di Luigi Lombardo
Viaggiando per il Mediterraneo, fra il 1642 e il 1646, il medico danese Thomas Bartholin, capitò a Malta dove ebbe modo di sperimentare direttamente l’utilità del «bere fresco et annivato», esperienza che mise a frutto in una delle sue opere di carattere scientifico, cioè il De nivis usu medico observationes variae, opera pubblicata nel 1661 e che si inseriva nella disputa, inaugurata a metà del ‘500 dal medico sivigliano Monardes, sui vantaggi o gli svantaggi delle bevande fredde.
Scrive in un passo il famoso medico danese: «A Malta si ottiene lo stesso risultato [di bere fresco]: la neve, trasportata da Siracusa, ha ottenuto tanta utilità al punto che per quello che mi ricordo anche nei mesi invernali essa mi ha confortato più del generoso vino di Siracusa, e per la verità senza la neve i vini sono caldi, in quel clima caldissimo, pur anche nelle idonee cantine della ben munita di recente città di Valletta». Un altro viaggiatore francese, il Thevenot, scrive in occasione di una visita a Malta nel 1655: «Non c’è inverno in questa isola, e non si soffre il caldo, ma si beve à la glace».
I Cavalieri, come tutti i militari, amavano molto bere fresco; non ne potevano fare a meno gli ospedali gestiti dal sacro Ordine. Malta era il cuore del Mediterraneo, in essa confluiva il fior fiore dell’aristocrazia europea raffinata ed esigente. Non sappiamo quando cominciarono a consumarne. Secondo lo studioso francese Planhol l’uso della neve i Cavalieri se lo portarono dietro dall’isola di Rodi, dunque prima del trasferimento a Malta. La neve esportata nell’isola fu un grosso affare per tutti. Ma c’era un problema che rendeva tutto più complicato, per non dire spasmodico: la neve poteva giungere solo per mare. Veniva imbarcata in potenti brigantini, o nelle veloci feluche, o nelle tartane o nelle capienti fragate. Spesso i Cavalieri mettevano a disposizione degli appaltatori maltesi della neve le loro stesse galere. L’imbarco avveniva nei porti di Catania, e la neve proveniva dalle neviere del Principe di Paternò o del vescovo di Catania in società con l’azienda del principe Villafranca; ma anche dal porto di Siracusa, proveniente da Buccheri o da Palazzolo, allorché ad obbligarsi erano i signori della neve degli Iblei. A Buccheri nel 1619 abbiamo notizia di una delle primissime società messe su fra un padrone di neviera del paese e un commerciante di neve di Malta, in cui il primo mette la neve e il secondo la deve «vendiri e smerchiari in ditta ysola di Malta».
Il duca Ferdinand Albrecht, “il Prodigioso”, che compie un viaggio sull’Etna intorno al 1678, così annota a proposito della neve: «Egli procedette a piedi per altre quattordici miglia finché arrivò alla “grutta de la nivi” donde i Maltesi ricavano tutta la loro neve e ghiaccio e la trasportano alle loro galere». Leggendo questo passo un altro viaggiatore tedesco, il Riedesel un secolo dopo deduce che i Cavalieri avessero addirittura in affitto una neviera dell’Etna. Errore che le mie ricerche (di prossima pubblicazione) smentiscono. In Sicilia la raccolta della neve e la sua commercializzazione si praticavano su larga scala e fin da antica data, in quasi tutte le attuali province siciliane: da Palermo a Trapani, da Messina a Catania, Siracusa e Ragusa. Ma i primi documenti che attestano tale attività risalgono alla metà del ‘500.
Per l’area Iblea (precisamente le zone montane delle province di Siracusa e Ragusa), Buccheri, Palazzolo, Chiaramonte, e in parte Buscemi, Ferla, Monterosso e Giarratana, sono i paesi nei quali sono continuate, dalla fine del ‘500 e fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, la raccolta, la conservazione e la commercializzazione della neve. Si trattava di un’attività che consentiva alla cittadinanza di questi centri, disoccupata nei periodi invernali, di integrare il magro reddito, ed ai padroni o affittuari delle neviere di ricavare consistenti guadagni nei mesi estivi, e non solo.
Della neve, divenuta ghiaccio per via di un accurato e sperimentato metodo di trattamento e conservazione (si diceva ammataccatu, dal mataccu o mataffu attrezzo usato per comprimere), si faceva largo uso nel Seicento, quando serviva a ghiacciare acqua e sciroppi di menta o limone, e a lenire le calure estive: da queste premesse nacque l’arte del sorbetto e un po’ più tardi del gelato. Il ghiaccio era un ottimo rimedio in alcune malattie con febbri alte per le quali i medici prescrivevano la cura di lu friddu. Il bere fresco, seppure fra entusiasmi e condanne senza appello, si impose col tempo al punto da divenire un piacevole e ineliminabile bisogno.
