Sicilia-immigrati. Un binomio che oggi riporta alla mente un’immagine drammaticamente univoca: quella di barconi ricolmi di donne, uomini e bambini di ogni età con il volto misto di speranza e terrore di chi parte per sfuggire alla guerra, alla fame, alla sete e ad una vita sociale, politica ed economica che non lascia spazio a speranze o progetti. Individui di cui non conosciamo i nomi, ma che abbiamo imparato, forse come bisogno rituale per renderci autoimmuni all’indifferenza di chi soffre, a definire e ad evocare per categorie: clandestini, naufraghi, rifugiati, profughi, immigrati irregolari, stranieri.
Prima delle due guerre mondiali del XX secolo, la presenza di africani in Europa era numericamente poco influente. Dalla seconda metà degli anni ’80 si assiste ad un processo inverso, che vede un forte aumento di migranti africani verso l’Europa occidentale, un fenomeno interpretato nei termini di new phase in the history of African diaspora (Zeleza 2007). Il punto di transizione, almeno per quanto riguarda l’Italia, viene individuato nel 1973, anno in cui per la prima volta il numero di ingressi in Italia supera quello degli espatri (Sacchi-Viazzo 2003). Come sottolineato da Enrico Pugliese (2006), l’Italia assume in quegli anni «un valore simbolico particolare per l’intera vicenda migratoria europea». Nell’ultimo trentennio la Sicilia è stata, e continua ad essere, terra protagonista nella vicenda migratoria, crocevia e luogo di transito di migranti provenienti dai Paesi africani, asiatici e del Medio Oriente.
Molto si è discusso, in ambito antropologico e sociologico (Ambrosini 2011, Cesareo 2015, Dal Lago 1996, 1998, 1999, Perna 2015, Ribas-Mateos 2004, Wimmer 1997), sulle dinamiche della migrazione nell’area mediterranea e sulla presenza di inadeguate misure politiche da parte delle autorità nazionali ed europee nell’affrontare l’emergenza umanitaria degli sbarchi. Al centro del dibattito è stata, e continua ad essere, la questione dell’integrazione come «fenomeno strutturale» (Berti-Valzania, 2010), l’incontro possibile o meno tra culture e identità socio-culturali poste in una dimensione di diversità etnica e politica.
«[…] grazie ai meccanismi sociali di etichettamento e di esclusione impliciti ed espliciti, l’umanità viene divisa tra persone-non persone» (Dal Lago, 1996).
L’identità vulnerabile dell’immigrato nei termini di nonperson, sarebbe il prodotto dei meccanismi alienanti delle società di accoglienza, che lo renderebbe un soggetto passibile di uscire dalla condizione di persona, ovvero avente diritti. La contrapposizione dicotomica tra person–nonperson focalizza l’attenzione sul processo disumanizzante delle misure politiche attuate per frenare il flusso senza fine di anime da una costa all’altra del Mediterraneo. Ed ecco quindi contrapporsi al binomio iniziale un secondo: sicurezza e integrazione. Due volti della stessa medaglia politica europea dell’ultimo trentennio. Desiderio di instaurare una relazione tra Noi e gli Altri e nello stesso tempo l’attuazione di misure restrittive e di difesa. Avanza in questo modo il paradosso della postmodernità: da un lato il bisogno di controllo, di allarmismi, dall’altro l’impulso alla solidarietà, alla promiscuità.
Secondo Bauman (2004) questo processo sarebbe il prodotto di un’autolegittimazione dello Stato, incapace di fondarsi sulla definizione di criteri protezionistici a lungo termine. All’interno di questo scenario, ecco che gli immigrati costituiscono gli scarti umani della nostra contemporaneità, la valvola di sfogo dell’ansia e dell’incapacità di esercitare la propria autorità da parte dello Stato.
