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Intellettuali, accademici, studiosi, antropologi

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Volgendo lo sguardo a terra (ph. Federico Faeta)

per non ricominciare

di Francesco Faeta [*]

La scienza sociale non può costituire se stessa se non rifiutando la domanda sociale  di strumenti di legittimazione o di manipolazione (Pierre Bourdieu, Leçon sur la leçon, 1982).

Aprivo il mio articolo di qualche settimana fa, apparso su questa rivista (Appunti per non ricominciare. La cultura), con la constatazione dell’urgenza della rentrée negli stadi («le società calcistiche – scrivevo –, ciò costituisce una preoccupazione universale, sono alla canna del gas»).

E mentre inizio a scrivere oggi per intervenire nel dibattito in corso, il rientro in effetti vi è stato; nella città in cui vivo la nazionale di calcio sta affrontando quella di un Paese governato in modo autoritario e liberticida, nella generale soddisfazione. Il vocabolo nuovo, però, imprevisto considerata la gestione collettiva della pandemia, così immemore ed egoistica, è nel patriottismo. Il Paese che ha avuto il più alto numero di morti in proporzione alla sua popolazione nel mondo (sicuramente in quello occidentale), continuando bellamente a ignorarli, si commuove per questo ri-inizio nazionale e popolare, con tanto di lacrime, inni e contorno di tifo; più simile, in realtà, a quello ultrà che a quello dei buoni italici padri di famiglia. Do una sbirciata al televisore, nessun lutto al braccio per i nostri eroi, non è il caso di evocare tristi pensieri.

Le poetiche del ri-inizio sono state, in qualche misura, soppiantate dalle politiche del ritorno alla normalità (perché quella che vivevamo quotidianamente prima dell’apocalisse, per chi non lo avesse compreso, era una vita sociale, culturale e politica, normale). Sul piano internazionale, poi, la bovina rassegnazione rispetto all’evento va cedendo il posto, con l’attuale presidenza democratica degli Stati Uniti, alle energiche richieste di conoscenze certe sulle origini del virus (animali o artificiali), richieste da usare scaltramente sullo scenario della politica globale per intimidire e negoziare complicità e alleanze (come se il problema, in una realtà in cui sono emersi centinaia di laboratori nel mondo che lavorano la stessa materia sporca per i medesimi nobili fini, fosse un’eventuale ingegnerizzazione del virus; come se il problema non fossero i rapporti geopolitici che hanno reso possibile al virus di divenire ciò che è divenuto).

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Volgendo lo sguardo a terra (ph. Federico Faeta)

Ma non è su questi temi polemici che vorrei nuovamente soffermarmi (anche se la tentazione è grande). Gli interessanti articoli comparsi sin qui (Lia Giancristofaro, Giovanni Cordova, Augusto Cavadi, Alberto Biuso, Lella Di Marco, Vito Teti, Sergio Todesco, Giovanni Gugg, Davide Accardi, Linda Armano, Giuseppe Sorce, Nicola Martellozzo, Luigi Maria Lombardi Satriani), senza eccezione mi sembra, hanno fatto propria l’indignazione e l’amarezza che manifestavo nel mio, e insistere finirebbe per essere querulo, oltreché moralistico. Abbiamo tutti ben chiara, mi sembra, la geografia della normalità in cui ci si chiede di rientrare e la portata del nostro dissenso.

Al di là degli aspetti condivisi, in realtà, ognuno degli articoli in questione ha messo sul tappeto, con lucidità, problemi specifici (dall’attività nella scuola e nell’università, alle considerazioni sul fare cultura, e sul ruolo degli intellettuali e degli antropologi; dalla realtà degli spazi periferici alla consapevolezza del carattere ecologico della riflessione odierna sul virus e sul dopo-virus), evocando spaccati etnografici, contesti concreti, esperienze di lavoro, attingendo a quadri teorici, per lo più recenti, ma dotati di una loro plausibilità e, in qualche caso, autorevolezza. La gamma delle questioni sollevate è talmente ampia che non saprei veramente da dove cominciare, se volessi riassumere, anche se avverto sicuramente alcuni interventi più suscettibili di uno sviluppo dialogico e di un’ulteriore elaborazione critica.

