di Antonino Cusumano [*]
È noto che per quel che vi è sotteso e per quel che rivela per suo mezzo, il pane è tra quei manufatti che possiedono un particolare statuto, una speciale connotazione, una straordinaria densità simbolica. Cirese per primo ci ha insegnato a guardare al pane non soltanto come ad un fondamentale alimento ma anche come segno, non soltanto sussistenza ma forma, «capace cioè di veicolare immagini o più esattamente significati che sono diversi dal semplice ed elementare significato di essere se stesso, e cioè pane da mangiare».
Il paradigma antropologico del pane buono da mangiare ma buono anche a comunicare ha inteso riconsiderare questo bene commestibile, centrale nel sistema dell’alimentazione, quale oggetto di plasmazione e di coagulo di forme e pratiche culturali, quale agente e referente di memorie e identità, quale immagine che incarna per eccellenza l’uomo e l’umano. Se il cibo è garanzia esistenziale, misura del benessere, grumo di energie e fonte di vita, nel pane tutto questo assume una estrema radicalità, un surplus di investimento simbolico, una irresistibile potenza segnica. Nel pane c’è tutto: la storia, il mito, la religione, l’economia, la società, saperi e poteri, il mistero della vita e della morte, Eros e Thànatos.
Del grande Albero dei simboli culturali, il pane è il frutto più carico di significati, segno eccellente di rifondazione della vita, «sole miniaturizzato», per usare le parole di Piero Camporesi. Ci sarà un motivo – si chiedeva Antonino Buttitta – se dappertutto il pane ha forma rotonda e non quadrata che sarebbe più facile da tagliare e da dividere. La forma che riproduce il cerchio rappresenta simbolicamente la dimensione circolare del tempo, il succedersi ciclico delle stagioni, il continuum della vita di cui il pane è metafora esemplare. Ma in quell’umile e polisemico impasto, che mette insieme i quattro elementi di fondazione: terra, aria, acqua e fuoco, c’è soprattutto un esemplare compendio materiale e simbolico delle qualità umane, una ricapitolazione figurale dell’universo umanizzato. Così che la consustanzialità tra l’uomo e il pane può farci dire che «non è soltanto l’uomo che fa il pane», ma è anche «il pane che fa l’uomo». Nelle parole come nella prassi: “buono come il pane” ma anche “un pezzo di pane” per dire di una persona dolce, mite e generosa. Del resto, alla cultura del pane sono riconducibili non pochi cognomi: si pensi a Panebianco, Buccellato, Mangiapane, Collura, Maiorca, Guastella, Farinella, Mezzasalma, etc. Nel dare perfino il nome alle identità degli uomini, si conferma per definizione manufatto costitutivo e fondativo di potenti processi di significazione sociale e culturale, di memorie individuali e collettive. Nel continuum tra il segnico e il fabrile, il pane è, dunque, parola fondamentale a vocazione antropomorfa non meno che sostanza capitale nella grammatica della comunicazione alimentare.
Nulla è più rappresentativo del lavoro dell’uomo, del suo faticoso affrancamento dalla fame, del suo riscatto e del suo primato. Nel manufatto che dà corpo e forma alla farina sembra riepilogarsi, come in un palinsesto o in un ideogramma, la storia nediterranea che da Omero ad oggi ci fa identificare come appartenenti alla medesima comunità, è riconoscibile una sorta di imago hominis, di antropopoiesi, di umano radicamento della civiltà e del consorzio civile. Prima di diventare materia del miracolo eucaristico – corpus Christi – , epifania del mistero cristiano della transustanziazione dalla sostanza alimentare a quella spirituale, della migrazione dal corpo allo spirito, il pane è forma consustanziale alla natura dell’uomo, figura commestibile che molto prima del Cristianesimo ha determinato la struttura del pasto sacro, incarnando uno dei segni più alti di mediazione simbolica elaborate dall’uomo per traghettare dal caos al logos, per riconnettere la vita degli individui ad un comune orizzonte di senso.
