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Il valore immateriale della museografia spontanea etnografica

Il museo etnografico “El vout dale arzare dan bòt”, La cantina degli attrezzi di una volta, frazione Mione, Rumo, Valle di Non. Copyright: Filippo Broll – Museo Pietra Viva

Il museo etnografico “El vout dale arzare dan bòt”, La cantina degli attrezzi di una volta, frazione Mione, Rumo, Valle di Non (ph. Filippo Broll – Museo Pietra Viva)

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di Filippo Broll

Museografia spontanea etnografica fossile accademico?

Il termine museografia spontanea etnografica o spontaneismo etnografico non è di certo nuovo nell’ambito degli studi di antropologia museale, ma progressivamente esso è uscito dal dibattito accademico, prettamente italiano, di cui faceva parte. La definizione del fenomeno e le sue direttive parte certamente dalla metamuseologia di Cirese (1977) a cui seguono: Giovanni Kezich, Pietro Clemente e Sandra Puccini. Quest’ultimi dai tardi anni novanta fino ai primi anni duemila hanno analizzato criticamente quel fermento di collezionismo popolare di oggetti etnografici, nato nell’Italia del post boom economico, consapevole dei “prezzi pagati” (Cirese, 1977) dai padri e dalle madri che alla civiltà contadina hanno partecipato come “protagonisti”. I luoghi d’elezione per questa raccolta del passato non sono solo la vecchia casa di famiglia, ma soprattutto la discarica, dove il patrimonio materiale tradizionale riferito ai vecchi mestieri ha trovato la sua ultima collocazione.

Il periodo che va dagli anni settanta fino ai tardi anni novanta è stato campo di dibattito accademico e museale tra chi considerava i musei etnografici spontanei come botteghe di rigatteria seriali e banali negli intenti espostivi e divulgativi, e chi vedeva i collezionisti in un’ottica romantica, artistica o museograficamente di rottura, pronti a portare un nuovo sguardo sul museo etnografico così come istituzionalmente inteso (Lattanzi et al., 2015). Complice della dualità la “scoperta” del Museo Guatelli a Ozzano Taro, che ha introdotto definitivamente il collezionista come voce della collezione (Clemente, 1996: 263-302; Kezich 1999: 52) e a seguire le centinaia di musei etnografici di ogni paese e frazione italiana che rendono, ancora oggi, questa tipologia di museo la più diffusa su tutto il territorio italiano (ISTAT, 2022).

Con gli anni novanta, quindi, si cerca di definire al meglio la figura del collezionista attraverso proposte notevoli: Kezich (1999) con il “museo selvaggio” rende lampante la necessità di dedicarsi a un’antropologia museale che studi il motore che porta il museo spontaneo a realizzarsi, ovvero “l’uomo che fa il museo”; Clemente (1999) successivamente parlerà di oggetti d’affezione il cui valore primariamente affettivo degli oggetti esposti è da riferirsi all’esperienza di vita del collezionista; infine, Puccini (2005) individuerà come il rapporto del collezionista con gli oggetti possa dare vita a collezioni tematiche riferite alla necessità del collezionista di raccontare o palesare, consciamente o inconsciamente, nella totalità di quanto raccolto, il disagio di un lutto, un’ossessione, l’autobiografismo. Questi studi suggeriscono già il valore immateriale di queste collezioni trovando nelle narrazioni e nei percorsi conoscitivi locali un nuovo filone di ricerca. Le ricerche però alla fine dei primi anni duemila sembrano esaurirsi (contrariamente alla parabola del collezionismo e del museo spontaneo che continua, lentamente) involvendo alla dualità prima accennata e relegando l’opera dei collezionisti a “pre-logicità”, patetismo, nostalgia e folklorismo nel sentire comune di amministrazioni territoriali, agenzie di promozione turistica, nel visitatore comune come nel museografo (cfr. Cirese, 1996; Seppilli, 2005: 175-183), non riuscendo più a percepire la connessione tra oggetto e persona che avviene nel contesto del museo.

