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di Silvia Pierantoni Giua
Sono stata in Siria nel 2008 e mi è rimasta nel cuore, ora me ne sono ricordata poiché uno dei protagonisti di questa storia si chiama in un modo simile. Ma come le altre storie che sto per raccontare, c’entra poco, se non proprio per il nome, e per il fatto che penso che, vivere senza guardare vedendo e sentendo, non ha senso.
Le mie radici sono a Rapallo, una cittadina in provincia di Genova. E oggi, in un caffè, ho incontrato Vittorio, il fratello di un mio carissimo amico. Chiacchierando, ci siamo trovati a passeggiare seguendo la costa, e così le idee hanno cominciato a riordinarsi.
Essendo ligure, conosco Genova da molto tempo, e in particolare il suo centro storico – che si dice essere il più antico d’Europa –; inoltre, quando nel 2010 presi parte al progetto “Coro Popolare della Maddalena” con mia sorella, in arte Giua, e Piermario Giovannone, ho avuto modo di approfondire questa conoscenza.
Genova, nella sua esistenza, è stata palcoscenico di tante vite e tante storie. Ho deciso di testimoniarne alcune. Girovagavo per quelli che a Genova chiamano caruggi per motivi legati al mio lavoro: volevo raccogliere la bellissima voce di una donna per Share Radio, un’emittente radiofonica di Milano. Abita nel ghetto, come tante altre transgender della sua età.
Incontro casualmente David e Estevam, due ragazzi che vivono per strada, rispettivamente da circa cinque e sei anni. L’uno ha 20 anni, l’altro 23, se ricordo bene. Sono italiani ma figli di stranieri. Ne portano i segni come stigma sociali nello sguardo degli altri. Con loro c’era Dalí, un cane meraviglioso che poi scopro essere di una bellissima ragazza, vero cuore di questa storia.
F. credo sia di origini genovesi, in ogni caso, vive nei vicoli con la sua famiglia e si era appena lasciata con un ragazzo splendido di cui non ho il permesso di pubblicarne il nome. L’ho visto, e a nome di F. gli ho chiesto di restituirle la valigia dei suoi disegni e una piantina lanciata dal terrazzo che decido di piantare in un vaso della piazza dedicata a Don Gallo.
Dinamiche di gruppo di giovani inquieti, costretti ai margini delle nostre società ma padroni delle strade, dei vicoli e dei caruggi della città, saltimbanchi della vita e delle convenzioni. Genova è ospitale e accogliente, come lo sono i porti, i moli, l’aria di mare. All’ombra dei caruggi trovano riparo e protezione.
Decido di passare del tempo con loro perché mi avevano lasciato un profondo segno nel cuore. I ragazzi di strada che si rendono invisibili al nostro sguardo distratto e indifferente partecipano di un mondo che è fatto di bricolage, libertà, azzardi e sconfinamenti, commistioni di stili di vita, esperienze di borderline e quotidiana arte dell’arrangiarsi. Sono, a pensarci bene, figli della globalizzazione. Nulla a che vedere con i ragazzi di strada di pasoliniana memoria.
Cosa c’entra dunque la prima ragazza citata in questa storia? Non la conosco e non l’ho mai vista ma i ragazzi, David e Estevam, mi hanno raccontato che non ha bisogno di essere ricoverata in ospedale. Era una sera come un’altra; i ragazzi stavano ridendo bevendo e scherzando insieme.
S. è un’ex ragazza di Estevam, a un certo punto pare che abbia avuto una sorta di attacco di panico. Estevam, che la conosce bene, decide di salire con lei sull’ambulanza che qualcuno aveva chiamato.
Un agente ha preso Estevam per un braccio per tirarlo giù dall’ambulanza perché non conosceva la loro storia: non poteva sapere che erano stati insieme e che lui voleva calmarla, non certo molestarla.
Essendo un ragazzo di strada ed avendo anche qualche piccolo precedente, sono giunti altri poliziotti e il conducente dell’ambulanza è sceso, giustamente, dal veicolo.
Le forze dell’ordine gli hanno spruzzato lo spray al peperoncino sugli occhi a pochissima distanza. Tra le altre cose – al di là del fatto che questo non è consentito ma Estevam opponeva resistenza all’arresto – non potevano sapere che ha problemi agli occhi e soffre di epilessia. È cominciata la baruffa: i poliziotti lo hanno malmenato e infine arrestato mentre lui ha leso il conducente e una forza dell’ordine.
Lo hanno condotto in caserma, lo hanno malmenato, gli hanno negato l’acqua per tutta la notte mentre era chiuso in cella dalla quale è uscito solo alle 2:00 del pomeriggio successivo con tre denunce senza il rilascio di alcun foglio.
La protagonista di questa storia non è mai stata portata in ospedale, non saprei dire se per fortuna o sfortuna.
Ma torniamo al filo conducente di tutte queste storie, ovvero F. la proprietaria di quel meraviglioso cane, Dalí. Purtroppo, da quando hanno litigato un’altra di quelle sere, non l’ho più vista. Le avevo regalato una gonna fatta su misura dalle sapienti mani di un sarto senegalese che ha un negozio nella zona “pre,t à porter” nell’ultimo tratto della rinomata via Pré.
Forse la rivedrò questa domenica che mi ritroverò certamente nel meraviglioso ‘casco’ del centro storico genovese. Farò forse altri incontri ma non riesco a dimenticare quell’umanità di marginali, la violenza dei poliziotti che sembra il prodotto della brutta aria che tira.
Ma scusate ho fatto un errore all’inizio di questo articolo.
Il vero cuore di questa storia, il vero filo conduttore, la storia tra le storie non è nessuna delle donne da me citate, bensì l’amicizia o l’amore, che poi sono la stessa cosa, di David ed Estevam, che ho avuto la fortuna di incontrare in quel pomeriggio soleggiato di primavera.
Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020
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Silvia Pierantoni Giua, si specializza in arabo e cultura islamica durante il corso di Laurea Magistrale in Lingue e culture per la comunicazione e la cooperazione internazionale all’Università degli studi di Milano. Approfondisce poi la tematica della radicalizzazione islamista in occasione della stesura della sua tesi di laurea di Ricerca in Psicoanalisi diretta dallo psicoanalista F. Benslama, che ha discusso nel giugno 2016 all’Università Paris VII di Parigi. Attualmente si occupa della stesura di un progetto per la prevenzione del fenomeno del fanatismo.
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