Nelle splendide pagine di un racconto dello scrittore siciliano Antonio Russello, si riesce forse a cogliere compiutamente il senso dell’umana appartenenza che il pane comunica e, come per miracolo, evoca e suggerisce anche nei rapporti tra individui estranei e di culture diverse. C’è un soldato americano di colore sbarcato in Sicilia in occasione della seconda guerra mondiale che sente nell’aria «una grande fragranza di crosta di pane, di mollica che impregnò l’aria, si diffuse nella campagna e inondò le ciglia, le palpebre, le narici, mentre lui era rimasto buttato nella cunetta, in mezzo alla stoppia, tutto chiuso e serrato all’apparecchio radio, chiuso tra le antenne, chiuso tra le scatole di carne e di pane sintetico, con la bocca aperta, le narici aperte, le orecchie tuffate in quell’odore di crosta croccante». Così nel confrontarlo coi surrogati americani, il soldato nero vide il pane bianchissimo come panna montata cotto nel forno a legna e tenuto contro il cuore da chi lo tagliava a fette col coltello, e «scoprì che l’atto d’ingoiare quella mollica antica e profonda era quella dell’uomo che parla all’altro uomo e gli dice pane del pane e uomo dell’uomo. E non era quello del bianco che parla col nero col linguaggio del bianco. Ma era il miracolo di un pane che parla da pane ad un altro pane». Nell’invenzione letteraria il pane, dunque, si fa koinè universale, pasto ecumenico, lingua che supera le differenze etniche, qualcosa di elementarmente e radicalmente umano, capace di produrre parole nuove e di dare concreto e potente significato alle consumate retoriche della fraternità e della giustizia.
La verità è che non c’è pane che non comunichi qualcosa all’uomo e dell’uomo, che non abbia dignità e statuto quasi di persona, verso cui si devono rispetto e sollecitudine, per cui non va mai rovesciato sulla tavola né abbandonato o gettato per terra. Numerose sono, come è noto, le prescrizioni rituali che accompagnano le operazioni di panificazione, dalla manipolazione alla cottura, al consumo. Le forme di una “religione del pane”, di un rispetto che sovente diventa devozione e culto, sono sottese a gesti e parole della microritualità domestica. Al pane pensato, maneggiato e curato come un corpo fragile e sensibile alla pari di quello dell’uomo sono affidate funzioni segniche che oltrepassano le ragioni alimentari o ad esse si intrecciano in una sintesi di grande efficacia e suggestione formale. C’è un intimo e intenso rapporto tra il pane e il corpo dell’uomo, sol che si pensi che in Sicilia, come del resto nel vicino Oriente, la mollica era posta sulle ferite da taglio per fermare il sangue e rimarginarle. Assai diffusa era l’abitudine di imprimere il pollice sull’impasto prima di introdurlo nel forno, come a confermare che a farlo è stata la mano dell’uomo. Così come era proibito impastare il pane alle donne durante il ciclo mestruale.
La strutturale biplanarità del pane di cui ha scritto Alberto Maria Cirese, attestata sia nei pani quotidiani che in quelli rituali o cerimoniali, e la sua stessa consustanzialità con la dimensione umana, sono in tutta evidenza ribadite, accentuate ed esplicitate nei pani antropomorfi e anatomorfi, laddove nel particolare segno figurale si rendono indistinguibili materia e forma, significante e significato, non esistendo disgiunti né effettualmente né semanticamente. Così che non si mangia il pane ma quanto esso rappresenta, non si acquista un biscotto ma un san cosimu e damianu, segno – come vedremo – imprescindibile del sistema iconico di una determinata festa. La figura umana commestibile – assai diffusa nell’area del Mezzogiorno – si può iscrivere nella logica del sacrificio, nella dialettica dello scambio simbolico, nella fenomenologia della festa, del gioco, del dono o del voto. L’effige di pasta vale ad unire gli uomini tra di loro, può servire a stringere un patto con gli dèi, a promuovere questue o a propiziare guarigioni, può essere pegno di alleanze con i morti, testimone devozionale o memoriale oppure semplicemente occasione ludica per i bambini. Sugli altari o sulle tavole, offerto ai santi, dedicato in suffragio ai defunti o spartito sulla mensa dei mortali, il pane che ha forme e fattezze umane evoca arcaiche iconografie, modelli di rappresentazione cosmogonica, allegorie o patrofagie simboliche.