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Forse però ciò che manifesta un’indiscutibile centralità è la questione del ruolo dell’intellettuale (e dei suoi annessi e connessi) nella società neoliberista contemporanea. Sulla quale vorrei, dunque, provare a soffermarmi ancora.

Credo di aver palesato rammarico, nel mio scritto, se non altro in modo implicito, per la scomparsa dell’intellettuale, quale poteva essere Pasolini; o Sartre e De Beauvoir, a esempio, in Francia. Non si tratta di nostalgia, ovviamente. Dal punto di vista storico è stato così: una stagione dell’impegno intellettuale, nelle forme in cui si è espressa nelle seconda metà del secolo scorso, è certamente finita. Ed è finita perché il potere, nella sua forma liberal-democratica come in quella che caratterizza il sempre più rampante capitalismo autocratico, ha del tutto svuotato gli spazi espressivi dell’antagonismo radicale, li ha ridotti a nicchia o folklore, nel senso diminutivo del termine che mi permetto qui di usare (gli “antagonisti”, appunto).

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Facendo di necessità virtù, occorre ripensare, dunque, la figura sociale di colui che impiega il proprio bagaglio culturale in funzione di una radicale rimessa in discussione degli ordini vigenti, del “dire la verità”, come sinteticamente titolava Edward Said. E in questo generale ripensamento, un pensierino va dedicato proprio agli studiosi di scienze sociali. Nel nostro travagliato processo di riordino occorre abbandonare, forse, la postura di intellettuale a favore di quella di studioso (e del resto la forte critica verso gli ordini costituiti, già da un bel po’ vede, accanto agli artisti e ai filosofi, gli studiosi; è superfluo qui ricordare ai lettori Bourdieu, Foucault, Said, Hobsbawm, Sen, Appadurai, Amin, Bauman, per non fare che qualche nome). Molti di questi studiosi, se non tutti, sono stati anche accademici; molti di loro, al contempo, avrebbero avuto qualche difficoltà a considerarsi meramente intellettuali (anche se la definizione ulteriore di intellettuale marginale o periferico, su cui si sofferma Lombardi Satriani, e su cui occorrerà, a mio avviso, ulteriormente riflettere, potrebbe aiutare e mitigare il loro scetticismo e il loro fastidio in merito).

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Mi sembra che una funzione imprescindibile di confutazione degli ordini esistenti possa essere oggi svolta, dunque, con nuova legittimazione, dagli studiosi di scienze sociali. Quel tipo di irriducibilità antagonista propria degli intellettuali del secolo scorso, storicamente sconfitta, può oggi essere rimpiazzata da quella degli studiosi; gli spazi discorsivi e gli stili enunciativi precedenti possono essere opportunamente rimodellati. La contestazione degli ordini costituiti operata dagli studiosi può essere sostenuta, tra l’altro, non soltanto da un apparato etico, ma dalla sicura individuazione delle leggi sociali che hanno consentito e consentono le trasformazioni in atto.

La compressione degli spazi di libertà che il sistema ha potuto operare nei confronti delle voci poetiche dell’antagonismo, qui ha meno possibilità di realizzarsi. Gli spazi dei laboratori di scienze sociali non sono stati ancora del tutto normalizzati. L’Accademia, malgrado quanto dirò più avanti, offre ancora margini di resistenza alla riorganizzazione del campo intellettuale propria del neocapitalismo illiberale. E gli studiosi che sono al suo riparo, forse, hanno ancora qualche possibilità di esprimersi e di acquisire, attraverso la circolazione delle idee, autorevolezza pubblica. Del resto, che il testimone sia sovente passato di mano, in Europa come negli Stati Uniti, dalla generica cerchia degli intellettuali, a coloro che si riparavano sotto le cupole della Sorbona (o della Sapienza), e poi, a volte a coloro che stazionavano nelle redazioni delle case editrici (si pensi da noi alla Einaudi), è stato a volte rilevato; Regis Debray, a esempio, nel suo assai noto studio sul potere intellettuale in Francia, del 1979, lo afferma apertamente e ha promosso, in merito, una duratura e varia riflessione.  

