di Giovanni Piazza [*]
Il Ramadan è un mese dell’anno mussulmano in cui si osserva il digiuno fra il popolo islamico; esso significa periodo di penitenza ed equivale alla Quaresima cristiana – Non capita mai in epoca fissa, ma varia di anno in anno, computo fatto seguendo le fasi lunari. Il suo termine è festeggiato col “Piccolo Bairam” corrispondente alla Pasqua. Fra le popolazioni indigene della Tripolitania, la parola Ramadan viene anche usata qual nome proprio di persona di genere maschile.
Il mussulmano credente e praticante, durante quel mese, dall’alba al tramonto, sottopone il suo corpo all’astinenza e ad un rigoroso digiuno, pena la fustigazione in pubblico e la prigione per i trasgressori, punizioni inflitte dai Kadi o giudici dell’Islamismo. Pertanto, non mancano mai gli scrupolosi fanatici, sempre pronti ad accusare il correligionario che avesse infranto il digiuno col bere un sorso d’ acqua o col fumare un mozzicone di sigaretta nelle tediose giornate calde o nelle ore di riposo; sarebbe un merito il più grande, il più ambito.
Però tale pericolo i più furbi sanno eludere conservando le apparenze, presenziando a tutte le adunate per la preghiera collettiva durante il giorno, fingendo di essere estenuati e tenendo ben serrato fra le dita un ben visibile rosario, salvo poi, a porte chiuse fare i propri comodi.
Il rigore per il digiuno vale per i mussulmani d’ambo i sessi e per le diverse età; dal giovanotto all’ incirca quattordicenne al vecchio che può, se le forze glielo permettono, compiere il sacrificio. Però, fra gli arabi, specialmente fra i nomadi e gli analfabeti, parlare di età è una quistione alquanto complicata, giacché non tutti i capi famiglia sono in grado di segnare la data di nascita dei propri figliuoli e farne occorrendo il computo. In tal caso, come stabilire l’età dell’iniziato?
È dalla data pressappoco della nostra occupazione che in Tripolitania si istituirono per tutte le razze veri e propri registri legali di nascita, di matrimonio e di morte. Ma il mussulmano, molto fanatico della sua religione, è assai pratico nel risolvere i quesiti della sua vita privata; e pur di avviare il figliuolo adolescente ai princìpi della religione avita, allena prima del tempo prescritto l’adolescente al sacrificio del digiuno, salvo a perdonargli il mangiare o bere prima dell’ora stabilita dal Corano.
Ma giunge il giorno in cui l’indulgenza paterna si trasforma in rigida, severissima intransigenza ed è quando il figliuolo, giunto alla pubertà, entra a far parte della comunità religiosa, viene sottoposto all’ osservanza del digiuno e delle leggi sancite dall’Islamismo. E – d’altra parte – il ragazzo ci tiene a digiunare, egli si sente già un uomo, vuol essere trattato da uomo, poter compiere tutto ciò che fa l’uomo. Quanti, nell’interno, a quattordici anni sono sposi e talvolta padri!
Come ho già detto, Ramadan è sinonimo di digiuno che equivale a sacrificio e il mussulmano è felicissimo di compierlo per la sua salvezza spirituale. Gli arabi mussulmani, com’ è loro usanza, durante tutto il Ramadan, rimangono digiuni nel corso della giornata, salvo poi dal tramonto del sole fino all’alba, darsi alle esagerate gozzoviglie ed a sbornie di “leghbi”, di “buca” e di vino che, contrariamente ai dettami del Corano, alcuni tracannano a iosa.
In alcuni mussulmani (i bigotti) lo scrupolo e il fanatismo per l’assoluto digiuno soverchia qualsiasi limite. Ne volete sentirne una? Quasi tutte le scuole urbane, istituite dal Governo della Colonia, sono fornite di apposite sale di medicazione, affidate ad ottime infermiere sotto la diretta sorveglianza del Sanitario Scolastico per la giornaliera profilassi dei bimbi tracomatosi, tignosi, scrofolosi e deboli. Fra i beneficiati sono i fanciulli mussulmani quasi tutti e nella maggioranza tracomatosi e tignosi sia per poca pulizia personale, sia per contagio.