Nel ciclico trascorrere del tempo agrario, il pane antropomorfo occupa in Sicilia una posizione preminente, e nella topografia dei sistemi mitico-rituali presiede i punti liminari più critici, le frontiere poste tra il mondo dei vivi e quello dei morti, tra le potenze numinose e le entità magiche. Così nel giorno della commemorazione dei defunti se la confezione del pupo di zucchero interpreta la tradizione della strenna che a beneficio dei bambini celebra un’offerta alimentare alle anime dei trapassati, i pani in forma di parti del corpo, tibie, femore, ossa, mani sovrapposte (manu ncoddru, armuzzi), o raffiguranti piccole bambole (pupidda) con una crocetta sul volto e una ai piedi, sono più scopertamente non soltanto dono dei morti ma sono i morti stessi destinati ad essere ritualmente mangiati per essere simbolicamente reintegrati nella vita e reincorporati nel nucleo familiare. Discesa da antichi culti precristiani, questa elaborazione patrofagica è per certi aspetti memoria dei banchetti funebri che, in mezzo a danze e mortori, celebravano il cordoglio dei luttuati. In ogni caso agenti e destinatari di questi pani sono i bambini, mediatori privilegiati nella relazione con i defunti, figure liminari più prossimi alla concezione ciclica dell’esistenza in quanto testimoni diretti del passaggio generazionale, «più vicini alla nascita e dunque – per usare le parole di Furio Jesi – più vicini al limitare della non-esistenza».
Altre figure umane di pane sono in alcuni contesti rituali reminiscenze di quel «corpo dello spirito del grano, consumato sacramentalmente», di cui ha scritto Frazer. Così è, per esempio, per quel grande pane plasmato a somiglianza approssimativa di bambola che un tempo si confezionava e si distribuiva tra i mietitori prima e dopo la mietitura. Ai riti di propiziazione per la fertilità e la buona annata agraria si connette un altro pane, cucchia o cucciaredda, realizzato dalla congiunzione simmetrica di due elementi con le punte che si aprono come corni. Rilevato da Antonino Uccello a Palazzolo Acreide, questo pane sarebbe una stilizzazione dell’organo sessuale femminile. L’unione di figure gemellari e contrapposte così come la configurazione spiraliforme presente in questi come in altri pani cerimoniali rinviano ad una arcaica morfologia simbolica, riconducibile al fecondo utero tellurico della Dea Madre, generatrice della vita, una simbologia attestata in non poche testimonianze materiali delle culture protostoriche siciliane. Come ha osservato con dovizia di documentazione Ignazio Buttitta, il motivo della doppia spirale, che registra un’ampia diffusione spaziale e cronologica, «si propone come efficace e sintetica rappresentazione di forze sessuali e cosmiche contrapposte e, allo stesso tempo, come una simbolizzazione del processo del divenire ciclico e della rinascita periodica, cioè del processo di creazione e ri-creazione di matrice agricolo-ctonia, che vede i cicli agricoli, quelli cosmici e quelli della vita umana intimamente connessi». Ritroviamo questo elemento iconografico della doppa spirale nella cuddura che a Mirabella Imbaccari, nel Catanese, si prepara per la tavola rituale di San Giuseppe. Nelle azioni e nei gesti, descritti da Rosario Perricone, che accompagnano il rito, trovano conferma le funzioni protettive e vitalistiche di fecondazione propiziatoria associate al simbolo spiraliforme. Il pane che è posto al centro del banchetto che unisce i vivi e i morti è tagliato in due metà e una parte è conservata dalla padrona di casa per essere, l’anno successivo, ridotta in polvere e mescolata alle sementi. Così che il frutto della spiga mietuta e riconvertita in seme torna alla terra per una nuova vita.