Crioceratites, Francia, Wikipedia, CC BY 3.0 IT

Crioceratites, Francia, Wikipedia, CC BY 3.0 IT

Il museo spontaneo etnografico ha nell’attuale dibattito, pressoché inesistente, salvo rare iniziative [1], la stessa percezione che si ha del fossile di ammonite. Fossile (cfr. phylum Mollusca, Classe cephalopoda, sotto-classe ammonidea) dalle diecimila specie, comune in tutto il mondo, caratteristico della forma a chiocciola, i cui esemplari a un primo sguardo risultano l’uno uguale all’altro (Arduini & Teruzzi, 1986; Sepkoski 2002). Il museo spontaneo etnografico come la chiocciola dell’ammonite ha nelle sue esposizioni straripanti di attrezzi e nel racconto del loro utilizzo la medesima forma da nord a sud della penisola. Pur non essendo certamente così è necessario tornare a considerare il concetto di museo spontaneo etnografico non come un fossile accademico che fa bella mostra nella storia degli studi, ma come fossile vivente, come nuovo oggetto di studio, poiché analizzabile sotto un’altra ottica: il museo spontaneo etnografico va preso in esame come performance, tutt’uno nel rapporto tra oggetti e collezionista e ascrivibile a una forma di narrazione popolare. Performance ulteriormente vivente poiché, se nata negli anni sessanta, avrà subìto variazioni e adattamenti alle istanze del presente. Magari tenacemente mantenuta dal collezionista o ancora gestita da eredi o pubbliche amministrazioni che col tempo ne hanno mutato il senso e gli obbiettivi verso una divulgazione personale o più scientifica. Dire quindi che questi musei possano prima di tutto essere narrazioni popolari, ascrivibili al folklore e che in futuro, dopo averne seguita l’evoluzione, possano diventare “musei” così come istituzionalmente intesi sarà la proposta teorica di questa trattazione.

Museo del Battista, di Giovanni Battista Polla, Caderzone Terme, Val Rendena, Trentino. Copyright: Filippo Broll – Museo Pietra Viva

Museo del Battista, di Giovanni Battista Polla, Caderzone Terme, Val Rendena, Trentino (ph. Filippo Broll – Museo Pietra Viva)

Una nuova proposta di definizione e un’analisi dei processi

Rispetto alla definizione standard della museografia etnografica spontanea affermatasi tra gli anni novanta e duemila è utile, per un momento, decostruirne gli elementi cardine. Possiamo dire quindi che il fenomeno si compone di quattro elementi.

Innanzitutto il collezionista, che anima la collezione attraverso il suo operato e ne racconta gli oggetti secondo motivazioni profonde, in alcuni casi inconsapevoli. Sandra Puccini (2005: 8-17), a tal proposito, definisce le tipologie di collezionista possibili nel contesto dello spontaneismo etnografo: il collezionista feticista per cui la materia dell’oggetto e il contatto con esso evoca un ricordo legato allo stesso; il collezionista àncora per cui gli oggetti sono surrogati di un evento significativo; il collezionista monumento funebre che degli oggetti fa un palazzo della memoria a ricordo del defunto; il collezionista autobiografo per cui gli oggetti sono testimoni di un minuzioso racconto personale; il collezionista cacciatore che ha negli oggetti da recuperare l’obbiettivo ultimo della sua collezione per poi sfoggiarli come trofei; il collezionista Hau a cui interessa il rapporto che l’oggetto possedeva con la persona che glielo ha donato, rapporto che è raccontato e messo in relazione alla propria esperienza. Queste categorie nate durante l’analisi di alcuni musei del sud Italia possono essere utili per inquadrare la figura del collezionista, ma osservandole con attenzione si potrebbe dire che ogni collezionista, vista la vastità della propria esperienza di raccolta, non si riduca a una semplice categoria, ma che ci sia al massimo una tendenza verso l’una piuttosto che un’altra. Quale collezionista non è stato un “cacciatore” per una volta, proprio di quell’oggetto mancante? Quale invece attraverso un oggetto non ricorda un fatto della sua vita o delle vite altrui? Infine tutti gli oggetti di queste collezioni possono essere Hau, portatori della voce di trapassati, di chi non c’è più o di chi, semplicemente, non c’è, e che rivivono attraverso il collezionista.

Il secondo elemento è la raccolta, eseguita nel territorio e nella comunità di cui fa parte il collezionista. Si basa sulle esigenze specifiche del momento o banalmente della causalità, non è detto che tutti gli oggetti siano locali. Il processo di raccolta è quello che porta a decontestualizzare l’oggetto, che diventa una sorta di linguaggio senza sintassi e sta al collezionista accomodarne il senso allineandolo alla sua visione.

