di Pier Luigi Josè Mannella
In diversi rilevamenti effettuati in Sicilia e dedicati alle ritualità curative d’ambito folklorico, sono state individuate pratiche simboliche spesso fuse a operazioni e metodi empirici, alcuni di ascendenza tradizionale, altri edotti e diffusi dalla medicina ufficiale. I guaritori popolari, tra quelli che recitano formule verbali e adottano schemi analogici a fini terapeutici, operano anche mediante l’impiego di specifiche piante da loro sperimentate come efficaci. Le due sfere, la simbolica e l’empirica, convivono all’interno della medesima procedura farmaceutica al punto da determinare uno degli aspetti più distintivi della medicina tradizionale rispetto alla biomedicina.
La loro coesistenza, tuttavia, non sempre proviene da ambiti folklorici e può avere anche derivazione colta, come dimostrano gli ephesia grammata o le pratiche rituali che appaiono tra le ricette dei medici Marcello di Bordeaux, Pietro d’Abano o di quelli salernitani. Questi testi prescrittivi vengono divulgati in Sicilia nel Medioevo a opera di viaggiatori, monaci ed eruditi del calibro di Arnaldo Villanova [1]. Nella medicina occidentale, che ha accolto parte del patrimonio tradizionale, gli elementi metaempirici si sono protratti almeno fino al secolo dei Lumi.
Nell’etnoiatria, d’altra parte, si è assistito a un fenomeno di aggregazione storico-culturale dei saperi, a una selezione non sempre consapevole degli elementi che per diversi motivi dovevano conservarsi, all’abbandono di altri, alla creazione o all’acquisizione di nuovi “ritrovati” ritenuti degni di essere tramandati, fondamentalmente perché sperimentati come efficaci: un processo selettivo-cumulativo per certi versi analogo a quanto ha portato alla produzione scritta dei suddetti ricettari terapeutici che, alle conoscenze delle proprietà salutifere di alcune piante, uniscono a volte gesti, atti e parole di ordine esoterico e teosofico. A questo proposito, Mariella Pandolfi parla in termini di «circolazione culturale e interpenetrazione fra i diversi sistemi medici» (1989).
La diffusione, in ambito folklorico, dei riti botanici di trasferimento dell’infermità dal malato alla pianta (transplantatio morbi, cfr. Di Nola 1983) o di quelli di raccolta e celebrazione del vegetale da impiegare a scopo medico (precatio herbae, cfr. Mannella 2015), conferma quest’antica commistione tra postulati sacrali e implicazioni empiriche, in età storiche in cui i due approcci erano integrati all’interno del medesimo sistema medico.
Se l’uso degli elementi culturali, per la cura delle malattie, rimanda a un ambito simbolico-cerimoniale [2], non così chiaramente possono essere lette certe terapie che sfruttano principi attivi di piante e animali, tuttora in uso anche presso medici professionisti. Nel caso delle verminosi, ad esempio, l’aglio, riconosciuto quale portentoso vermifugo anche dalla biomedicina, è impiegato dalla medicina tradizionale contro le gastropatie in concomitanza alla recitazione di formule sanatorie, a segni e atti metaforici (cfr. Mannella 2015).
Molte volte, accanto a “false credenze”, “errori”, “superstizioni” (come sono stati definiti in età moderna da studiosi d’impostazione detrattiva etno- e socio-centrica, preoccupati il più delle volte di sottolineare la loro distanza da questa “arretratezza culturale” che pure docu- mentano), sono state raccolte testimonianze nate dalla sperimentata attribuzione di efficacia a specie vegetali e terapie che sfruttano le loro proprietà curative, ipotensive, emollienti, eccitanti, antiossidanti, antinfiammatorie ecc. Questi presidi terapeutici nascono soprattutto dall’uso lessato, stracciato, masticato, affumicato, crudo, cotto ecc. di alcune piante ritenute portentose o comunque idonee a contrastare determinati malesseri (validos venefica sucos, in contrapposizione allesine viribus herbas, Ov. Met. VII, 316, 327). La lavorazione si compie al fine di attivare e potenziare le virtù e gli effetti sanatori del vegetale. Molte piante autoctone, “lavorate” non sempre in maniera complessa e articolata, si adoperano nella quotidianità di fronte a emicrania, febbre, ittero o altro, ed erano già note in età pre-cerealicola: solitamente, infatti, sono specie spontanee.