Da un punto di vista culturale, causa anche la tendenza etnocentrica delle analisi che hanno introdotto il concetto di multiculturalismo e intercultura, gli immigrati vengono dipinti come rappresentanti di un cultural dope [1] ovvero espressione di una cultura d’origine. Come scrive Appadurai (1996),
«appena le forze innovative provenienti da diverse metropoli sono portate all’interno di nuove società, esse tendono, in un modo o nell’altro, a subire un processo di indigenizzazione: questo è vero della musica come degli stili abitativi, dei procedimenti scientifici come del terrorismo, degli spettacoli come delle norme costituzionali. In poche parole le singole culture possono riprodursi o ricostruire la loro specificità sottoponendo le forme culturali transnazionali ad un processo di indigenizzazione».
Conseguenza diretta di questo meccanismo intellettuale è la produzione di uno stereotipo, l’immigrato, che confluisce in qualsiasi tipo di discorso sul fenomeno migratorio e sugli aspetti ad esso associati, quali ad esempio la religione. I comportamenti dell’alterità, di qualsiasi natura essi siano, vengono ad essere interpretati partendo dalla propria cornice di significato, corroborando un fraintendimento culturale che accompagna come un macigno l’immagine degli immigrati nella società di accoglienza, Ma la dinamica interculturale della contemporaneità è assai più complessa di queste semplificazioni riduzionistiche.
È importante interrogare la trama dell’immigrazione, inserirla in una cornice di senso più ampia, considerare le reti transnazionali degli immigrati, i network e i legami fiduciari coinvolti nella costruzione delle dinamiche migratorie e incorporate nella violenza strutturale delle stesse. Ma non solo.
Da antropologa, nell’esperienze di ricerca sul campo all’interno del C.I.E “Enrico Mattei” di Bologna, cosi come nell’analisi sulla relazione tra religione e processi di migrazione attraverso il caso specifico di una Chiesa Aladura in Italia, la Celestial Church of Christ [2], sono sempre partita da alcuni interrogativi : quale la prospettiva dell’indagine? Quale l’approccio all’alterità?
Se si assume la posizione di Sayad (2004), secondo cui i fenomeni migratori svolgono una funzione specchio, perché rivelano la natura della società d’accoglienza, il confronto con l’alterità non potrà essere un processo semplice o scontato, perché l’altro mi interroga attraverso la sua storia, i suoi percorsi di vita, le sue scelte, la sua sofferenza. È più facile “definire”, perché di per sé ciò che è de-finito, semanticamente parlando, è dominato, circoscritto, attraverso un processo culturale. Qualsiasi azione di natura politica, culturale e sociale nei confronti dell’alterità e del fenomeno migratorio o di integrazione che dir si voglia, deve necessariamente partire da un’autoriflessione critica e da una messa in discussione di processi di natura etnocentrica che hanno sempre stigmatizzato gli immigrati e gli stranieri. Se è vero che la cultura è un processo in fieri, una pratica che gli uomini “fanno” e non un semplice bagaglio di tradizioni che ci si porta appresso, allora è necessario porre l’alterità in una dimensione attiva e non passiva, soggetto pensante che conosce e interroga, e non meramente oggetto ricettore passivo di misure politiche. In poche parole bisogna considerare gli immigrati come attori sociali, individui che tentano, attraverso un viaggio, di ricollocare le proprie radici, i luoghi pensati per trovare una definizione di sé, la storia condivisa, quell’insieme di riferimenti culturali associati alla propria terra, ai processi politici ed economici attraverso cui ne emerge il senso per chi la abita.
Allora da dove iniziare? Come fare in modo che queste riflessioni non muoiano sulla carta e prenda forma quella rivoluzione culturale che deve necessariamente partire da un cambiamento di prospettiva nei confronti dell’alterità e quindi di noi stessi?
Uprooted, Anime migranti, sono i nomi di alcuni progetti interculturali organizzati nella città di Siracusa dall’Intercultural Studies Center, un’organizzazione non profit impegnata da tempo sul territorio siciliano nella promozione del dialogo interreligioso e delle politiche dell’accoglienza.
«..Per una vera integrazione è necessario che ognuno preservi la propria identità e la possa mettere in campo alla pari di tutte le altre. Solo così si avvia il dialogo e se ne esce arricchiti!»