Amaltheus, Germania, Wikipedia, CC BY 3.0 IT

Amaltheus, Germania, Wikipedia, CC BY 3.0 IT

Terzo elemento è l’allestimento, che avviene mano a mano che la raccolta avanza: può essere un semplice accumulo oppure una disposizione per sezioni, che si possono dire “classiche”: dagli attrezzi per l’agricoltura, alle cose di casa, agli strumenti del falegname, eccetera. In altri casi il criterio dell’allestimento è puramente estetico o artistico, e in tutti i casi legato allo spazio a disposizione nella propria abitazione. La disposizione degli oggetti è soggetta a cambiamenti costanti e a riordini. Allestimento che a parole è sempre originale e mai derivato dal museo etnografico istituzionale pur, ovviamente, riprendendone i codici comunicativi.

Ultimo elemento è la performance: essa si basa sulle attitudini e le tendenze del collezionista, è influenzata dagli oggetti e ha le caratteristiche della visita guidata. Il concetto di performance qui presentato è basato sulla teoria dell’“analogia drammaturgica della vita quotidiana” di Erving Goffmann e di alcuni elementi della performance artistica e rituale. La performance è quindi l’azione di presentarsi agli altri sulla base di competenze culturali acquisite dall’ambiente e nei campi in cui il soggetto si applica (Goffmann, 1993: 63). Essa richiede dei caratteri di formalità essendo strutturata e situata in luoghi precisi e comunica sia le caratteristiche codificate dal contesto che quelle del performer (Broll, 2023: 29). Per la performance del museo spontaneo etnografico gli oggetti costituiscono una “regia invisibile” da cui il collezionista capta i messaggi e ne ripropone il significato. I caratteri della performance sono modificabili, ma si verificano solo nell’ambito della collezione ed essa presenta dei “feticci”, ma meglio ancora dei “punti di svolta” definiti da quegli oggetti che in ogni esecuzione sono raccontati e che possiedono un valore superiore nella totalità degli oggetti (ibidem: 31). Infine la performance può riguardare marginalmente l’oggetto che sembra essere il protagonista di quella parte di racconto e può venire utilizzato come mezzo per parlare d’altro. La performance è strettamente legata al collezionista, e alla sua morte non è ricostruibile eccetto in un’ottica di patrimonializzazione attraverso forme di registrazioni video e audio. Chi prenderà in gestione il futuro della collezione dovrà perseguire percorsi alternativi, ma altrettanto importanti.

Corrado Caracristi, Museo etnografico “El vout dale arzare dan bòt”. Copyright: Filippo Broll – Museo Pietra Viva.

Corrado Caracristi, Museo etnografico “El vout dale arzare dan bòt” (ph. Filippo Broll – Museo Pietra Viva)

Decostruiti gli elementi rimettiamo tutto assieme per aggiungere qualche dettaglio alla definizione di museo etnografico spontaneo seguendo la via già tratteggiata da Kezich (1999). Il museo spontaneo etnografico nasce in maniera non eterodiretta a seguito dell’opera di raccolta e allestimento di oggetti etnografici da parte di un collezionista. Il valore degli oggetti non si limita alla loro materialità, ma essi creano un percorso conoscitivo singolare dato dal rapporto che il collezionista ha con essi. Da questo percorso di raccolta, allestimento e conoscenza si sviluppa una performance, eseguita dal collezionista, finalizzata a raccontare gli oggetti e a raccontare sé stesso.

Brevemente e a titolo esemplificativo presento il percorso di un museo spontaneo etnografico trentino, da me studiato attraverso l’intervista strutturata e la ripresa audiovisiva [2]. Si tratta di “Na mìgola de museo”, Una briciola di museo, di Luigi “Gino” Sicheri a Stenico nelle Giudicarie esteriori [3]. Sicheri, nato nel 1936, guardaboschi in pensione, a partire dagli anni settanta ha iniziato a raccogliere “tutto quello che era antico” e che trovava nelle discariche, nei boschi e nelle vecchie case, arrivando ad allestire due interi locali, la stalla e il fienile, non più utilizzati dopo la morte del padre contadino. Gli oggetti di Sicheri sono allestiti seguendo la logica delle sezioni tematiche. Queste però risultano “sfumate”, infatti nelle sezioni dedicate a un gruppo di oggetti riferiti a uno specifico mestiere se ne trovano altri, di tutt’altra tipologia. Ne è un esempio la sezione dedicata all’osteria e alle misure del vino dove sono presenti una meridiana, uno goniometro navale e dei reperti ceramici archeologici.