I medicamina popolari provengono, principalmente, dal trattamento di piante per l’acquisizione delle quali potrebbero occorrere indicazioni e interdizioni prescrittive (raccolte con la mano sinistra, con o senza “ferro” ecc.), gesti convenzionali (calpestamento della terra, segno di croce ecc.) o recitazione di formule propiziatorie e cautelative (precatio herbae) che risalgono a periodi storici in cui prevaleva il timore nei confronti del cosiddetto “vuoto vegetale”; paura che portava all’elaborazione di atti precauzionali e allegorici, formule impetratorie e celebrative, espressioni eufemistico-reverenziali che disciplinavano il rapporto uomo/pianta e tentavano di vanificare la minaccia determinata dall’atto, altrimenti “illecito”, della raccolta.
Diverse specie botaniche hanno acquisito importanti connotazioni simboliche, soprattutto per alcune caratteristiche morfologiche e fisiologiche come, ad esempio, il forte odore che sprigionano, la forma, il colore, la loro eventuale tossicità ecc. Le piante aromatiche, in particolare, e soprattutto le labiatae, hanno assunto un ruolo anche nella religiosità popolare, ma non sempre la loro importanza è derivata da un’utilità economica. I bolboi, invece, economicamente fondamentali in passato, perché edibili e nutrienti, hanno perso priorità con l’avvento della cerealicoltura, ma il loro uso sopravvive ancora oggi in forme devozionali latenti (cfr. Chirassi Colombo 1968).
Fitonimia siciliana
Il legame tra mondo cerimoniale e vegetale emerge anche dall’esegesi sulla fitonimia e su una nomenclatura simbolica semanticamente correlata all’universo botanico. Molti dei termini siciliani che indicano azioni rituali incantatorie, prefascinanti o sanatorie denunciano l’ancestrale legame tra i vegetali e le esecuzioni di matrice medico-sacrale. Ciò è perfettamente attestato nel greco antico dalla parola phàrmakon che coinvolge nel medesimo termine la sfera botanica a quella terapeutico-simbolica.
In Sicilia, la scarpisatura, definizione che indica un’operazione terapeutica, determina l’azione di calpestare il terreno intorno a una pianta, prima di usarla ritualmente; la ngannatura, equiparata a ‘malocchio’ e ‘fattura’ nelle formule sanatorie, indica letteralmente il ‘campo di canne’ proprio come canniatura, nome che identifica altresì la mensuratio corporis, un cerimoniale che consiste nella misurazione terapeutica del corpo di un malato-incantato (cfr. Mannella 2015; Piccitto Tropea, s. v.; Di Nola 1988). La canna è infatti usata da tempi immemorabili in ambito esoterico con diverse funzioni e in svariate pratiche (cfr. Catone, De re rustica, clx; Eliano, Hist. Anim. I, 37; IX, 55). L’uso rituale dell’arundo donax è attestato in Sicilia: nel processo di Palma di Stefano (Archivo Histórico Nacional, Madrid, Inquisición, lib. 898, ff. 304r-304v), operatrice d’incantesimi proveniente da Comiso, che aveva operato una fattura con un fico sul quale aveva infisso alcuni pezzi di canna; nelle fiabe popolari, dove la canna svolge vari ruoli (cfr. Rosina Imperatrice, in Aprile 1991); negli usi locali, impiegata per incantare il demone ofidico o l’amata (Pitrè 1889: III, 226-227; IV, 129). A Modica, la canna a quattordici nodi era ritenuta il mezzo idoneo a compiere il vïolu di san Jàbbicu, un percorso escatologico che si svolgeva in vita per evitare di farlo da morti e che conservava tutte le caratteristiche e i tabù che si incontrano nei racconti delle trovature (ib. II, 246-248).
Stessa polisemia si riscontra nel verbo cammarari che indica, oltre al diffuso significato di ‘contaminare, avvelenare, infettare’ [3], anche quello di ‘esorcizzare, rendere immune dalle incursioni e dagli attacchi preternaturali’ (cfr. Piccitto Tropea, s. v.), secondo una binomia antitetica largamente sperimentata nella nomenclatura simbolico-rituale. Il verbo ha, infatti, il duplice significato antinomico di ‘fare un incantamento’ e ‘fare un contro-incantamento’, ‘avvelenare’ e ‘curare’, seguendo topoi caratteristici dei lemmi di matrice esoterica. A Montevago, le madri cercavano di rendere immune il neonato dalle incursioni demoniache dandogli da mangiare un po’ di fegato di colomba e dicendogli: Avanzi ca ti càmmara àutru, ti càmmaru io (Pitrè 1889: IV, 113). Il fegato di colomba era ritenuto «terribile antidoto contro le streghe», dice Pitrè, ma qui è considerevole l’uso del verbo cammarari col significato di ‘incantare’. La madre vorrebbe, infatti, dire: «Prima che t’incanti qualcun altro, t’incanto io», nel senso che, tramite un rito prefascinante, rende il figlioletto immune dai potenziali attacchi di spiriti maligni, donni di fora, invidiosi ecc.