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Qui però si deve affrontare un nodo, del resto adombrato, mi sembra, nell’intervento di qualcuno e, in particolare, di Martellozzo. Militanti, gli studiosi di scienze sociali, o testimoni? Molti degli scritti pubblicati su Dialoghi Mediterranei vedono nell’impegno in prima persona, sul terreno, nel contesto di una scienza sociale applicata, nell’elaborazione di soluzioni “concrete” per le comunità marginali, i gruppi deprivilegiati, le minoranze e le realtà etniche in sofferenza, la missione dello studioso. A me sembra che questa imprescindibile partecipazione debba però servire essenzialmente a quest’ultimo. A formare, cioè, la base d’esperienza sociale su cui costruire il suo impegno critico di testimone. Mi sembra che, oggi più che mai, abbiamo bisogno di “idee per una nuova società”, dopo il crollo delle grandi utopie rivoluzionarie e l’erosione implacabile dei margini di mediazione (e plausibilità) delle socialdemocrazie e dei connessi sistemi di welfare. Stare nel mezzo dei regimi di disagio e sofferenza, nel vivo delle problematiche sociali e degli spazi conflittuali non aiuta in modo im-mediato e determinante quei gruppi a trovare soluzione ai loro problemi (credo poco in questa funzione illuministica, così vicina al volontarismo studentesco degli anni Settanta). Ma aiuta chi vi sta, con un proprio bagaglio intellettuale e scientifico per molti versi in via di definizione, a trovare soluzioni adeguate sul piano teorico, a formare idee, affinare pratiche, elaborare rappresentazioni da portare nel vivo del dibattito contemporaneo e di quella che ancora ci ostiniamo a chiamare società civile.

In questa prospettiva, tuttavia, occorre soffermarsi brevemente sull’innocenza degli scienziati sociali, in particolare di coloro che hanno alle spalle quel prezioso paracadute, come abbiamo visto, costituito dal loro ancoraggio accademico. Personalmente non condivido la considerazione univoca degli accademici espressa, con particolare riferimento a quelli statunitensi, da Russell Jacoby nel suo saggio del 1987 (The Last Intellectuals: American Culture in the Age of Academe), assai dibattuto, come si ricorderà; lo storico manifestava lì una profonda nostalgia per l’intellettuale classico, ormai scomparso, e una radicale e generale diffidenza per gli accademici.

1_72A mio avviso, e con particolare attenzione alla situazione italiana contemporanea, essi non sono tutti eguali. Alcuni, non i peggiori, sono quelli che hanno deliberatamente sposato le ragioni del potere e delle sue agenzie sociali. Fanno consulenza per loro, razionalizzano, aiutano a smussare la frontalità delle contraddizioni sociali, consentendo a chi ha potere di prosperare e a essi stessi di essere (ben) retribuiti. Credo di poter esprimere una certa considerazione nei loro riguardi, per la chiarezza della loro posizione. Accademia, per loro, vuol dire struttura consolidata di un potere alleato di quello economico e colluso con le numerose istanze politiche di sostegno; significa razionalizzazione dei processi di produzione materiale e intellettuale ed eliminazione delle zone di conflitto. Con i loro abiti di mezza firma da politico e da tecnocrate (figure che sotto sotto costituiscono il loro modello d’ispirazione), essi sono in genere ben individuabili, chiari e diretti, comprendi subito di cosa parlano e cosa desiderano. Bourdieu, ne La miseria del mondo, ne ha tracciato ritratti indelebili, stagliati sullo sfondo della crisi economica e della ristrutturazione neocapitalista; ma a crisi evoluta verso le nuove forme di tirannia capitalistica, la fisionomia di tali personaggi non appare molto mutata.

Altri, all’opposto, lavorano per mettere a servizio del disagio sociale le loro competenze, con prospettive più o meno efficaci d’intervento (ma questo non è qui rilevante). Pagano, in genere, un prezzo alto in termini di potere accademico e ne escono vivi se hanno grandi risorse intellettuali e morali e se acquisiscono un loro personale prestigio.