Altri pani antropomorfi e anatomorfi secondano e sottolineano le scansioni festive del calendario, arricchendosi in alcuni casi di aromi, di farcie, di decorazioni, evolvendosi in altre circostanze in veri e propri dolci, quando del tutto azzimi si coprono di glassa di zucchero e albume. Tenendo presente tuttavia ciò che ha scritto in anni lontani Giuseppe Vidossi: «Fra pani e dolci caserecci non c’è una linea precisa di demarcazione. In parte almeno i dolci caserecci non sono che pani speciali, per forma e ingredienti, preparati in determinate ricorrenze e solennità o per scopi particolari, dolci rituali, dolci devoti». Si tratta dunque di un continuum, di un rapporto di stretta contiguità e complementarietà, ancor più evidente nel caso dei pani e dolci antropomorfi che, pur variando nelle tecniche di esecuzione, comunicano comunque nella soluzione figurale significati e funzioni altre in sovrapposizione a quelle semplicemente alimentari.
Di miele, farina e noci macinate sono impastate le pupe di Sortino, e altre bambole di pasta di mandorle, di fichi o di vino cotto (mustazzolu) arricchiscono il vasto repertorio dei dolci natalizi. In molti casi la fanciulla, pur elementarmente modellata, è ornata con nastrini, bottoncini o dipinta con una polverina rossa. Scivolando sempre più nella dimensione ludica, la figura umana può assumere le fogge di una damina, di una ballerina o di una donna in costume. Così era per il pane ricavato dai ritagli che avanzavano dalla panificazione domestica. A volte, alle stesse bambine era assegnato il compito di plasmare le forme o di completarle e arricchirle con qualche elemento decorativo: un modo per imparare a fare, per imparare ad essere, per consegnare e trasmettere attraverso le tecniche del gioco non solo un modello ma anche un mondo.
Un pane in forma di infante fasciato (nfasciateddu) si preparava in passato a Buccheri, in prossimità del Natale e in relazione alla natività presepiale. Di pane erano, a volte, perfino scolpite le figure dei pastori del presepe. Sui sontuosi altari rituali allestiti in onore di san Giuseppe, largamente gremiti di pani figurati, che sono la sostanza connettiva, connotativa e commemorativa di un unico grande spazio sacro, entro il quale si risolve lo scioglimento della grazia e si dispiega l’offerta umana al santo, troviamo moltissimi motivi zoomorfi e fitomorfi e tra i pani anatomorfi e antropomorfi non mancano mai quelli che riproducono parti del corpo del Patriarca (la barba, la mano, il cuore), né i cosiddetti monachelli, figure di piccoli monaci con il saio colorato con una soluzione a base di cacao su cui spicca il filo intrecciato di pasta bianca che simula il cordone. La presenza di questi frati, alcuni foggiati anche a cavallo e comunque posti in posizione eretta sul letto dell’altare votivo, segnala l’opera di riplasmazione cristiana del rito d’ispirazione agraria con originarie funzioni propiziatorie. Effimere sono certamente queste immagini commestibili di pane copiosamente diffuse sulla mensa sacra, ma nella povertà della loro materia plastica modellata – come ci ricorda Cirese – «al modo in cui lo è la creta», si condensa l’eminente potere simbolico di rappresentare un modello di tradizione cultuale che dalla sfera d’ambito familiare si dilata a quella pubblica e comunitaria, si celebra il trionfo della rinascita della vita in associazione alla palingenesi della stagione primaverile.
Non diversamente i pani della Pasqua si richiamano a morfologie mitico-rituali del mondo agrario dell’antichità e recuperano il valore cosmogonico dell’uovo. Gravidi di uova sode colorate assumono denominazioni e forme diverse. Pupi cu l’ova sono chiamati i pani che rappresentano «le maggiori stranezze della fantasia», per usare le parole di Pitrè. «Oggi che i monasteri sono per iscomparire – scriveva lo studioso siciliano – i pupi cu l’ova non fanno provocante mostra di sé; ma una volta, fin dopo l’abolizione delle corporazioni religiose, occupava centinaia di braccia monacali e confortava centinaia e centinaia di stomachi non monacali. Le famiglie ne ricevavano annualmente e quasi ritualmente; ed i confessori che avevano penitenti nei sacri luoghi non potevano né dovevano andarne privi, ed era costume che quei dolci giungessero a destino sur un vassoio avvolto da un grande fazzoletto di seta gialla e rossa fiammante, che pure faceva parte del dono».