Il Museo ha inoltre un apparato didascalico originale riferito solo in parte agli oggetti esposti e più spesso a pensieri, proverbi e motti del collezionista che hanno come tema l’oggetto o il lavoro per il quale è impiegato. Questa varietà tematica porta Sicheri a spaziare su molti argomenti e ad avanzre delle ipotesi sulla provenienza degli oggetti parte della narrazione che propone al visitatore, creando un’atmosfera da gabinetto delle curiosità locali e alpine. In relazione agli oggetti “punti di svolta” sempre citati nella visita di Sicheri ci sono: la lettera della cancelleria dell’impero austroungarico che assegna al suo bisnonno la taglia sull’orsa e il suo piccolo che minacciavano le attività di pastorizia locali, il cranio d’orso che Sicheri ha trovato durante il lavoro e “la canzone del carrettiere”, un’aggiunta recente (cfr. Pennaccini & Kezich 1993, Broll 2023: 34), cantata a ricordo di un frate locale che l’ha scritta e che introduce qualche parola sui carri e il loro utilizzo, mezzi di trasporto che in entrambe le sale del Museo occupano lo spazio centrale. Aldilà di questi punti la performance inizia sempre dalla stalla per poi spostarsi nel fienile e Sicheri ha una parola per tutti gli oggetti esposti in base all’estro del momento. La performance si conclude in maniera anti narrativa: il museo per Sicheri è un’opera aperta in costante discussione, di cui va considerato anche il continuo innesto di visite di amici e conoscenti che assieme a lui entrano nella performance parlando e condividendo informazioni sugli oggetti. Per Sicheri il museo e la sua performance sono un’attività sociale a tutto tondo financo da invitare il visitatore a bere un bicchiere di vino in cantina assieme a lui alla fine della visita.

Dettaglio dell’allestimento di Luigi Sicheri. Copyright: Filippo Broll – Museo Pietra Viva.

Dettaglio dell’allestimento di Luigi Sicheri (ph. Filippo Broll – Museo Pietra Viva)

Il valore immateriale e una proposta di tutela

Come si sarà intuito la performance e il percorso conoscitivo che porta il museo a nascere e a divulgare sono il bene immateriale della museografia spontanea, ma come è possibile riuscire a individuarlo, studiarlo e tutelarlo? Con la morte del collezionista, senza uno studio a monte, è difficile comprendere le motivazioni che hanno portato alla realizzazione del museo, e chi lo eredita non è spesso in grado restituire i messaggi, la filosofia, lo spirto che la performance del collezionista comunicava. Inoltre, spesso la volontà di eredi o terzi di spostare la collezione in un altro luogo (se non di smantellarla) va a rompere un equilibrio allestitivo e simbolico unico (Kezich, 1999). Per quanto vero, l’enunciato precedente ha lo spiacevole effetto di far sembrare il fenomeno qualcosa che non vale la pena approfondire, se non nella sua prima parte, poiché anche per l’antropologo sarà poi impossibile studiarlo. Situazione che si sta verificando in tutta Italia per l’ovvio venir meno dei collezionisti e la tutela approssimativa di questi spazi, a cui si aggiunge l’aggravante dell’elevatissimo numero di collezioni su tutto il territorio nazionale. Invece, credo sia necessario guardare il fenomeno in un’ottica progressiva (non necessariamente considerare la morte del collezionista come la fine di tutto) bensì pensare come la performance e gli oggetti a cui essa è connessa possano evolversi in un museo vero e proprio oppure in un’altra performance costruita sulle fondamenta di quella precedente. Si può dire quindi che il modo con cui vengono comunicati gli oggetti ci può far capire quanto il fenomeno della museografia etnografica spontanea sia vivo e mutevole.