Non possiamo non notare preliminarmente che l’uso della neve per rinfrescare le bevande, secondo le modalità d’impiego messe a punto dai Romani, passa direttamente al mondo mediterraneo cristiano, e scarso sembra in questo senso l’apporto arabo, diversamente da quanto sostenuto dai più, che agli Arabi ascrivono tutto, nel campo alimentare specialmente. Le fonti letterarie occidentali cominciano a riparlare di neve e di bere fresco a partire dal secolo XIV in contemporanea colla comparsa dei primi testi di cucina. Fu il medico di Siviglia Niccolò Monardes (1507-1588), che pubblica la sua opera nel 1571, a lanciare decisamente la questione legata all’uso di bere acqua fredda o bevande ghiacciate o semplicemente arrifriscati, annivati, come dicevano i siciliani.
Un altro medico, il bolognese Baldassare Pisanelli, che pubblica nel 1585 il suo Trattato della natura dei cibi, retrodata almeno al 1565 l’uso di bere acqua rinfrescata con neve, illustrando i benefici dell’uso della neve per combattere la peste (il 1575 è l’anno della grande pandemia in Sicilia): «E ben si vede, che nell’isola di Sicilia, ove i caldi sono eccessivi, e l’acque poco fredde, avanti che si introducesse l’uso della neve, ogn’anno ne’ tempi dell’estade moriva gran quantità di persone, di febri pestilentiali, causate da oppilationi fatte nelle prime vene, per la mala digestione causata dal ber caldo, e poi che la neve cominciò adoprarsi, che sono hora circa 20 anni, sono cessate le febbri pestifere, e particolarmente nella città di Messina si è osservato, che ogn’anno adesso ci muoiono mille persone meno di quello che faceva prima dell’uso della Neve, e hora ogni povero artigiano vuole Pane, Vino e Neve».
La neve nelle pratiche alimentari (e nell’immaginario) dunque si affianca da questa data al pane e al vino come “alimento” insostituibile. Da queste date fu una vera esplosione dell’uso di bere fresco e di usare la neve per gelare sciroppi (sorbetti): il bere fresco era moda ormai popolare e diffusa fra tutte le classi sociali, cittadine e rurali. Il piacere del bere fresco viaggiava camuffato da bisogno, per cui si disse che bere freddo giovava alle febbri malariche e pestilenziali (un fondo di verità c’era).
Rosario La Duca afferma che furono gli Spagnoli a esportare l’uso della neve, «che era stato introdotto in Sicilia dagli Spagnoli fin dal 1546, e precisamente da certo Luigi Castelvì, valenziano». Ma è del 1557 la prima notizia sull’uso della neve a Palermo: nel diario dei palermitani Filippo Paruta e Niccolò Palmerino leggiamo che in quest’anno si cominciò a usare «il bevere arrifriscato con neve». Proprio a Palermo fu regolamentata assai presto, nel 1557, la gabella della neve e la sua riscossione: il dazio sulla neve ammontava a un grano a rotolo.
A Siracusa proprio verso la metà del ‘500 fanno la loro comparsa speciali recipienti chiamati refriscaturi. I Siracusani già ai primi del ‘600 conoscevano molto bene anche la cantimplora, vaso di vetro per refrigerare il vino. Sorbetti, gelati, acque e liquori aggiazzati erano da sempre considerati invenzioni tutte italiane: «la vera maniera di fare ogni sorta di acque e liquori alla moda d’Italia» così titolerà un capitolo di una sua monografia sulla cucina un gastronomo francese nel 1692.