Il legame che questo verbo detiene con i vegetali è palesato dalla sua origine etimologica che lo vede imparentato con la voce botanica latina cammaro, una specie di aconito, aconitum cammarum, e che in dialetto [4] indica l’euphorbia, «pianta velenosa che serve per intossicare le acque» (Battisti, Alessio, s. v. cammarone). L’uso del camarruni, euforbia, è attestato anche in ambito sacro come componente di offerte votive. In siciliano esiste anche il verbo ncammarari, usato sia come transitivo, ncammarari na chiaga, ‘indurvi ulcera’, sia come intransitivo, col significato di ‘sterilire’, riferito alle giumente (Traina 1877, s.v.).
Analoga ambiguità semantica mantiene un’altra parola isolana che identifica una varietà di euforbia, u tassu. Da questa provengono le forme sostantivate e aggettivali del verbo attassari, come attassatu: «Attassata, fredda, morta, come i pesci avvelenati da tassu (euphorbia myrsinites L.)» (Salomone Marino 1880: 30); attassu, in purtari attassu espressione che ha il significato di ‘portar male, portare iella, negatività’. Nel napoletano attassare, attassarese, restare attassato valgono «Addormentarsi profondamente… e fig. gelarsi, assiderarsi, restare interdetto. Lo sp. atajar ha qualche somiglianza di significato» (Rocco 1882: s. v.). A quest’idea di avvelenamento come incantesimo mortale è legata un’orazione che si recitava per proteggere greggi e armenti, e che inizia con San Pasquali, / non mi li faciti lïari / e mancu attassari (Vigo 1870-74: 548, nm. 3662).
Da queste constatazioni, secondo cui molti verbi segnalano in vario grado elaborazioni simboliche compiute su vegetali, non è da escludere scantari (alias ‘incantare’) che con valore attivo definisce l’azione di trapiantare, divellere, sradicare, diradare le piante. Scantaturi sono anche le piantine che si svellono nel diradare gli ortaggi, quando con scantatura (scantu) s’indica una malattia emozionale di ordine preternaturale (cfr. Piccitto-Tropea, s. v.; Mannella 2015).
Ricettario botanico della zza Pina
Durante le interviste realizzate nel luglio del 2002, Giuseppa Scebba, ex esercente (nata il 30 aprile 1925, a Mazzarino, CL), ha trasmesso un gran numero di ricette terapeutiche. I suoi remedia, solitamente di natura farmaco-botanica, prevedono l’impiego di qualsiasi parte della pianta: radici rami, foglie, fiori, frutti e semi. La zza Pina si presenta come esperta guaritrice e conoscitrice delle proprietà fitoalimurgiche e medicamentose della flora isolana; confeziona pozioni, balsami, unguenti, tisane, infusi, impiastri, decotti, cataplasmi, suffumigi, pomate ecc. Mi ha mostrato alcuni fitopreparati all’interno di boccette di vetro che elargisce a parenti, amici e vicini. Accanto alle conoscenze empiriche sulle qualità salutifere delle piante, la signora Scebba annovera metodi curativi di ordine simbolico: nei confronti delle verminosi, infatti, recita la nota formula ascendente/discendente della Settimana Santa (cfr. Mannella 2015: testo 11).
