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Immaginari sincretici: l’Antropologia come scelta fra progresso e conflitto

Medioriente (ph. Eugenio Grosso)

Medioriente (ph. Eugenio Grosso)

di Giuseppe Sorce 

Possiamo considerare finalmente scoppiata la bolla di pace in cui l’Occidente europeo ha sonnecchiato negli ultimi settant’anni. L’egemonia statunitense vive ormai una fase di decadimento e i disastri causati dal cambiamento climatico sono ormai una nota costante anche nella nostra penisola.

Il nostro mondo non è quello che i nostri genitori negli anni ‘90 ci avevano detto sarebbe stato. Il nostro immaginario non è ovviamente neppure il loro, quello splendido e sbarazzino degli anni ’80 e forse bisognerebbe fare un passo indietro di almeno tre/quattro generazioni per rendere utile un qualche tipo di comparazione in termini di “sentire del tempo”. Il post-storicismo nel quale ci siamo culturalmente adagiati, non per colpa nostra, beninteso, non ci dà più risposte sulle cose.

Fabio Dei [1], a ragione, trova in Dialoghi Mediterranei ormai l’ultimo avamposto di una critica sincera, diretta, organica sul rapporto fra antropologia e mondo contemporaneo. Scevra dalle sterili catene dell’accademia, che a forza di imbrigliare la scrittura ne impoveriscono la freschezza di idee, in Dialoghi da anni vive un dibattito acceso e molteplice, denso e plurale. E proprio in seno a questa vivacità che l’antropologo italiano si chiede se e come sia possibile oggi un dibattito antropologico sul progresso. Questione senz’altro urgente per molteplici ragioni, una su tutte proprio quanto detto prima: l’idea di mondo che ci siamo fatti nell’Europa occidentale dal dopoguerra a oggi non funziona più. Molti scambiano questa normale crisi epistemologica ed ermeneutica (noi no, non parliamo dell’essere), crisi come tante ce ne sono state, per un momento di smarrimento totale, un punto di non ritorno, la perdita di un mondo, appunto, che invece era nostro, immaginato su misura, pensato proprio a nostra immagine e somiglianza.

Il tema è ovviamente molto complesso e porta con sé svariate considerazioni da fare, sia nell’ambito delle scienze umane che in quelle cosiddette dure. L’idea di progresso coinvolge in realtà la quasi totalità della nostra narrazione identitaria rispetto all’alterità fuori dall’Europa occidentale. E con questo si intende banalmente anche quella Europa che vediamo dalla finestra: i Balcani per esempio, per non parlare ovviamente del Nord Africa, il Medioriente, l’Europa centrale. In questi confronti continui, in questi rimandi e posizionamenti che ovviamente non sono, per niente, realmente geografici ma culturali, l’idea di progresso è la molla principale che fa scattare le demarcazioni, seppur, come ricorda Dei, abbiamo imparato, giustamente, a non stabilire il grado di civiltà, di sviluppo appunto, di progresso, come metro di paragone. Prima di tutto perché è razzistico stabilirlo, poi perché è etnocentrico e quindi fallace, errato dal punto di vista del ragionamento scientifico. Eppure, lo stesso Dei ci e si chiede se un dibattito non può crearsi in seno all’idea di progresso, riguardo a un eventuale criterio per stabilire cosa è qualità della vita e cosa no e in che misura un uomo “standard” (un soggetto a-storico e a-geografico) sceglierebbe un tipo di società piuttosto che un’altra.

È sempre stato un terreno scivoloso questo per l’antropologia, come lo stesso Dei ci ricorda, e non solo. Positivismo, illuminismo, primitivismo, ecologia e così via, tante correnti di pensiero che troppe volte hanno influenzato negativamente alcune ideologie. Ma anche qui, siamo costretti comunque a ricorrere a un giudizio morale, e nonostante ciò ci appare chiaro come certi vantaggi del “progresso” occidentale farebbero comodo a tutti (uno fra tutti quello nel campo della medicina). D’altronde, il solo ammettere questo fatto potrebbe rischiarci un’accusa di etnocentrismo o esclusivismo culturale. In breve: fare un discorso perfettamente oggettivo e a-morale, è impossibile.

Child Playing on Dry Parched Desert LandÈ impossibile perché la conoscenza, di qualsiasi forma, non sarà mai perfettamente oggettiva (come le stesse scienze dure e sperimentali hanno dimostrato), ed è impossibile perché l’essere umano non funziona come un computer. Se c’è una lezione che l’antropologia ha dato all’umanità è proprio che non c’è essere umano senza cultura. Questo implica quindi l’impossibilità di pensare e di pensarsi al di fuori di qualsiasi narrazione. Morale, etica, filosofica, scientifica, teologica, materialistica, marxista, neoliberista che sia, non ci si può pensare al di fuori di qualsiasi narrazione. Non esiste una dimensione a-culturale in cui l’essere umano può pensarsi e pensare [2]. Ed è a questa banale riflessione a cui voglio seguitare con un un’ipotesi a proposito del quesito di Dei? In realtà, la mia risposta agli interrogativi di Dei prende spunto proprio dall’auspicio di Dei quando parla di “antropologia militante”. Ed è, quello che segue, anch’esso un tema che è emerso in questi mesi su Dialoghi e che continua ad abitarmi: la scelta.