Pitrè descrive un esemplare di pupo che chiama russuliddu: si tratta di «un chierico rosso della Cattedrale di Palermo, con un bell’uovo in ventre, vestito di sottana e di cotta, con berretto in capo, officiolo e croce in mano». Particolarmente eleganti nella fattura erano le bamboline destinate alle bambine. Vestite con stoffe variopinte e sovrapposte al corpo di pane, decorate di trine e merletti, con cuffia sul capo e guarnizioni nelle maniche, sotto la loro gonna erano nascoste uno o più uova sode, assicurate ad un supporto di minute canne. I pupi cu l’ova, coloratissimi e arricchiti di plastiche ornamentazioni, si confezionavano tra il giovedì e il venerdì santo e facevano parte dei canestri che si scambiavano in regalo i fidanzati. Altri pani a forma di grandi teste raffiguranti il Redentore erano donati a Favara il sabato santo dalle fidanzate ai loro suoceri.
Monumentali e artisticamente ispirati sono i pani che addobbano gli archi di Pasqua di San Biagio Platani. Qui sono innalzate imponenti architetture effimere che fanno da cornice all’Incontro che si svolge la domenica della Resurrezione tra il Cristo e la Madonna. Su intelaiature di ferule e canne, in mezzo a fiori, agrumi e foglie di alloro e di palma, sono collocati una straripante quantità di pani di varia fattura, anche in forma di grandi bassorilievi che riproducono scene agresti e figure di uomini e santi. Con funzione essenzialmente votiva sono i pani e i dolci che si preparano in occasione delle festività di santi patroni e protettori. Come gli ex voto di cera o d’argento riproducono teste o parti del corpo guarite per intercessione del santo: piedi, mani, gambe, seni, polmoni, occhi, orecchi, addomi, intestini, reni. Una dissezione anatomica che accentua il ruolo del corpo come luogo fisico di mediazione metafisica, di espiazione e riscatto, di trait-d’union tra natura e cultura.
«Il corpo – ha scritto Marc Augè – costituisce contemporaneamente tutto ciò che si può apprendere dell’interiorità individuale e la forma immediata dell’esteriorità, insieme la parte più intima dell’uomo e quella più sensibile dell’universo. Materia e vita, esso è passivo e attivo, superficie d’inscrizione, emittente, portatore e produttore di segni…. Esso è innanzitutto ciò che permette di ordinare il resto, perchè può servire a mettere in ordine il mondo esterno e perchè serve, molto fisicamente, molto materialmente, a codificare la memoria sociale».
Ebbene, il corpo frammentato fatto di pane e il pane che si fa corpo offerente costituiscono insieme un potente connubio segnico, la doppia articolazione di un’unica metafora, di un medesimo nucleo simbolico. Probabilmente più della cera o dell’argento, la materia effimera ed edule dell’ex voto finisce col conferire al corpo smembrato, destinato ad essere spartito e consumato dopo essere stato esposto sull’altare del santuario, avvicinato o sospeso al simulacro del corpo del santo, una cogente funzione di mediazione, di introduzione del divino e di reintegrazione dell’umano, in un cortocircuito somatico, in un corpo a corpo simbolico che si avviluppa tra il corpo del devoto e quello del santo, tra il corpo donato e quello graziato, tra il corpo spezzato e quello ricomposto, tra il corpo immaginato e quello mangiato.
Dalla sua produzione alla sua pubblica ratifica, il pane anatomorfo descrive una dinamica territoriale che mette il corpo al centro dell’organizzazione dello spazio rituale, presupponendo prima il viaggio penitenziale dell’offerente ovvero il pellegrinaggio presso il santuario e poi la circolazione del dono votivo – mani, teste, seni – distribuito ai fedeli che se ne cibano come in una sorta di autoeucaristia oppure ne conducono a casa e conservano parti investite di proprietà apotropaiche. La protezione assicurata dal pasto sacro o dalla presenza magico-religiosa del manufatto votivo ha comunque nel pane e nel corpo i segni trasduttori della dazione e transazione cerimoniale, fonti di produzione e riproduzione della vita, anelli di congiunzione fondamentali nella catena delle alleanze tra gli uomini e tra gli uomini e gli dèi. Così che la vicenda individuale diventa esperienza collettiva, il rapporto contrattuale di tipo privato istituito in origine tra santo e devoto si converte in patrimonio di tutti nel quadro di centinaia di altre storie personali e nel contesto comunitario del santuario, e quanto viene materialmente consumato finisce con l’essere socialmente capitalizzato.