La maggior parte delle sue indicazioni prescrittive terapeutiche, tuttavia, è di matrice empirica: ·contro il mal di testa, fa inalazioni di eucalipto (fumenta di calipsi); · per sciogliere i calcoli della cistifellea, consiglia tisane di gramigna; ·sulle infiammazioni muscolari dei glutei (accissu di l’anca) appone foglie di ficodindia (pali di ficudìnia); · sugli ematomi (mmaccuna) applica marrobio, crescione, lattuga o scordio pestati o lessati (risp. marrubbiu, criscioni, sulàtica [5], scòrdiu); · per curare le emorroidi, fa fumigazioni, fumenti, di coda cavallina, cuda di gattu, sulla parte interessata; · contro il mal di denti, prescrive gargarismi con un infuso di foglie di rovo; · per rinfrescare lo stomaco, assume l’acqua in cui sono state bollite gramigna e cicoria; · sulle fratture delle ossa, applica bacche di olmo (l’urmu) lessate, che ritiene particolarmente adatte a solidificare e saldare le ossa; · contro la tosse: acqua, limone e miele da bere; · per le infiammazioni alle vie urinarie, somministra un decotto all’avena; · sulle ferite da risanare, appone foglie ammaccate di issopo, u ssopu; u veli di canna (quella specie di ovatta che si trova tra le giunture interne dell’arundo donax), oppure a filìnia, la ragnatela; · per combattere le coliche propone decotti d’orzo e avena; · contro il mal di testa e il raffreddore indica suffumigi di pilìju, puleggio [6], · sui foruncoli, l’applicazione di una pianta grassa (li paliddi), della resina del pistacchio (luma di li fastuchi), oppure dell’amintastru cotto in acqua [7], · contro i dolori alle ossa, utilizza il pilucaru [8], · per combattere il mal di pancia, ingerisce la nipiteḍḍa, nepitella, in infuso; · per curare la congiuntivite (ucchiu sbindatu) fa impacchi con la camomilla o l’urina; · per stimolare la minzione e purificarsi dalle tossine, assume, tre o quattro volte, un decotto amaro di rami e/o radici di spaccapetri, parietaria [9], · contro il mal di gola: due foglie d’alloro (u ddàuru), due scorze di limone, una di arancia, un po’ di prezzemolo, il tutto messo a cuocere in acqua fino a quando questa non si riduce, evaporando, a una tazzina di caffè che sarà bevuta dal malato; ·contro le gastropatie degli animali, un decotto con foglie di alloro, un po’ di prezzemolo, una foglia di menta, una mandorla trita, una scorza di limone; · come rimedio al pilu di minna (galattoforite)o alle dita gonfie e indolenzite, per geloni o affaticamento, confeziona il cosiddetto pani cuttu, pasta di pane cotta con olio e bicarbonato e posta sopra la parte offesa.
Oltre a questi infusi, decotti, impiastri ecc. l’esperta guaritrice produce una serie di unguenti dalle proprietà lenitive, emollienti, decongestionanti e cicatrizzanti che si usavano di solito contro ustioni, infiammazioni cutanee, ferite: ·Ugghju di cutugnu: olio d’oliva nel quale sono messi a macerare i semi della melacotogna, cutugnu, per essere, all’occasione, spalmato sulle scottature; ·Ugghju di curucucù, o curucù, olio d’iperico: si ottiene facendo macerare in olio d’oliva (per 30 giorni al sole e al sereno) rametti, fiori e foglie d’iperico raccolto la notte di san Giovanni; è utilizzato sulle scottature, come lenitivo e curativo; l’iperico possiede principi emollienti ed è portentoso contro le ustioni; è altresì sottoposto a speculazioni simbolico-ritualistiche [10], ·Ugghju di nevi, olio di neve; quando nevica, si espone all’aperto un piatto d’olio d’oliva; si conserva in bottiglie per essere usato contro bruciature, arrossamenti e ferite (cfr. Castelli 1878: 67-68).