E che la gelateria fosse arte siciliana lo prova che solo nel 1683 e ad opera di un giovane profugo siciliano, Procopio Cutelli , sia stato aperto a Parigi un caffè dove si servivano sorbetti gelati. Un documento letterario riconosce alla Sicilia il merito di aver fatto conoscere alla Toscana il gelato nel Settecento e, al contempo, fa giustizia delle balle relative alla trasmissione della gelateria dalla Toscana alla Francia nel XVI secolo in seguito alle nozze di Caterina de’ Medici. La presenza di abili gelatai e sorbettieri, oltre che di maestri dolcieri, è attestata abbondantemente nel Trapanese e a Trapani in particolare. In questa città, per certi versi simile a Siracusa e alla Valletta (città di mare, sedi della piazze militari), nella seconda metà del ‘700 sono attestate le caffetterie: nel 1786 ad es. viene compilato l’inventario della caffetteria di Gaspare Nasta sita nella Strada Della Loggia: vi erano diverse forme di ghiaccio, «quattro di cassati di lanna, due feddi di milone di lanna, due spezzaghiaccio, un lambicco con suo cappello, tre caffettiere e due ciccolatere, un attorratore di caffè, tre crivelli per colare sorbetta, centoquarantotto bicchieri di sorbetta e sedici di rosoli, libre 80 di cioccolatte cioè 50 fina e 30 ordinaria». In questa città s’era formata una vera scuola di mastri dolcieri e gelatai al punto che un cittadino trapanese, trasferitosi a Napoli, tale Ignazio Tarantino, può insegnare a Nicola Dajta (forse un dolciere al servizio alla corte del nobile Girolamo Filangeri di Cutò) «nella sua propria casa e bottega ad operare, a manipolare, comporre tutte quelle sorte di sorbetti, dolci e tutt’altro [...] con dovere oltremodo detto di Tarantino consegnar successivamente a detto di Dajta la ricetta osia la forma scritta … per sua intelligenza e memoria in futuro [...]».
Il viaggiatore Albert Jouvin nel suo viaggio in Italia, Sicilia e Malta (1672), giunto a Catania rimane colpito dalla presenza e dal nome dato ad una barca, al punto di riportarlo in originale nel testo francese: la “Barc’a la Neve”, cioè a varca a nivi, come avrà sentito pronunciare in giro: «Distavamo circa 20 miglia dalla città, verso la quale siamo discesi per imbarcarci; dopo due o tre miglia di cammino abbiamo veduto, vicino ad una torre, il magazzino della neve, che viene portata ogni quindici giorni, in qualsiasi stagione a Malta. Se non fosse così pericoloso imbarcarsi sul brigantino che la trasporta e che qui viene chiamato Barc’a la neve, sarebbe una bella comodità navigare su di esso: infatti stando a Siracusa spesso lo abbiamo visto passare anche quando il tempo ed il vento erano minacciosi per aspettare le galere di Malta».
Come accennato il più antico documento del commercio della neve fra Buccheri e Malta è del 1619. Da questa data i contratti e le obbligazioni si succedono regolarmente. Buccheri con Catania rifornivano di neve l’isola di Malta. Le barche noleggiate dagli appaltatori catanesi di neve partivano dagli scari dell’Ognina, Capo Mulini, dalla Trizza, da Riposto, e dallo stesso porto di Catania. Era un affare senza precedenti e per tutto il sec. XVII e parte del XVIII il vescovo di Catania ne fu monopolista, affiancato e poi sostituito nel sec. XVIII dalla famiglia Alliata. Alla fine del ’600 e subito dopo il terremoto del 1693 il principale appaltatore di neve fu don Diego Pappalardo, che provvedeva a smerciare la neve proveniente dalle grotte dell’Etna, di competenza della Mensa vescovile di Catania o in territorio di Pedara, come dalle neviere di Buccheri.
Nel 1689 egli ottiene dal Vescovo di Catania l’appalto della fornitura per l’isola di Malta per tre anni continui, come si legge nella obbligazione, al prezzo della gabella di onze 250 l’anno. I bordonari del Vescovo dovevano consegnare al Pappalardo la neve nei riposti di Ognina, Capo Mulini, e al porto di Catania. Il contratto parlava chiaro: la neve aggiudicata per l’appalto al Pappalardo doveva servire esclusivamente al rifornimento di Malta.
L’esportazione di neve per Malta era garantita anche dal principe Alliata in società coi commercianti di Buccheri. La principessa Marianna Alliata ne aveva tratto benefici e prebende dall’Ordine dei Cavalieri: dallo scaro di Ognina di Catania partivano le “barche” per Malta ed uno scrivano ne segnava i carichi: «Catania dallo scaro d’Ognina oggi 14 settembre 1759: si certifica per me qui sottoscritto come scrivano designato nello scaro dell’Ognina quando si caricano di neve le fragate, brigantini e felughe per uso e servizio dell’isola di Malta eletto e designato dall’appaltatori di essa neve della medesima isola qualmente avendo osservato li libri ove soglio notare tutti quelli carichi di neve che si caricano in detti (…) dal primo settembre 1758 sino al trascorso mese di Agosto 1759 si trovò essersi caricati novimila trecento settanta setti carichi di neve venuti e portati da bordonari diversi con pampina, seu foglia per conservazione della ridetta neve. Io sacerdote don Andrea Grasso». Poiché in media un carico era di 120 kg, la quantità esportata equivale all’incirca a 1.100 tonnellate in un anno!