Durante il Ramadan il numero di tali allievi, presenti alla medicazione, decresce sensibilmente, riducendosi quasi a meno della metà, fenomeno che si verifica non per un inatteso miracolo di guarigione in massa, ma perché i più grandicelli soggetti al digiuno, si rifiutano in modo assoluto di ingoiare ricostituenti e di sottoporsi alla consueta medicazione degli occhi e della testa, convinti che le medicine penetrando dai pori del cuoio capelluto e dalle palpebre, giungano allo stomaco spezzando in tal modo il digiuno. Hai voglia di convincerli differentemente!
Ho tenuto per circa una settimana dei ragionamenti con alcuni maestri mussulmani di una scuola Italo-Araba per persuaderli di certi errori di comprensione, convinto dopotutto che mediante la loro autorità, la loro parola persuasiva avessero indotto gli alunni tracomatosi e tignosi a medicarsi, rassicurando loro che l’uso esterno delle medicine durante il Ramadan non costituisce peccato di sorta. Ma è stato proprio, come suol dirsi, predicare ai ……….turchi! Ecco consultar libri di religione islamica, ecco una serie di esempi pratici per far crollare le loro errate affermazioni; alla fine mi è sembrato scorgere in essi uno spiraglio di convincimento. Possibile?
Due fra i maestri, i più sapientoni, sostenevano dei principii diversi, l’uno rispetto all’altro, per forma e per sostanza; l’uno obiettava all’altro, però in fine ecco la consultazione di due testi di religione mussulmana di autori diversi ed ecco la traduzione di quanto viene affermato da alcuni teologi e dottori di Islam.
Il Meiara di rito Malekita, nel volume primo dei suoi scritti, a pag. 104, afferma:
«Spezza il digiuno l’introduzione nello stomaco di qualunque cosa, per mezzo dell’orecchio, dell’occhio, del naso o d’altra parte, dall’aurora al tramonto».
E più sotto aggiunge:
«È assolutamente proibita l’introduzione di qualunque cosa nella gola che, arrivataci, spezzi il digiuno».
Contrariamente a quanto afferma il suddetto autore, in un altro testo di religione mussulmana, il Meraki El Felaha, così si esprime nel capitolo “Ciò che non spezza il digiuno”:
«Se si mette nell’occhio latte od altre medicine con l’olio [1] non si spezza il digiuno, si sentisse anche il gusto di esse nella gola oppure si trovasse il loro colore nello sputo, giacché l’introduzione per mezzo dei pori non ha nessun valore».
Potevo, dunque, vantar vittoria, poggiando le mie parole su quest’ultimo giudizio. Tutt’altro! La scusa si trova subito in tale divergenza di principii; i due autori qui riportati sono, è vero, mussulmani, però di rito diverso. E così, dopo tante discussioni, crollava la mia tesi, su cui ponevo ogni fiducia di convincimento. Purtroppo, i mussulmani di Tripoli appartengono al rito Malekita, intransigente!
Quanto ho scritto in questo capitoletto, riferendomi alla severità del digiuno mussulmano, vale in parte per alcuni della nostra gente antica, che simile all’attuale arabo, digiunava seriamente durante la Quaresima, dopo aver dato il suo “vale” alla carne ed ai divertimenti. La gente nostra osservava in quei giorni di penitenza lo stretto magro nel Venerdì, nel Sabato e nelle Tempora e talvolta si spingeva oltre.
Più per eccesso di bigottismo o di fanatismo che per sentita fede, preoccupati forse delle pene dell’ oltretomba, vedevamo alcuni battersi col cilicio fino a farsi sangue, camminare scalzi come per ex-voto sia nelle visite ai vari Santuari che nelle processioni; portare un grosso sasso sulle spalle qual è tutt’ora usanza fra i pellegrini che si recano al Santuario di Montevergine nella Campania (se quanto mi è stato riferito risponde al vero) e più ancora, in altri luoghi, un atto antigienico, ripugnante, quello cioè di strisciar la lingua per terra, dalla soglia della chiesa sino all’altare maggiore, penitenze che la Chiesa Romana condanna severamente, ma che il popolino fanatico persiste ancora nel praticarle.