La curatrice mazzarinese presta, poi, particolare attenzione ad alcune specie botaniche per le loro proprietà portentose e perciò impiegate come ingredienti base di diverse terapie: ·Vurrània, urrània (borragine), usata per stimolare la produzione di latte delle puerpere e contro le gastropatie; ·Calumidda (camomilla), da bollire e applicare con impacchi sugli occhi per schiarire la vista; oppure da mangiare per calmare i nervi; ·Marva (malva), impiegata contro foruncoli, per far gli sciacqui ai denti (con la bollitura della cima); possiede proprietà rinfrescanti, è utilizzata contro incontinenza e infezioni dello stomaco; ·Ruta, mangiata cruda contro i nervi, ma con particolare cautela, in quanto è una pianta epatotossica e a grandi quantità provoca forti dolori allo stomaco, vomito e persino la morte; fritta con olio o conservata in alcol denaturato (ruta ntu spirdu) è passata su lividi e distorsioni; l’acqua, in cui è stata lessata, viene ingerita per contrastare le gastropatie; quando ciarmavano i vermi facevano annusare ai bambini la ruta dopo aver massaggiato con olio il pancino. · Il prezzemolo [11] (pitrusinu) è usato sulle contusioni, crudo si strofina sulla cute aggredita da punture di insetti; è notoriamente abortivo: le donne gravide ingerivano decotti di prezzemolo o capelvenere, capiḍḍuvènniri, per perdere il feto; un rametto di prezzemolo intinto nell’olio, u sgruppiddu du pitrusinu ccu l’ugghiu, sostituito a volte dalla carta arrotolata, u cuppu, veniva inserito nell’ano del bambino, come stimolatore, per farlo defecare, in caso di stitichezza (ne parla anche Pitrè 1992: 341); della stessa famiglia, l’àccia sarbaggia (qualità di sedano selvatico che cresce in zone umide) è stesa, pestata o bollita, sui lividi. · Càvulu forti (cavolo comune) crudo è applicato sulle distorsioni; le sue foglie, riscaldate con olio, schiacciate e sbattute tra le mani aperte per ammorbidirle (fogghi di càvulu tturrati) sono poste sul seno delle donne per evitare che il “latte indurisca” (galattoforite, cfr. Pitrè 1896: 415). ·Ampiamente usato contro l’elmintiasi, l’aglio (àgghja) riscaldato viene inserito nell’orecchio quando si soffre di orecchioni, crudo si mangia per abbassare la pressione; una qualità di questo bulbo, chiamata agghja sarbaggia, aglio selvatico, è usata contro gli ematomi. ·Cardeḍḍa (cicerbita o crespigna, Sonchus oleraceus)bollita si applica sui calli; la foglia masticata o ammaccata è posta sulle ferite per farle rimarginare. ·Erba bbianca (assenzio, Artemisia absinthium L.), adoperata come rimedio vulnerario per le sue proprietà disinfettanti e risananti; se ne facevano clisteri (lavanni) mettendo a bollire a rama tènnira a mezza cottura; cruda, si appendeva a mazzetti contro la campa, le tarme dei tessuti; la foglia veniva anche fumata. · La birbina (verbena) è diuretica e utile contro la nefrite e la malaria (occorre la dose esatta perché può essere velenosa come la ruta e la salvia). ·Il sammucu (sambuco), raccolto tra fine aprile e inizi di maggio, è inalato in forma di suffumigio (fumentu) contro l’erisipela (a risìcola; malattia interpretata un tempo come demone patogeno). · La sànapa, senape, è impiegata in forma di cataplasma contro i foruncoli e per fare impacchi. · Anche il frumento (furmintu) risulta sanante; sotto forma di farina bagnata con acqua è applicata sulle scottature a mo’ d’impacco.
La signora Scebba conosce anche medicamenti che si ricavano dagli animali: ·Purciḍḍuzzu, vermetto che cresce, coi suoi simili, sotto le anfore di creta umide [12], si pestava per darlo ai bambini da bere contro la dispepsia (latti ngruppatu); la stessa infermità è trattata anche mediante dispositivi cerimoniali che contemplano la recitazione di un incantesimo sanatorio (cfr. Mannella 2015, testo 36). ·U ḍḍummisciutu (lett. l’addormentato) è un verme che si trova intontito sotto i sassi; viene portato addosso da chi soffre d’ernia. ·U feli du rizzu, lett. il fiele del riccio; si fa seccare, si inserisce all’interno di un segmento del fusto di una canna con un cucchiaio di latte materno, si tiene a mollo e poi si dà da bere ai bambini dispeptici. · Il grasso del cavallo (grassu di cavaḍḍu), spalmato sul seno di una donna, cura la galattoforite. ·A scorcia du scursuni, la muta di serpente, essiccata, polverizzata è sparsa sulle ferite per sanarle. · Il ventre degli agnellini (quagghju di l’agniddi) viene salato e apposto sopra i foruncoli (gghianculuni).
Dialoghi Mediterranei, n.30, marzo 2018
Note
[1] Cfr. Plinio, Naturalis Historia; Catone, De agri cultura; M. Empirico, De medicamentis; Martini 1977; Di Nola 1983a; Rapisarda 2001. Scrive Farina (1874: 254) sugli usi siciliani della melissa: «L’acqua che se ne distilla è in uso come antisterica. Si pretende che i religiosi del Monte Carmelo siano stati i primi a farla conoscere; quindi fu detta in origine Nettare dei Carmelitani».