Volendo formulare un esempio, immaginiamo per un momento una zappa inserita nel contesto di un museo spontaneo etnografico. Pensiamo al rapporto che il collezionista ha con la zappa: potrebbe essere la zappa del padre, la prima zappa che ha utilizzato da giovane, la zappa forgiata dal fabbro del paese, l’unico oggetto che è riuscito a recuperare da una vecchia casa e così via e, pur potendo dare altre informazioni sulla zappa come l’utilizzo che se ne faceva, per quale tipo di suolo veniva utilizzata, il suo nome dialettale o il materiale di cui è fatta, sarà preponderante il rapporto personale con l’oggetto. Immaginiamo ora che dopo la morte del collezionista qualcun altro, un erede o dei volontari o persone di un’associazione, senza una formazione specifica, raccontino quegli stessi oggetti. Si fa presto a cadere nell’agiografico del collezionista, ma ancora più spesso si racconteranno quegli oggetti in relazione al passato della comunità locale. La zappa racconterà del fabbro, del suo nome, del suo modo di lavorare e della collocazione della sua fucina. Approccio facilmente applicabile a tutti gli oggetti. Questa tipologia d’approccio nella visione di chi eredita o riordina la collezione entra nell’orizzonte di senso storico-locale e potrà portare a delle esperienze di catalogazione.

Infine, immaginiamo l’antropologo/storico/studioso raccontare quella zappa: che cosa può dire lui su quello oggetto? Può certamente parlare della zappa secondo quanto teorizzato e scritto negli studi di antropologia museale sul significato culturale, o di quanto scritto in questo articolo, ma ancora meglio ne divulgherà il suo valore ergologico: di che cosa è fatta, come si utilizza, in quali zone viene utilizzata e la mette in relazione con altre zappe dello stesso territorio e più in generale con il sistema agro-silvo-pastorale. Potrebbe anche iniziare un processo di catalogazione che, se eseguito con coerenza, può ricostruire i passaggi qui sopra descritti. Tre approcci diversi che partono tutti quanti dall’oggetto e dalla performance del collezionista, che possiamo riassumere nel primo caso come “paradigma affettivo” (Broll, 2023: 20) utilizzando le basi teoriche degli oggetti d’affezione (cfr. Clemente, 1999), nel secondo come “paradigma testimoniale” ovvero a testimonianza cronachistica di qualcosa o qualcuno (Turci, 2005: 5) e infine come “paradigma indiziario” ovvero la divulgazione scientifica di quanto è esposto (ibidem) e che può portare la collezione e il museo spontaneo a essere museo vero e proprio. L’esempio appena costruito si può applicare a qualunque esperienza di museografia spontanea e conoscerne i paradigmi applicabili dalle narrazioni non può fare altro che affermare nuovamente la costante evoluzione dei beni demoetnoantropologici conservati in questi spazi e del loro valore culturale cumulativo e continuativo nel tempo.

Luigi Sicheri, “Na mìgola de museo”, Una briciola di museo, Stenico, Giudicarie esteriori, Trentino. Copyright: Filippo Broll – Museo Pietra Viva.

Luigi Sicheri, “Na mìgola de museo”, Una briciola di museo, Stenico, Giudicarie esteriori, Trentino (ph. Filippo Broll – Museo Pietra Viva)

Per concretizzare queste posizioni teoriche presento un altro esempio sulla scia del primo, indagato con le medesime tecniche: il Museo etnografico “El vout dale arzare dan bòt”, La cantina degli attrezzi di una volta, a Mione, frazione di Rumo, nella Valle di Non, nel Trentino [4]. Aperto nel 2014, il Museo sta vivendo una fase di transizione poiché il collezionista Bruno Caracristi è venuto a mancare nel 2019 ed è ora gestito dal figlio Corrado. L’approccio di Bruno, per come lo racconta Corrado, inizia con la ristrutturazione della casa nel 1990, dove il padre, carabiniere in pensione, ha trovato dei vecchi attrezzi abbandonati dai precedenti proprietari. Bruno era originario di Trento e non della Valle di Non, la provenienza locale degli oggetti per lui non era la motivazione fondamentale legata al collezionismo, per cui solo pochi oggetti salvati dall’oblio successivamente a quelli del nucleo originario fanno parte dell’ambito locale. Bruno ha avuto subito il supporto della comunità che gli ha donato la maggior parte degli oggetti attualmente esposti, tanto da dedicargli uno spazio apposito nella cantina di casa.