La forza vitale che abita congiuntamente nel pane e nel corpo si rende visibile in diversi contesti di feste siciliane in onore del santo patrono. Sulle soglie dell’estate e lungo tutta la calda stagione, quando si chiudono i lavori del ciclo agrario e soprattutto tornano gli emigrati in vacanza, si avvicendano numerose le feste patronali, i pellegrinaggi, le processioni e le offerte votive. Nell’universo dei segni rituali grano e pane sono ancora beni carichi di riferimenti ad un comune orizzonte mitico, presenze vive e vitali con la loro abbondanza manifesta e la densità del loro statuto simbolico. Vistosa allegoria di un surplus alimentare volto a scongiurare carestie e a propiziare ricchezze, il pane figurato è oggetto e soggetto magnificato negli eventi cerimoniali del 3 maggio articolati intorno al culto del Santissimo Crocifisso, attestato in diversi comuni. Nei paesi del Vallone nisseno, dove sorge il santuario di Bilìci si raduna ogni anno un popolo di pellegrini che recano ex voto di pani in forma di corpi, di braccia, di mani. Nello stesso giorno a Barrafranca si festeggia il patrono Sant’Alessandro, e un’altra teoria di membra umane, di arti e organi si dispiega in offerta votiva al santo.
Non diversamente a giugno, nell’ambito dei festeggiamenti dedicati a San Calogero, in tutti i paesi dell’Agrigentino i devoti si recano in pellegrinaggio a piedi scalzi nei diversi santuari locali portando con loro i pupi, i pani antropomorfi, a figura intera, ricchi di sesamo, grandi a misura della grazia ricevuta. Ad Agrigento come a Caltavuturo, a Campofranco come a Canicattì i pani benedetti in sacrestia sono poi sfregati sul simulacro, tagliati a pezzetti e distribuiti o lanciati alla folla di fedeli che se li contendono a gomitate. Il loro potere taumaturgico derivato dal contatto con la vara sarà poi dai devoti condiviso unitamente con i parenti e i vicini. A Porto Empedocle i pupi di san Calò vengono appesi direttamente sul fercolo confusi con le banconote e i mazzi di spighe e fiori. A Naro sono cosparsi di tuorli d’uovo e di semi di papavero. A Realmonte, dopo la loro benedizione in chiesa, sono messi all’asta e acquistati dai fedeli o riacquistati dagli stessi offerenti per finanziare la festa.
A guardar bene, quello che accade oggi nel complesso rituale di san Calogero non è diverso da quello che descriveva Pitrè più di secolo fa:
«Gli ex voto invece che di membra umane imitate in cera sono di pane. Tu quindi troverai un gran pane che raffigura una gamba, un piede, un braccio, una testa. Questi pani o si portano in chiesa o si offrono in strada nel momento in cui passa la statua del Santo. Lì, durante la festa solenne, qui,trinciandosi una benedizione purchesia, il pane viene bendetto e diviso in due: un pezzo viene messo nel sacco, sarà poi diviso ai poveri, un altro, rotto in molti pezzetti, è gettato ai devoti presenti. Così benedetto, questo pane diventa prodigioso e come tale mangiato in occasioni tristi e calamitose della vita».