Fine del “Ramadan”
“Uadàa ià Sidi Ramadan” canta il Tibibila l’ultimo giorno del digiuno:
“Addio, al nuovo anno, Signor Ramadan”.
L’astinenza è finita, le sofferenze si dimenticano; ritorna la vita come prima, gaia e tranquilla. Dal Castello della città si sparano a salve parecchi colpi di cannone a cominciare dall’alba e successivamente nelle ore della mattinata, a mezzogiorno e al tramonto. Tal giorno di festa mussulmana si chiama Mausim, ossia vigilia del “Piccolo Bairam” od “Id el ftir” che vuol significare piccola festa, giacché dura appena tre giorni.
Per tale ricorrenza ha luogo in Tripoli la fiera di giocattoli ed assai grande è, presso il mercato, lo smercio di ogni genere; dalle leccornie alle bibite, dalle varietà di frutta ad appetitosi intingoli, che piccoli e grandi divorano con avidità.
Gli arabi indossano abiti nuovi, corpetti di velluto o di seta ricamati in argento e oro, armonizzanti con le tinte più o meno vivaci dei loro indumenti; calzano “babucce” (ciabatte) adorne di lustrini, rendendo un insieme caratteristico e grazioso.
Dopo la preghiera del mattino, recitata in comune presso le varie moschee, i nostri uomini si scambiano auguri baciandosi scambievolmente le mani e le spalle in senso di fratellanza e di reciproco perdono. Proprio in quel giorno il tamburinaio o Tibibila ripassa per le case abitate da mussulmani ai quali avverte l’ora del cibo e della preghiera per la durata del Ramadan ed ottiene in dono denaro, fazzoletti nuovi di vari tipi e misure, dolci, orzo ed altro, meritato compenso del suo solerte lavoro.
Nella sola città di Tripoli vi sono due soli “Tibibila El Turk”, riconosciuti dalla autorità indigena e tale diritto è ereditario da padre in figlio nelle famiglie dei suddetti. Nessun altro può arrogarsi tale diritto; è un vero e proprio diritto di maggiorascato, un canonicato, un’ambita prebenda. Uno di essi gira per i quartieri interni della città, l’altro per i quartieri esterni o nei pressi delle mura di cinta; fuori Tripoli, nelle varie contrade o paesi vi sono altri tamburinai che compiono i giri consuetudinari durante il mese di digiuno. Su d’una specie di mezza grande sfera di cartone sostenuta da un’asta di legno e rivestita di carta indorata e di fiori artificiali detta “sinsigh”, che vorrebbe dire stendardo o bandiera, vi si appendono gli oggetti ricevuti in dono. E il Tibibila portatore dell’asta va preceduto dal tamburo e canta frasi di augurio.
Facilmente lo si potrebbe scambiare per un merciaiuolo ambulante, giacché sono fazzoletti legati ad un lembo che pendono da quel semiglobo multicolore, sono berretti, sono cinture ed altro. Alcuni fazzoletti sono di seta ricamati nei lembi ed alcuni di essi, offerti dai signori, portano il nome del donatore.
La festa del bairam “aid ed daha” ed “id el kebira” (offerta dei sacrifici)
L’Id el Kebir o festa della grande Pasqua mussulmana dura quattro giorni e tale ricorrenza possiamo definirla “Sagra dell’Agnello”. Ogni famiglia, dalla più ricca alla più modesta, si fornisce a suo tempo di agnelli o montoni ben nutriti che verranno uccisi nella mattinata della “Vigilia” del Gran Bairam. È un affaccendarsi di arabi per i preparativi del gran pranzo, ed è caratteristico notare presso il mercato arabo e presso il loro quartiere un rilevante numero di improvvisati arrotini che, con mole girevoli fissate alla buona su due assi, affilano per pochi soldi un notevole assortimento di coltelli, coltellacci e scuri occorrenti ad ogni famiglia mussulmana per sacrificare il mite animale.
In quel primo giorno di festa o “vigilia” gli arabi si alzano di buon mattino, indossano indumenti nuovi fiammanti e in numero rilevante affluiscono alle Moschee o Zanie, per recitare collettivamente le rituali preghiere. Dopo di ciò segue la cerimonia del sacrificio dell’Agnello.