La raccolta fatta da Bruno, secondo Corrado, era disordinata e seriale, ma questo non importava al padre poiché il suo interesse ultimo erano le storie che gli oggetti portavano con sé. La performance di Bruno si basava sul prendere uno tra i tanti oggetti che erano accumulati nella cantina e raccontarne la storia, mai riferita alla materialità dell’oggetto, ma magari a chi lo ha regalato e utilizzato o, virtualmente, al ruolo che ha avuto nella gioventù di Bruno. Corrado ha ora riallestito il Museo, togliendo i doppioni e formando piccole sezioni tematiche dedicate ai vecchi mestieri e alla vita di casa. Il riallestimento in questo caso non ha snaturato la raccolta fatta da Bruno, ma anzi l’ha resa più evidente poiché Corrado nel suo percorso di visita racconta alcuni oggetti appositamente selezionati che si riferiscono all’esperienza del padre. Il riallestimento però non è dovuto alla sola necessità di dare un senso nuovo agli oggetti raccolti, ma anche all’intenzione di definirne un secondo, prettamente didattico. Corrado come maestro elementare ha riallestito il Museo a supporto alla sua filosofia didattica in modo da permettergli di spiegare i processi produttivi di alcune materie prime tradizionali (argilla, grano) per poi metterli in pratica con i suoi studenti. La transizione che è avvenuta in questo museo deve ancora concludersi, ma nelle attività di Corrado si può ritrovare un equilibrio tra il suo interesse per i processi e il percorso aperto dal padre. Le nuove e coerenti diramazioni personali non sviliscono l’opera di Bruno, ma la caricano di nuovi significati.

Nei processi appena descritti si trova l’ovvia difficoltà di studio che non deve spaventare. Come detto in conclusione della prima sezione della trattazione, le performance che avvengono in un primo momento in questi spazi potrebbero essere catalogate utilizzando le stesse partiche che si applicano per schedare le tradizioni popolari adattandole alla strana forma che la narrazione popolare prende nell’ambito del museo, ma allo stesso tempo il collezionista, se ancora in vita, dovrà essere interrogato anche sui fronti che difficilmente entrano in quella scheda, e chi studia questi musei avrà poi l’oneroso obbligo di seguirne lo sviluppo nelle loro paradigmatiche fasi successive magari aiutandole proprio grazie alle ricerche effettuate in precedenza.

Facendo così si può iniziare a considerare il museo spontaneo etnografico come l’ultima forma di narrazione nata dalla civiltà contadina e dai suoi figli, solo in parte legittimi. Narrazione popolare che ancora oggi può essere studiata; in alcuni casi ideale o mitica, alle volte orgogliosa e minuziosa, in ogni caso inconsapevolmente consapevole del suo ruolo. Per ora, seguendo questa traccia d’analisi è possibile poter ricostruire o rintracciare queste esperienze conoscitive uniche restituendo la complessità degli oggetti esposti e il loro valore cumulativo fatto da performance e passaggi di gestione. Per chi vorrà perseguirlo non sarà un lavoro da fare a tavolino, ma un’immersione totale nelle vicende degli oggetti e delle collezioni alfine di riscoprire forse il rapporto più stretto e antropologicamente fondamentale tra la vita delle cose e la vita dell’uomo [5]. 

Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024 
Note
[1] Una di queste: “Gli oggetti e la vita; storie di collezionisti veneti” a cura del Museo etnografico delle Dolomiti del 2012.
[2] Questa modalità di studio prende spunto dal seguente documentario: Pennacini Cecilia, Kezich Giovanni, Te lo dò io il museo!,VHS, 28 minuti, San Michele all’Adige, Museo degli Usi e Costumi della Gente Trentina, 1993. Digitalizzato dallo scrivente. Le informazioni delle due interviste presenti dell’articolo provengono dai video realizzati nell’ambito della ricerca di tesi di laurea Broll Filippo, Nuovi appunti di museografia spontanea etnografica trentina: antropologia di un bene culturale immateriale, Trento, Facoltà di Lettere e filosofia – Beni Culturali, Relatore: Paruzzo Valeria, 2023. Tutte le riprese video e il materiale fotografico sono depositate presso lo scrivente e presso il Museo Pietra Viva che detiene l’autorizzazione alla pubblicazione e all’utilizzo del materiale nelle finalità accettate e concordate con i collezionisti.
[3] Luigi Sicheri, Stenico, 16 marzo 2023.
[4] Corrado Caracristi, frazione Mione, Rumo, 25 marzo 2023.
[5] A tale proposito devono essere come minimo nominate le reti museali etnografiche nate e presenti su tutto il territorio nazionale che conoscono e che si prendono cura, con gradi di successo e interesse variabili, di queste collezioni. A titolo d’esempio mi preme citare l’Unità di missione semplice rete etnografica dei piccoli musei ed ecomuseale, della Provincia autonoma di Trento nata dall’esperienza del 1994 “Etnografia trentina in rete” del Museo degli Usi e Costumi della Gente Trentina. Entrambi i percorsi sono stati ideati da Giovanni Kezich, vengono ora seguiti da Antonella Mott e Irene Fratton. Nel caso trentino le collezioni etnografiche e i musei, dal 2022, sono stati riconosciuti come d’interesse culturale e possono accedere non solo all’aiuto scientifico e di catalogazione dato dall’ufficio, ma anche accedere a fondi pubblici per il loro sostentamento (compresi i privati). https://www.provincia.tn.it/Amministrazione/Strutture-organizzative/Umse-rete-etnografica-dei-piccoli-musei-ed-ecomuseale#documenti – Consultato il 26/08/2024 si veda anche https://trasparenza.provincia.tn.it/archivio13_strutture-organizzative_0_9814_22_1.html Consultato il 26/08/2024 
Riferimenti bibliografici 
Arduini Paolo, Giorgio Teruzzi, Fossili, Milano, Arnoldo Mondadori editore Milano., 1986.
Broll Filippo, Nuovi appunti di museografia spontanea etnografica trentina: antropologia di un bene culturale immateriale, Allegato: video dei collezionisti, tesi triennale, Trento, Facoltà di Lettere e filosofia – Beni Culturali, Relatore: Paruzzo Valeria, 2023.
Clemente Pietro, Graffiti di museografia antropologica italiana, Siena, Amministrazione provinciale di Siena, 1996.
Clemente Pietro, Rossi Emanuela, Il terzo principio della museografia. Antropologia, contadini, musei, Roma, Carrocci, 1999.
Goffman Erving, La vita quotidiana come rappresentazione, Bologna, Il Mulino, 1993.
Sepkoski Jr Joseph John, A compendium of fossil marine animal genera, Lawrence, Bulletins of American Paleontology 363, 1-560, 2002.
Kezich Giovanni, Il museo selvaggio. Note per uno studio di antropologia museale, in Antropologia museale (La Ricerca Folklorica, 39), San Zeno Naviglio, Grafo edizioni, 1999: 51-55.
Puccini Sandra, Le “sentinelle” della memoria. Per una tipologia del collezionismo etnografico, in AM: antropologia museale. Rivista quadrimestrale della Società italiana per la museografia e i beni demoetnoantropologici, 2002: 1- 20. Consultato in PDFhttps://dspace.unitus.it/bitstream/2067/127/1/puccini_sentinelle_memoria.pdf in data 02/08/2024
Seppilli Tullio, Sulla questione dei musei etnografici, in Musei territori percorsi, a cura di E. Castelli, D. Laurenzi, Perugia, 2005: 175-183
Turci Mario, La conservazione dell’oggetto in etnografia fra inalterabilità e ripristino. Una questione di leggibilità, ma per chi e per cosa?, in Conservazione e restauro nei musei etnografici lombardi, atti del convegno, a cura di Fabrizio Mersi, Pescarolo, Museo del Lino, 2011. Consultato in PDF https://www.rebel.lombardia.it/wp-content/uploads/2012/12/Mario-Turci1.pdf in data 02/08/2024
Sitografia
ISTAT – https://www.istat.it/it/files/2022/02/REPORT_MUSEI-E-ISTITUZIONI-SIMILARI-IN-ITALIA.pdf – consultato il 2/08/ 2024.
Lattanzi Vito, Padiglione Vincenzo, D’Aureli Marco, Dieci, cento, mille musei delle culture locali, in l’Italia e le sue regioni, Roma, Treccani, 2015 – https://www.treccani.it/enciclopedia/dieci-cento-mille-musei-delle-culture-locali_(L’Italia-e-le-sue-Regioni) – consultato il 2/08/2024.
Videografia
Pennacini Cecilia, Kezich Giovanni, Te lo dò io il museo!, VHS, 28 minuti, San Michele all’Adige, Museo degli Usi e Costumi della Gente Trentina, 1993. 
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Filippo Broll, attualmente iscritto alla laurea magistrale in antropologia culturale ed etnologia all’università di Modena e Reggio Emilia, è laureato in Beni culturali con una tesi sulla museografia spontanea etnografica trentina e le sue prospettive future. Contestualmente alle attività di studio e ricerca indipendente sul territorio è curatore museale del Museo Pietra in Valle del Fersina (TN) e si occupa della cura e divulgazione delle collezioni afferenti al patrimonio demoetnoantropologico e mineralogico locale.

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