Dappertutto i pani antropomorfi o anatomorfi sono ancora oggi immessi entro un preciso codice cerimoniale che prevede la sequenza descritta: pellegrinaggio, offerta al santo, ostentazione pubblica dell’ex voto, sua spartizione e distribuzione tra la gente e infine consumo. Nel rappresentare il bisogno dell’uomo di oggettivare e di mediare l’opposizione salute/malattia ovvero quella più radicale e profonda di vita/morte, il pane che riproduce il corpo o sue parti evoca il miracolo già compiuto o incarna la speranza dell’evento salvifico. In tutta evidenza, la sua commestibilità aggiunge alla natura dell’ex voto in cera o sulle tavolette di legno il particolare processo di assimilazione fisica e di intimo scioglimento del voto all’interno del corpo stesso dell’offerente. Una simbolica riappropriazione e una concreta reincorporazione in nome del pane, alimento e segno come non mai effimero ed eterno.
Eguali suppliche, donazioni e restituzioni, eguali prassi devozionali e rituali articolate nel circuito dello scambio e del consumo alimentare degli ex voto di pani anatomorfi e antropomorfi per grazie ricevute sono attestate in moltissime altre ricorrenze del calendario festivo e in numerosi centri siciliani. Così è nel Siracusano per la festa di santa Lucia, quando in omaggio alla vergine patrona si preparano i pani votivi azzimi detti l’uocchi o ucchileddi di santa Lucia, formati da due spirali in cui è chiara la stilizzazione degli occhi. Portati in chiesa su un vassoio e benedetti, sono dai fedeli leggermente poggiati sulle palpebre chiuse e poi mangiati oppure conservati in casa, appesi alla parete a lato del letto con finalità apotropaiche. A Catania, invece, i devoti di sant’Agata confezionano i minni di Virgini, a imitazione del seno femminile e a ricordo del martirio della santa, ricoperti con glassa di zucchero e decorati a volte anche con una ciliegia candita. A Salemi ma anche altrove è ancora oggi documentata la pratica di modellare piccoli pani azzimi in forma di trachee, li cannaruzzeddi di san Brasi, dedicati a san Biagio, ritenuto protettore delle malattie della gola. Rappresentano un raro esempio dell’arte di cesellare la pasta con aghi e pinzette in fatture raffinate e stilizzate. C’è ancora chi porta al collo questi pani eseguiti come preziosi cammei per preservarsi da infiammazione delle tonsille.
A Sferracavallo per la festa dei santi Cosimo e Damiano, secondo la testimonianza di Pitrè, i torronai vendevano i pupiddi nanau, «pupattole a varie dimensioni di pasta mescolata di miele e farina aventi la figura di donna con un cilindro in capo, le mani ai fianchi e vesti così lunghe che appariscono senza piedi». Le figure femminili – ha scritto Fatima Giallombardo che su questa festa e sul complesso cerimoniale ci ha consegnato uno studio analitico ed esemplare – «sembrano riprodurre, stilizzati e riadattati, alcuni contrassegni fondamentali dell’antica dea Madre, che per le sue molteplici qualificazioni si ostenta come simbolo delle forze vitali e generatrici». L’associazione al culto del doppio gemellare rappresentato dai santi Cosimo e Damiano si offre – aggiunge Giallombardo – «come conferma di un antichissimo linguaggio che sulla pertinenza, a livello profondo, delle immagini potenziate della vita ha individuato un fondamentale asse performativo della realtà». Scomparsi i pupiddi nanau, restano oggi i dolci antropomorfi, i biscotti di farina e miele che riproducono i santi, incorniciati da una elegante architettura, con i loro emblemi connotativi, la palma e la scatola per le medicine, secondo un’iconografia esemplata sulle stampe popolari. Anche questi santi protettori delle malattie più diverse sono destinati ad essere mangiati, nel contesto di una festa che celebra con la tradizionale frenetica corsa della vara l’esibizione delle energie virili e la rigenerazione delle forze della natura.