Come detto in precedenza, la bolla di pace e prosperità è finita, il cambiamento climatico ci sta solo mostrando il prequel di ciò che succederà, l’Antropocene ha rivoltato l’immaginario, le narrazioni e i linguaggi, i climi politici dell’Occidente si sono tutti polarizzati mettendoci di fronte una possibile deriva autoritaria diffusa, guerre vecchie e nuove hanno prepotentemente messo in discussione la sottile linea che separa sopravvivenza e diritti umani, “noi” e “loro”, geopolitica e solidarietà. Per cui, come poter costruire oggi un discorso antropologico serio sul tema del progresso? Si deve scegliere. Tutto qui. Non ci tocca che scegliere.

Diventare militanti quindi, non in senso intellettualoide ma in senso pragmatico: il pensiero che sceglie. Il pensiero cioè che verifica, valuta e produce idee. Siamo sufficientemente sull’orlo di una crisi climatica e militare globale da poter pensare da che parte vogliamo stare qualora un conflitto, di qualsiasi forma e dimensione, ci venga a bussare direttamente alla porta. E non si deve per forza vedere nella parola conflitto una guerra atomica, un conflitto può anche avere la forma di una serie di sommosse urbane per l’accesso all’acqua (sta già succedendo in altre parti del mondo, ma è solo un esempio).

Portopalo (ph. Eugenio Grosso)

Portopalo (ph. Eugenio Grosso)

Non si tratta più soltanto di dissertare fra primitivismo e neoliberismo, né di speculare sul grado palese di etnocentrismo che contiene una frase del tipo “non vorrei trovarmi governato dai Talebani o da Putin, che invece godono di consenso nei rispettivi Paesi”. E questo è il frutto del relativismo a cui l’Antropologia, ma anche la Storia, ci ha abituato a pensare: ci sono popoli che hanno sistemi di valori diversi, culture diverse, che riconoscono la democrazia come “coloniale” e la rifiutano. Esistono culture che funzionano con un sistema castale, oppure il cui sistema sociale si articola in clan. Ci sono popoli che non concepiscono il concetto illuminista di individuo, come del resto non c’è dittatura senza consenso di una parte della popolazione.

È proprio la scelta, la capacità di giudizio guidato dagli strumenti analitici e interpretativi che l’Antropologia ci ha aiutato a costruire, che rende l’antropologia militante. Sviluppare quindi un dibattito antropologico sul progresso è possibile a patto che si scelga. Il vantaggio di un dibattito del genere è, di nuovo, tutto narrativo. Rubando le parole allo stesso Dei, l’idea che un mondo migliore è possibile funziona, perché ci dà speranza. Basta solo iniziare a pensare il mondo migliore possibile attraverso ciò che l’Antropologia come complesso di saperi ci aiuta a scegliere come migliore per noi come comunità possibile e per noi come comunità possibile nel dopo. Perché no, è inutile pensare all’umanità. L’afflato ecumenico, quello sì che è tutto occidentale, che è etnocentrico, esclusivista, razzista, paternalista e patriarcale. Insomma l’auspicio da me declinato è che l’antropologia possa diventare un po’ più letteratura, capace cioè di produrre nuovi immaginari sincretici a partire dalla conoscenza sulle diversità culturali. Che l’Antropologia, così come il pensiero geografico delle origini, possa inventare un nuovo mondo mentre cerca di spiegarlo. 

Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024 
Note
[1] Antropologia e progresso in “Dialoghi Mediterranei”, n. 69, settembre 2024: 45-52
[2] Gli unici casi di enfant savage documentati sono quelli appunto documentati: questo significa narrati, studiati, osservati con occhi e orecchie e pensiero del tempo in cui sono stati osservati, studiati e raccontati. Le cose “esistono” per noi nel momento in cui le percepiamo, poi toccherebbe verificarle in qualche modo, e la percezione e l’eventuale verifica sono tutti fatti umani o codificati da umani per umani. Poi possiamo anche credere a qualsiasi forma di assoluto, di mondo di idee, di karma ecc. ma restano credenze appunto. 

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Giuseppe Sorce, laureato in lettere moderne all’Università di Palermo, ha discusso una tesi in antropologia culturale (dir. M. Meschiari) dal titolo A new kind of “we”, un tentativo di analisi antropologica del rapporto uomo-tecnologia e le sue implicazioni nella percezione, nella comunicazione, nella narrazione del sé e nella costruzione dell’identità. Ha conseguito la laurea magistrale in Italianistica e scienze linguistiche presso l’Università di Bologna con una tesi su “Pensare il luogo e immaginare lo spazio. Terra, cibernetica e geografia”, relatore prof.  Franco Farinelli.

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