[2] Sugli oggetti sacramentali, considerevoli inferenze si traggono dalle condanne agli uomini improbi che, nel 1638, l’arcivescovo di Monreale scrisse nei Ricordi a’ Confessori prendendosela con «Quelli che mettono sopra altari fave, carta vergine, calamita, capelli, scrittarini, caratteri, orationi superstitiose, acciò si dica sopra di essi la Santa Messa […] Quelli che si servono, in certe loro superstizioni e sortilegi, d’oglio di lampade di chiesa, di corda di campana, di legno di forca, di sughetto d’impiccato, di filo con che si cuciono li vestimenti de’ morti, d’ossa de’ morti, di terra di cemiterio»; Renda 1997: 410.
[3] Cfr. Battisti, Alessio 1950-57, s.v.cammarare; De Vincentii 1872, incammarare; Rocca 1859, scammararisi, scammaratu, scammaru.
[4] Cfr. in Mortillaro, Piccitto-Tropea le altre varietà di euforbia, sub voces: camarrunazzu, camarruneddu, camarruni.
[5] Piccitto Tropea riportano alla voce sulata: specie di lattuga, attestata nell’ennese.
[6] Piaggia (1853: 220) tramanda l’uso milazzese, contro il malocchio, di appendere una croce di puleggio, senape o rami d’olivo davanti alla porta.
[7] La luma è nome generico di resina (soprattutto del pero o del mandorlo), indurita, se ne ricavava anche colla. L’amintastru è una pianta della famiglia della menta, con la quale condivide il colore e altre caratteristiche morfologiche. La signora Scebba dice che ha un ottimo profumo ma ccubbusu, chi sdici (soffocante, nauseante), ha il fiore verde, se ne trovano di 3-4 qualità, ha proprietà antibatteriche e disinfettanti. Farina afferma che il mentastru sia la menta puleggio, tuttavia l’intervistata tra le 3-4 varietà che determina come amintastru parrebbe includere il Mentastro verde (Mentha spicata, L.), più che il puleggio, che definisce in altri luoghi pilìju.
[8] La zia Pina chiama in questo modo una pianta che descrive come soffice e pelosa, tenuta dai contadini, dentro la scarpa, sotto la pianta dei piedi per tenerli asciutti ed evitare sudorazioni, cattivi odori. Si tratta della pelocaria comune o coniza maggiore utilizzata per cacciare le pulci spargendola sul pavimento delle case infestate da esse, cfr. Piccitto Tropea s.v. pulicara/ia, pilucara/ia. La variante mazzarinese, per la prima volta registrata, è l’unica di genere maschile.
[9] Cfr. Piccitto Tropea s.v. spaccapetra: pianta erbacea officinale le cui radici sono usate per la renella e i calcoli renali.
[10] L’iperico è, come l’origano, una pianta di San Giovanni, infatti, si suole raccoglierlo il 24 giugno, per la festa del santo; «ha gran credito di vulneraria e di balsamica: i contadini l’infondono nell’olio comune che diviene rosso, e l’usano per le ferite. Si reputa utile altresì per i vermi, per le dissenterie e per i dolori di denti», Farina 1874: 230. Il botanico riporta come fitonimi siciliani dell’iperico, piricò o erva di San Giovanni.
[11] Al prezzemolo, e ad altre piante aromatiche, è tributato un potere antidemoniaco e antincantatorio, come anche attestato in questa orazione esorcistica: Ti vagnu, ti spagnu, ti scugnu (ti bagno, ti spavento, ti scaccio) / A lu nomu di Diu,/ cu st’acqua ca la binidìu Gesù, / cu stu mazzettu di pitrusinu c’à la so virtù. / Va fora, brutta bestia! (Salomone Marino 1897: 289).
[12] Si tratta dell’asello (oniscus, L.) altrimenti detto purciḍḍuzzu di S. Antoni (Piccitto Tropea, s. v.) che, lessato in acqua, è dato a bere ai lattanti che soffrono di stipsi, cfr. Pitrè 1896: 341.
Riferimenti bibliografici
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Pier Luigi Josè Mannella, docente di discipline letterarie a Milano, ha una formazione didattica specialistica; insegna con il metodo italiano, il modello britannico (Cambridge, IGCSE) e il programma Baccalaureato (IB) per i quali si è qualificato (Univ. degli studi, Palermo; Univ. Statale, Milano; IBO, Den Haag, Netherlands; IED Communication, Milano). Si è dedicato alla scrittura creativa di racconti (Corsivo, Milano 2004; Anima Letti, Milano 2011) e allo studio etno-antropologico di formule proverbiali e incantatorie (Le figure popolari siciliane nei proverbi di Mazzarino, Palermo 2005; Il sussurro magico. Scongiuri, malesseri e orizzonti cerimoniali in Sicilia, Palermo 2015.
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