Altri pani antropomorfi e anatomorfi con funzioni votive sono presenti in altre occasioni cerimoniali. Per esempio, per la festa di santa Febronia a Palagonia, dove si prepara un pane a forma di braccio con farina, uova e zucchero, a riproduzione della reliquia della santa patrona che si conserva nella chiesa madre e si porta in processione il martedì successivo alla Pasqua. Nel giorno di san Giovanni Battista a Raffadali e ad Aragona altri cuori, braccia, teste convertiti nella sostanza del pane ricorrono per ringraziare il santo per la guarigione ricevuta. Nello stesso giorno ad Augusta – scrive Pitrè sulla base di una testimonianza dello storico locale Salomone – «si commemora il battesimo di Gesù battezzando i pupi di San Giovanni, maschere di pasta dolce, a ciascuna delle quali è attaccato un pezzetto di canna, per poterla rivestire ed adornare con nastri colorati come bambini da latte». Il pane in questo contesto sanciva il rito di notifica e formalizzazione del comparatico: il compare afferrava con i denti il naso del pupo, confezionato in casa dalla coetanea, «apparecchiata – precisa Pitrè – alla solennità», lo rompeva e se lo mangiava. Il gesto battezzava la parentela spirituale, l’alleanza simbolica ma segnava anche l’iniziazione della fanciulla nella società degli adulti.
L’elenco dei pani rituali antropomorfi la cui manifattura è connessa alle vicende del martirio e alle peculiarità taumaturgiche di determinati santi, potrebbe probabilmente continuare. Molti sono poco più che un ricordo sempre più sbiadito e incerto. I tratti figurali e i caratteri formali di alcuni di essi si sono dissolti o trasformati, per effetto della disgregazione e riplasmazione dei sistemi rituali. «Quella che si declina nella circolazione dei pani cerimoniali – ha osservato Ignazio E. Buttitta – è una millenaria metafisica alimentare di cui si sono perse oggi le coordinate del senso». Può così accadere che un pane anatomorfo in origine votivo diventi quotidiano, come il rugnuni o rugnuneddu, che si confeziona e si vende nei panifici del Ragusano e in passato anche a Palermo. E analogamente accade che la tradizione popolare di modellare il pane in figure plastiche diventi una ricerca artistica, una certa pratica del tempo libero, e perfino una moda contemporanea abbastanza diffusa del fai da te.
Resta vero tuttavia che fare il pane, se non è più sicuramente un rito domestico e familiare, è ancora, per i significati che evoca e le storie che sottende, un po’ come fare o rifare l’uomo, dal momento che nel pane, nella duttilità della sua materia, docile e versatile, nel suo impasto di umanità e sacralità, si continuano a cercare le ragioni profonde della vita e del mondo, si continua ad esercitare l’immaginario dell’uomo che ha saputo dare forme e consistenze sempre diverse a quell’unico alimento in nome del quale ancora oggi milioni di uomini tentano spesso in modo drammatico di sfuggire alla fame. «Del fenomeno migratorio – ha scritto Enzo Bianchi – non c’è spiegazione più tragicamente semplice dell’evidenza che sempre gli affamati corrono verso il pane perché il pane non corre dove c’è la fame». Ecco perché nel segno di questo millenario compagno dell’uomo è possibile che i popoli del Mediterraneo imparino a conoscersi e a riconoscersi in una storia millenaria e in una cultura comune, ritornino cioè a dialogare e intrecciare alleanze e amicizie, costruiscano feconde condivisioni e pacifiche convivenze. Oggi è più che mai vero quel che dice un vecchio proverbio diffuso presso il popolo nomade per eccellenza, i gitani o tzigani: «Mentre i ricchi sognano i sogni, i poveri sognano il pane».
Dialoghi Mediterranei, n.26, luglio 2017
[*] testo dell’intervento presentato al convegno “Cerere e il Mediterraneo”, Palermo 7 giugno 2017
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Antonino Cusumano, ha insegnato nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo. La sua pubblicazione, Il ritorno infelice, edita da Sellerio nel 1976, rappresenta la prima indagine condotta in Sicilia sull’immigrazione straniera. Sullo stesso argomento ha scritto un rapporto edito dal Cresm nel 2000, Cittadini senza cittadinanza, nonché numerosi altri saggi e articoli su riviste specializzate e volumi collettanei. Ha dedicato particolare attenzione anche ai temi dell’arte popolare, della cultura materiale e della museografia. È autore di diversi studi. La sua ultima pubblicazione è la cura di un libro-intervista ad Antonino Buttitta, Orizzonti della memoria (2015)
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