Così il direttore dell’Intercultural Studies Center (ISC), Ramzi Harrabi, commenta il senso di queste iniziative. L’integrazione è innanzitutto una ‘pratica culturale’ e non un modello verticistico top down, che può essere imposto dall’alto verso il basso. E soprattutto non può essere considerato semplicemente una questione di welfare vestita di buonismo. L’integrazione va alimentata attraverso il culto del bello, attraverso la riconsegna di valore alle produzioni di senso dell’alterità.
La mostra dal titolo Uprooted si è svolta nel mese di luglio all’interno dei locali di una chiesa medioevale in Ortigia. Elizabeth Atkinson (nata a Wigan, Regno Unito, ma abitante a Siracusa), Ramzi Harrabi e Salvatore Accola, tre artisti che, pur provenendo da luoghi geografici diversi, sono accomunati da un sentire comune, l’esperienza degli “sradicati”, ovvero di coloro la cui identità ruota attorno a due tipi di esperienze culturali ed esistenziali: da un lato, quella di chi ha deciso, per motivi diversi e in modi diversi, di lasciare la propria terra ma non per questo di vivere senza radici; dall’altra quella di chi abita e vive in una comunità cittadina che sente propria ma che la stessa fa fatica a riconoscere e ad accogliere. Lo scopo principale dell’iniziativa, molto apprezzata dalla popolazione locale e dall’amministrazione comunale, non è stata tanto quella di denunciare quanto di comunicare la bellezza di una città, Siracusa, attraverso persone che portano nel loro vissuto il vissuto di una immigrazione, che si traduce oggi in termini di valore aggiunto per il tessuto culturale, sociale e umano del territorio.
Il progetto Anime migranti, attualmente in corso, si colloca sulla stessa linea politica e culturale di Uprooted. Lo scopo è quello di sensibilizzare la comunità cittadina e i turisti di passaggio sul dramma delle vite spezzate, di chi non potrà mai raccontare la traversata nel Mediterraneo, e nello stesso tempo rendere loro omaggio attraverso un recupero storico della memoria del viaggio. Nei pressi di Porta Marina, punto nevralgico di Ortigia, è stato infatti allestito una sorta di museo dell’immigrazione attraverso gli oggetti personali recuperati tra i resti dei barconi approdati sulle coste di Pozzallo, Portopalo di Capo Passero, Siracusa : ago e filo, segno della volontà di chi desidera condurre una vita decorosa [3], di chi probabilmente tenta, partendo da un viaggio, di ricucire i pezzi della propria vita, le relazioni amicali, familiari interrotte da altre partenze e che finalmente potranno essere recuperate. Cibo, giornali locali, il Corano, oggetti ordinari attraverso cui rendere domestico il viaggio che probabilmente si è consapevoli essere rischioso per se stessi e per i propri cari, ma necessario perché rappresenta quello stato liminale da attraversare non tanto per iniziare una vita nuova, quanto, per molti iniziare a vivere.
Potrebbe risultare utile allora applicare una prospettiva metodologica che metta in relazione la dimensione storica, emica della migrazione con l’influenza esercitata dalle pressioni politiche e sociali di uno Stato, il tutto però letto attraverso l’agency individuale che ne negozia i contenuti. In questo modo sarà possibile sfaldare il «mito dell’immigrazione» (Liberti, 2002) e rivestire di umanità e diritti il nonperson.