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Vi è poi, come in tutte le realtà (e le agenzie) sociali, una cospicua maggioranza di sommersi (li troviamo dovunque in questi anni, distinti dalle magliette da finto accademico statunitense, con i suoi Snoopy con fumetto intelligente o i suoi Mickey Mouse che sprizzano ironia). Moralizzatori integerrimi, polemici sostenitori di ogni istanza di valutazione (senza chiedersi mai chi siano i valutatori e chi i valutati e quale sia la logica della valutazione dietro le sue rassicuranti declaratorie), spesso e volentieri cooptati essi stessi nel ruolo di valutatori, ruolo che interpretano, in genere, con encomiabile piglio inquisitorio. Modernizzatori, soprattutto, grandi nemici del potere accademico arcaico, in nome di un potere accademico moderno, fondato su algoritmi, curve, livelli, dunque oggettivo, inconfutabile, finalmente esente dall’arbitrarietà dei (vecchi) baroni, puro e inconfutabile. Un potere che non è più di nessuno, che si è dissolto, fondato, com’è, su una qualità equanime; per così dire, de-antromorfizzato, quasi come la composite photography del polymath inglese Francis Galton che riusciva, insieme, a de-autorializzare la rappresentazione e a privare di ogni tratto individuale il suo soggetto, costruendo, com’egli affermava, il «portrait of a type and not of an individual». Un potere auto-generato dalla sua stessa qualità; suppostamente anglo-sassone (mentre quello anglo-sassone, stimato come eterno e immarcescibile, mutava anch’esso sotto la spinta del neo-liberismo), quanto di più lontano da un reale criterio di merito.

L’istituzione accademica raccoglie nel suo seno, come si vede, figure e progetti di scienza e di vita, assai diversi. Ed è, tuttavia, lo dico con inguaribile e corporativo ottimismo, forse l’unica sede in cui qualche resistenza e resilienza all’imperante progetto egemone può essere ancora concepita. Lo ricordava, con molta efficacia Said, in due sue conferenze, Rappresentazioni dell’intellettuale e Professionisti e dilettanti, del 1993, che affrontavano con la sintetica esaustività che gli era propria, alcuni dei temi che qui pongo alla nostra attenzione, quando ricordava la funzione positiva dell’Università e la sua capacità di custodire l’intellettuale nell’involucro protettivo dell’accademico, evocando figure quali quella di Glen Gould, di Hobsbawm, di Edward Palmer Thompson, di Hyden White, di Charles Wright Mills. Naturalmente, tale resistenza e resilienza necessitano di un particolare tipo di azione e di pensiero.

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Sul piano pratico ciò significa sostenere oggi una battaglia strenua per liberare l’accademia dalle istanze stataliste, capitaliste e neo-liberiste, dal controllo e dal condizionamento del potere politico (viepiù invasivo anche nel nostro Paese); per restituirle una reale autonomia basata sul primato della qualità sulla quantità, della conoscenza critica e dell’impegno teorico, sulla routine mercantile e sull’immediatezza pragmatica. Abbiamo sotto gli occhi, forse per questo non li riusciamo a distinguere, i meccanismi d’impatto che orientano il flusso delle risorse in direzione delle grandi istanze conformiste e capitaliste; sappiamo bene quanto potrebbe valere oggi, sul piano dell’apprezzamento accademico dei “valutatori”, una monografia quale La terra del rimorso, certamente surclassata, nella logica delle mediane da un breve e laconico saggio su rivista internazionale opportunamente indicizzata. Occorre lavorare per rompere il monopolio in questione, partendo da una radicale confutazione delle gerarchie valutative globali così come sono state imposte all’accademia (e così come l’accademia tenta di imporle a se stessa).

Su di un piano più complesso, che riguarda l’eterogenea esegesi del lavoro intellettuale e delle posture individuali, credo che occorra decostruire l’accademico per farne provvisoriamente un intellettuale, per poi immediatamente decostruire l’intellettuale per farne uno scienziato sociale; un processo non facile, che necessita di grande lucidità teorica e di un diffusa capacità di autoanalisi.