Spetta per il primo all’Imam o capo religioso far sgozzare l’agnello da appositi beccai che si spargono per i quartieri indigeni; essi ricevono per tale servizio cinque lire; dopo, tutti liberamente possono fare uccidere i propri montoni. Il beccaio, nel recidere la gola alle povere bestie, invoca il Nome di Dio, formula di rito qui sotto riportata, e pronuncia il nome della persona per la quale l’agnello viene ucciso.
“Bism Illahi – Allahu ahbar……….,ad esempio per Mohammed ben Abdusselam El Gattus e bent Mariam ben Turki”.
E si vedono allora lungo i vicoli, presso ogni casa araba, le povere vittime distese a terra, rantolanti, con l’occhio vitreo ed immobile, dalle cui ferite sgorga vermiglio il sangue a flotti che, aggiungendosi a quello delle altre, forma veri rigagnoli che vanno a perdersi nelle pozzette delle cloache. Spettacolo un po’ impressionante, specialmente per i piccoli spettatori che a semicerchio, muti, osservano gli effetti della morte, che in tal caso potrebbe dirsi “strage degli innocenti”.
Ma queste sono le tradizioni e tali bisogna conservarle. Quale l’origine di tale festività mussulmana? Quella puramente biblica del sacrificio di Abramo. Il popolo mussulmano vuole con ciò rievocare l’ubbidienza del Profeta “Ibrhaim” a Dio, nel sacrificargli il figliuolo “Ismail”, caso non avvenuto per l’intervento di un angelo che mostrò in cambio l’agnello da sacrificare. Salvo qualche variante nella forma narrativa, il contenuto dell’avvenimento biblico rimane fra i mussulmani inalterato.
Entriamo ora nell’ambito famigliare e cerchiamo di scoprirne le intime usanze. Ucciso l’agnello e squartato in tanti pezzetti, alcuni di essi sono distribuiti ai mussulmani poveri, altre porzionicelle vengono usate per il cibo della giornata e le restanti porzioni, infilate in un laccio e spalmate di sale, sono esposte al sole; così disseccate vengono conservate per altri giorni.
È tradizione che un’appendice del fegato, piccola parte che in gergo arabo è conosciuta col nome di “Zaida” viene arrostita e mangiata unicamente dal capo di famiglia, la persona che con rito biblico (!) fa offerta della vittima a Dio in isconto delle proprie colpe, atto che potrebbe paragonarsi al cristiano precetto pasquale. Quando le condizioni finanziarie lo consentono e nella medesima casa si uccidono più agnelli o montoni, ogni componente la famiglia fa sua quella piccola parte di fegato dell’animale ucciso, secondo il proprio nome e la sua intenzione [2].
Dell’animale tutto viene sfruttato; dalla pelle alla vescichetta di fiele. Quest’ultima viene dalle donne arabe accuratamente legata e fatta essiccare al sole. Il fiele polverizzato servirà alle mamme ed alle bestie allattatrici per svezzare, a suo tempo, i bimbi, ungendo i capezzoli, abitudine simile usata fra le nostre contadine le quali al fiele, per il medesimo scopo, sostituiscono un po’ di chinino diluito nell’acqua o qualche altra sostanza amara, purché innocua.
La festa del “milud” o natale del profeta
Con la ricorrenza del Milud, il popolo mussulmano commemora il natale del Profeta Maometto; ed a voler ripetere una espressione indigena, è considerato giorno di grandissima festa.
La vigilia del Milud, a sera inoltrata, gli arabi organizzano una lunga fiaccolata, che consiste nel portare in giro per le vie e far bruciare un barile pieno di materiale infiammabile, ossia catrame, resina, olio, rivestito di stoppa e resina, stracci, ecc. nonché dei bastoni rivestiti di stoppa e resina brucianti, vere e proprie torce a vento. I ragazzi e le donne invece portano in giro una canna rivestita di carta colorata, adorna di nastri e di fiori artificiali, detta Kàmesa sulla quale, alla estremità superiore, sono conficcate cinque candele disposte a ventaglio, volendo simboleggiare una mano propiziatrice contro la iattura e il mal d’occhio, che altri vogliono chiamare “Mano di Fatma”.