Dialoghi Mediterranei, n.15, settembre 2015
Note
[1] Intervista ad A. Dal Lago, L’immigrazione e le sue retoriche: intervista ad Alessandro Dal Lago, (www.minimaetmoralia.it)
[2] La Celestial Church of Christ (CCCW) è una chiesa africana indipendente, che insieme alla ‘Christ Apostolic Church (CAC), Cherubim&Seraphim Church e alla Church of Lord Aladura rappresenta il cristianesimo Aladura, una forma di sincretismo religioso tra forme ancestrali e cosmologiche locali dei gruppi yoruba (sud-ovest della Nigeria) e cristianesimo. Nei testi della letteratura specializzata le AladuraChurches sono definite “Praying churches”, “Prophet Healing Churches”e “Spiritual Churches” (Peel1968; Anderson 2001; Ranger 1987). Queste definizioni si riferiscono alla tensione continua alla preghiera e il potere ad essa associato che caratterizza non solo le chiese Aladura, ma molte chiese africane indipendenti (Akinade 1997). Il nome stesso “Aladura” deriva da Al-adua, che in lingua yoruba significa “persone oranti”. Nella mia dissertazione di dottorato spiego i meccanismi di “plantingchuches”(Koning, 2009) della CCCW, mettendo in relazione migrazione, religione e spazi urbani. (Ida Vasta, Celestial Chruch of Christ in Italia. Percorsi, Spazi e Pratiche rituali, Phd Università Alma Mater Studiorum Bologna, 2013.
[3] Intervista del 21 Luglio 2015 con Ramzi Harrabi, artista tunisino ed esperto di comunicazione e mediazione interculturale che da anni opera sul territorio di Siracusa e provincia per la tutela dei diritti degli immigrati.
Riferimenti bibliografici
Ambrosini M. (2011), Sociologia delle migrazioni, il Mulino, Bologna.
Appadurai A. (2001), Modernityat Large. Cultural Dimensions of Globalization, Minneapolis London, University of Minnesota Press.
Bauman Z. (1999), La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna.
- (2005), Vite di scarto, Laterza Editore, Roma.
Berti F.- Valzania A. (2010), (a cura di ) Le nuove frontiere dell’integrazione, Angeli editore, Milano.
Cesareo V. (2015), La sfida delle migrazioni, Vita e Pensiero, Milano.
Dal Lago A. (2004), Non persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, Feltrinelli, Milano.
Liberti S. (2002), Immigrati: il mito dell’immigrazione secondo AbdelmalekSayad, in “Lo Straniero. Arte-Cultura-Scienza-Società ”(www.lostraniero.net/archivio-2002/83-novembre-n-29/603/).
Perna R. (2015), L’immigrazione in Italia. Dinamiche e trasformazioni in tempo di crisi, in “Politiche Sociali”, a. 2, n. 1.
Pugliese E. (2006), L’Italia tra migrazioni internazionali e migrazioni interne, il Mulino, Bologna.
Ribas-Mateos N. (2004), How can we understand immigration in Southern Europe?, in “Journal of Ethnic and Migration Studies”, 30(6): 1045-1063.
Sayad A. (2004), The Suffering of the immigrant, Polity Press, Cambridge.
-(2006) L’immigration ou les paradoxes de l’alteritè, Editions Raison d’Agir, Paris.
Sacchi P.- Viazzo P., (2003), (a cura di), Più di un Sud. Studi antropologici sull’immigrazione a Torino, Angeli editore, Milano.
Vasta I. (2013), Celestial Church of Christ in Italy: Percorsi, Spazi e Pratiche Rituali, Phd Thesis, Università Alma Mater Studiorum, Bologna.
Wimmer A. (1997), Explaining xenophobia and racism: A critical review of current research approaches, in “Ethnic and Racial Studies”, vol. 20, 1, 1997, 17-41.
Zeleza PT (2007) African Diaspora and academics: The struggle for a global epistemic presence, in Zeleza Pt (ed) The Study of Africa Codesria.
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Ida Vasta, è direttore del Dipartimento di Scienze Antropologiche e Sociali del Centro Chirone-Centro Formazione Studi e Ricerche Neuropedagogiche ad Orientamento Gestaltico (Siracusa). Dottore di ricerca in Storia: Scienze Sociali e Studi Storici sulle religioni, svolge attività di progettazione, monitoraggio e valutazione delle competenze nell’ambito della formazione professionale continua. Ha collaborato a ricerche coordinate a livello nazionale da diverse università sui temi delle religioni degli immigrati. È autrice di numerose pubblicazioni, tra le quali si segnalano: Il Corpo. Riflessioni antropologiche (2015); Celestial Church of Christ in Italy. Migration, Space and Ritual Practice (Phd Thesis. Scholar’s Press.Germany, in corso di stampa).
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