Gli Alliata furono veramente i “Signori della neve” a Buccheri come in tutta la Sicilia. Essi tenevano un florido commercio sia della neve «inchiusa nella Muntagna» (l’Etna), che della neve di Buccheri compensando ora con una ora con l’altra le eventuali carenze che si verificassero. Fu in particolare la principessa donna Marianna Alliata Di Giovanni, sposa e poi vedova di don Giuseppe Alliata, a voler perfezionare questa florida attività. La stessa Marianna, che soggiornò spesso a Buccheri come sua feudataria, in uno di queste frequenti soste, nell’estate del 1726 ricevuta la notizia che «nell’isola di Malta gli era mancata la neve senza aspettare richiesta mandò a Malta a detto Gran Maestro alcune barche con molta neve con profferirgliene quante ne aveva e seguitandone sempre a mandargliene per regalo avendo ella il comando delle fosse nelle sopradette terre e castelli di suo dominio [Trecastagni, Pedara, Viagrande e Buccheri]». La generosità disinteressata della Principessa fu lautamente ricompensata. Ella fu insignita tra l’altro della Gran Croce dell’Ordine di Malta.
Il 27 Agosto 1743 il sacerdote don Pasquale Lombardo, nobile e abile vicario foraneo di Palazzolo, contrae una importante obbligazione: in essa si impegna a fornire all’isola dei Cavalieri ben 4000 carichi di neve (circa 560 tonnellate), dalle sue tre neviere esistenti nelle contrade del Giardinello, Santa Maria di Gesù e di San Paolo. Del trasporto si occupava un commerciante di Modica che avrebbe dovuto consegnarla ai maltesi Michele Borg, Francesco Morreal e Filippo Leone appaltatori della neve di Malta.
La neve per il trasporto su nave veniva opportunamente “trattata”: coibentata con paglia dentro sacchi di lona o cannavazzu, riposta in casse di zappinu e accatastata nelle stive, ermeticamente chiuse. Ma prima di essere imbarcata, la neve sostava nei “riposti” dei porti, come a Siracusa, dove essi si chiamavano anche nivere. Dette neviere erano costruite in luoghi particolari, lontane dal caldo, in genere sotto le abitazioni, o meglio ancora sotto i “dammusi”. Nel 1722 si pensò dai venditori di neve di rinnovare tali neviere di città: l’obbligo era quello di costruirle nella «forma che sono in Malta … et introdotta però [che] sarà [...] e ammataccata nella stessa qualità modo e forma che si conserva in dette niviere di Malta, vendere detta neve a grana 4 il rotolo di once 30 (…) fu per detto senato accettata detta offerta, per essere migliore di quella di don Mario Troja».
Non sempre il rifornimento all’isola era possibile, date le severe leggi sanitarie: così quando nel 1754 la tartana di padron Gaspare Signorello di Malta si presentò nel porto di Siracusa con gli ordini reali di imbarcare neve per l’ospedale di Malta, il Senato lo respinse senza obbedire alle disposizioni del Re di provvedere sempre al rifornimento di neve per l’isola cara ai Regnanti. Dopo poco tuttavia il viceré perentorio ordinava di caricare la neve e di permettere la partenza.
Il nostro viaggio della neve nelle acque del canale di Sicilia ci porta ad unire le due isole nel nome degli interessi commerciali e delle specialità gastronomiche, perché le une e le altre viaggiavano concomitanti e interagenti. Come interagenti devono essere le politiche dell’immigrazione, oggi in cui un flusso inarrestabile dal Sud del mondo ci dice che ancora una volta il Mediterraneo è la chiave di volta nella storia europea e mondiale.
Dialoghi Mediterranei, n. 8, luglio 2014
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Luigi Lombardo, già direttore della Biblioteca comunale di Buccheri (SR), ha insegnato nella Facoltà di Scienze della Formazione presso l’Università di Catania. Nel 1971 ha collaborato alla nascita della Casa Museo, dove, dopo la morte di A. Uccello, ha organizzato diverse mostre etnografiche. Alterna la ricerca storico-archivistica a quella etno-antropologica con particolare riferimento alle tradizioni popolari dell’area iblea. Le sue ultime ricerche sono orientate verso lo studio delle culture alimentari mediterranee.
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