Il barile in fiamme, dal quale una densa colonna di fumo s’innalza al cielo, è quasi sempre collocato su quattro assi e portato sulle spalle dai più fanatici. Gli altri elementi bianchi e negri, partecipanti alla fiaccolata, che in gergo chiamano “ghindil” dall’italiano candela, traboccanti di entusiasmo, accompagnati dal suono di pifferi e cornamuse, e dal rullo dei tamburi, cantano a voce alta i versetti seguenti rendendo, nell’oscurità della notte, la visione di una bolgia infernale:
“Hada ghindil, u ghindil,
Fatma giabet Kalil.
Hada ghindil ia Hauua,
Mel mugrub iscil li tauua”.
Questa fiamma, o fiamma,
Calil (nome di Santone) nato da Fatma.
Questa fiamma di Hauua (nome di donna)
Dalla sera brucia sin’ora.
Allo sciogliersi della fiaccolata, i fanciulli con il resto delle loro candele, vanno di casa in casa dei propri parenti a far gli auguri e ivi le donne li accolgono con garruli trilli di allegria, detti “zagratat”.
La mattina dopo, festa del Milud, esce dalla Zauia o confraternita, la Hadra o processione e gira per tutte le vie principali della città, avviandosi verso i marabut o tombe di Santoni. Molti sono i labari o “Sinsigh” e fra i tanti “marabut” o “Santoni viventi” che vi partecipano, ve n’è sempre qualcuno, fanatico, che porta attorcigliato al suo collo un serpente vivo per dimostrare al popolo la sua potenza domatrice e altri Santoni che danno impressionante prova di fachirismo. Durante la mattinata di quel giorno, prima ancora che le persone di casa si rechino fuori, tutte le famiglie mussulmane mangiano un dolce tradizionale, che direi regionale, detto “Assida bel rob” che è un pasticcio di farina, burro e miele, e sciroppo di datteri sciolti al fuoco. Tale dolce viene distribuito ai presenti ed ai bambini usciti la sera prima col tamburello e che hanno partecipato al canto durante la fiaccolata, simile alla distribuzione dell’uovo di Pasqua fra il popolo cristiano ed ebraico.
Riferisco una scenetta tragicomica che soleva ripetersi ogni anno in tale ricorrenza. Per un insito odio di razza, i mussulmani che partecipavano alla fiaccolata e alla processione, giovanotti e uomini forti e robusti, andavano a sfidare gli ebrei abitanti nel ghetto della Hara, per provocare una zuffa. I fanatici arabi, ivi giunti, cantavano la strofetta seguente:
“Sidi Omran ia maguah,
Halli ma iaref maunah.
Sidi Omraniibbi zul [3]
Dargiah ià argiun el fél”
che vuol significare:
Il Marabut Signor Omran è il più forte,
Chi non lo sa venga a vedere.
Il Signor Omran vuol fare maffia
Muove un grappolo di fèl [4] )(gelsomino arabo)
Questo il canto di sfida per bastonare qualcuno dei malcapitati israeliti, se non facevano presto a serrarsi in casa e difendersi dagli aggressori. Oggi però, grazie alla penetrata civiltà ed alla disciplina sociale, è rimasto solamente il ricordo della sfida con la tradizione del canto, ma non più bastonature [5].
L’ A s c i u r a
Festa in onore di Husein, nipote di Maometto, corrispondente in un certo modo al Capodanno Cristiano. Stando all’etimologia della parola, “asciura” vorrebbe dire “dieci” e per l’appunto la festa che così viene chiamata risponde al decimo giorno dopo il Capodanno mussulmano. Tale ricorrenza ha origine dalla leggenda biblica e vale a commemorare la data in cui per l’acquietarsi del Diluvio Universale e il prosciugamento della superficie della Terra, l’Arca di Noé si sia posata sulla vetta del Monte Ararat, nell’Asia Minore.
Dice la tradizione, secondo la versione mussulmana, che Noé oltre alla sua famiglia, aveva condotto seco quaranta uomini e le varie coppie di animali che avrebbero dovuto ripopolare la terra, nonché il necessario vettovagliamento consistente in una certa quantità di cereali, legumi, uva secca ed altri generi nutritivi. Noé, uscito dall’Arca, dopo aver digiunato, fece il sacrificio a Dio e poscia preparò un cibo con tutti con quei cereali e legumi che egli possedeva.
