogo, Bollati Boringhieri, Torino 2010; Giacomo Becattini, La coscienza dei luoghi. Il territorio come soggetto corale, Donzelli, Roma 2015.
[4] Il mio scritto nel volume a più autori si intitolava Il paese di Emilio Lussu e delle rose.
[5] In corso di ristampa sulla rivista Dalla parte del torto n.97
[6] I casi sono anche descritti in Lidia De Candia, Territori in trasformazione: il caso dell’Alta Gallura, Roma. Donzelli, 2022. De Candia è stata anche la promotrice dell’incontro formativo sul territorio.
[7] Filippo Barbera, Domenico Cersosimo, Antonio De Rossi, a cura di, Contro i borghi. Il Belpaese che dimentica i paesi, Roma, Donzelli 2022.
[8] Così in una risposta ministeriale di chiarimento su cosa è un borgo: «piccolo insediamento storico che ha mantenuto la riconoscibilità nella struttura insediativa storica e la continuità dei tessuti edilizi storici prevalentemente isolati e/o separati dal centro urbano non coincidenti con il centro storico o porzioni di esso. A meno che non siano Comuni piccoli o piccolissimi caso in cui il centro storico è considerato Borgo»
[9] Del quale ho l’impressione che sia Barbera che io facciamo parte.
[10] Per chi ricorda la storia dell’Internazionale comunista questa linea mi fa pensare al ’socialfascismo’, mentre io sarei per la linea del ‘fronte popolare’.
[11] Borgo, borgata, paese, per me paese ha un significato più generale e significa la gente di uno spazio abitato mentre borgo indica il tipo di spazio dove si vive. Spesso i borghi storici erano i luoghi dai quali si comandavano e opprimevano i contadini. Paesano, paisà è termine di lunga storia sociale, borgataro fa pensare alle periferie di Pasolini, borgo e borgata hanno spesso valore opposto. È una problematica semantica che è difficile ridurre a un senso univoco.
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Pietro Clemente, già professore ordinario di discipline demoetnoantropologiche in pensione. Ha insegnato Antropologia Culturale presso l’Università di Firenze e in quella di Roma, e prima ancora Storia delle tradizioni popolari a Siena. È presidente onorario della Società Italiana per la Museografia e i Beni DemoEtnoAntropologici (SIMBDEA); membro della redazione di LARES, e della redazione di Antropologia Museale. Tra le pubblicazioni recenti si segnalano: Antropologi tra museo e patrimonio in I. Maffi, a cura di, Il patrimonio culturale, numero unico di “Antropologia” (2006); L’antropologia del patrimonio culturale in L. Faldini, E. Pili, a cura di, Saperi antropologici, media e società civile nell’Italia contemporanea (2011); Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita (2013); Le culture popolari e l’impatto con le regioni, in M. Salvati, L. Sciolla, a cura di, “L’Italia e le sue regioni”, Istituto della Enciclopedia italiana (2014); Raccontami una storia. Fiabe, fiabisti, narratori (con A. M. Cirese, Edizioni Museo Pasqualino, Palermo 2021); Tra musei e patrimonio. Prospettive demoetnoantropologiche del nuovo millennio (a cura di Emanuela Rossi, Edizioni Museo Pasqualino, Palermo 2021).
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