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Vi è un ultimo punto su cui, abusando della pazienza del lettore, vorrei brevemente soffermarmi, perché mi è sembrato di non essere stato sufficientemente chiaro nel mio intervento passato. E questo punto riguarda particolarmente, tra gli studiosi di scienze sociali, gli antropologi. Ricordavo l’importanza di partire da una concezione antropologica di cultura, nel tentativo di ristabilire le ragioni di una cultura colta sul bruto determinismo della relazione sociale. Bene, questo significa però due cose. Comprendere, innanzitutto, che le forme della cultura vissuta, anche le meno condivisibili dal punto di vista della cultura intellettuale e dell’ethos collettivo, sono suscettibili di elaborazione critica, di auto-anamnesi, di evoluzione democratica. Ciò comporta di stare tra le cose e le persone con una profonda umiltà e rinunciando, sperimentalmente, all’implicita gerarchia valoriale che finiamo sempre, malgrado i nostri esercizi zen, per portare con noi sul terreno. Ma comprendere, anche, in secondo luogo, che l’ambito concettuale compendiato nel termine cultura è profondamente ingannevole. Serve a mascherare la nuda realtà dei fatti, che è essenzialmente sociale.

Con riferimento al suo concreto oggetto di riflessione, i manufatti artistici, Alfred Gell, come si ricorderà, scriveva: «i giudizi estetici sono solo atti mentali; gli oggetti d’arte, al contrario, vengono prodotti e circolano nel mondo esterno, materiale e sociale». Ecco la cultura è un mero atto mentale, la società invece è ciò che costituisce il concreto scenario esterno, materiale e sociale, in cui i nostri corpi sono immersi e i nostri atti mentali acquistano significato. Partire da una concezione antropologica della cultura, dunque, significa un allargamento a tutte le forme dell’umano, ma significa anche una rigorosa confutazione del piano astratto e idealistico della cultura stessa.

Dialoghi Mediterranei, n. 50, luglio 2021
[*] Le fotografie che accompagnano questo articolo sono di Federico Faeta, diplomato in Fotografia presso l’Istituto Europeo di Design. Nel 2007 ha frequentato il Master di Fotogiornalismo presso l’Istituto di Fotografia e Comunicazione Integrata (ISFCI) di Roma. Lavora attualmente come fotografo professionista, esponendo sue immagini in numerose località italiane. Nel corso della sua carriera ha avuto incarichi di collaborazione presso istituzioni come il Ministero per i Beni e le Attività Culturali (Mibac, ora MiC); il Museo Demologico dell’Economia, del Lavoro e della Storia Sociale Silana di San Giovanni in Fiore (Cosenza), l’Università degli Studi di Valladolid (Spagna). Ha in corso di realizzazione numerosi progetti fotografici, tra cui un esteso studio di ricognizione sulla dimensione urbana occidentale, dal titolo Visioni urbane.

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Francesco Faeta, professore di Antropologia culturale, ha insegnato presso le Università della Calabria e di Messina; insegna ora presso la Scuola di Specializzazione per i Beni Culturali DEA dell’Università “La Sapienza” di Roma. Docente Erasmus nelle Università di Valladolid e de’ A Curuña, è stato Direttore di Studi invitato all’École Pratique des Hautes Études di Parigi, nel 2004, fellow e associate researcher dell’Italian Academy for Advanced Studies in America presso la Columbia University, nel 2012. Ha effettuato ricerche in ambito europeo, con particolare riferimento al Sud d’Italia. Fa parte dei comitati scientifici di riviste italiane e straniere e dirige, per Franco Angeli, la collana Imagines. Studi visuali e pratiche della rappresentazione. Tra le sue ultime pubblicazioni Le ragioni dello sguardo. Pratiche dell’osservazione, della rappresentazione e della memoria, Torino, Bollati-Boringhieri, 2011; Fiestas, imágenes, poderes. Una antropología de las representaciones, Vitoria Gasteiz-Buenos Aires, Sans Soleil Ediciones, 2016; La passione secondo Cerveno, Milano, Ledizioni, 2019; Il nascosto carattere politico. Fotografie e culture nazionali nel secolo Ventesimo, Milano, Franco Angeli, 2019; L’albero della memoria. Scrittura e immagini, Palermo, Museo Pasqualino 2021.

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