Come allora, così anche oggi i Mussulmani, traendo origine da quell’episodio, festeggiano l’Asciura. Alcuni compiono il digiuno, altri non lo fanno, però comune è in ogni famiglia l’usanza di cuocere cereali e legumi, mangiarne ed offrirne in dono ai fanciulli che vanno di porta in porta a chiederne. Tale usanza ha qualcosa di simile con la preparazione della “cuccia” che il popolo siciliano prepara la sera del dodici dicembre di ogni anno per devozione a Santa Lucia.
I fanciulli e le fanciulle mussulmane nel giorno dell’“Asciura, coperto il viso con una maschera di carta colorata, con in testa una specie di cuffia dalle lunghe corna, bussano di porta in porta fra le abitazioni dei loro correligionari e chiedono l’Asciura (i legumi e cereali bolliti) che mettono in una cesta di foglie di palma.
Un gruppo di garruli fanciulli segue ovunque la maschera sperando in tal modo di partecipare alla spartizione dell’Asciura. Entrando nelle varie case il chiassoso folletto fa un mondo di smorfie e canta per l’occasione una canzone di scherzo che nessun rapporto ha con la festa descritta, di carattere puramente religioso e non profano.
Esso così canta:
“E ia garni,
Garni, essagair ia garni
E ia garbi
Garni el cubair ia garni”
che suona in lingua italiana:
“O mio corno,
Mio corno, piccolo mio corno,
O mio corno,
Mio corno, grande mio corno”.
Dopo, fatte alcune piroette, si sdraia a terra e finge di sentirsi tanto male da morire. E con voce lamentevole invoca:
Uffela, uffela ualla, Fave, fave, dammi
nmut ellela; o muoio nella serata
Hòmesa, hòmesa ualla ceci, ceci, dammi
nmut fi essimesa o muoio in giornata
Dhaia, dhaia ualla uova, uova, dammi
nmut fi ellummia. O muoio (m’affogo) nell’acqua.
Quasi sempre, verso sera, gruppetti di fanciulli girano per le vie e con un bastone picchiando alle porte delle famiglie amiche canterellano la seguente filastrocca:
E i ful E fave
Ia falful o fave, o fave
Atiina el ful Dammi fave
Giana ful Mio cibo (mio pranzo) di fave,
Asciana ful Mia cena di fave
Dima ful Sempre fave,
E il ful e fave,
Ful, ful fave, fave.
Contrariamente alle fanciulle le quali cantano una canzone satirica, della quale, ad evitare la prolissità, trascrivo la traduzione alla lettera. Quest’ultima, come le processioni, nessun rapporto ha anch’essa con l’Asciura, ma che il popolo certamente foggiò e divulgò in tale ricorrenza, in epoca imprecisata.
1 O Ganni, Ganni, Gan
2 O Ganni, o asina di Gan
3 “ , ha due denti grossi.
4 “ , mi è uscito un cibo (un po’ di foglie secche)
5 “ , da sotto l’olivo.
6 “ , si è ingozzata (per troppo mangiare)
7 “ , è legata con l’anello.
8 “ , Siamo andati dal (tuo) medico
9 “ , (egli) stava a mangiare,
10 “ , cenava pane e carne,
11 “ , dagli il veleno,
12 “ , veleno sopra il veleno,
13 “ , veleno di serpente (assai forte)
14 “ , di quelli che escono da sotto terra.
15 “ , Vedi che si vede, vedi ?
16 “ , Vedi, piccolo amico, vedi ?
17 “ , Si lecca il suo dito, vedi ?
18 “ , Il suo piccol dito, vedi?
E qui finisce la satira, per invocare i doni di Dio a pro della famiglia caritatevole.
19 Questa casa del mio Signore
20 Mi dà, mi dà ancora,
21 Mille reali (monete) nelle mie mani:
22 Iddio fa immiserire le case che non dànno.
23 Abitudine, Abitudine (dateci come prima)
24 Speriamo che Dio non tolga quest’abitudine.
25 Col vino ( per intercessione, per il piacere) del Profeta e dei suoi figli.
Come e quando nacque tale canzone popolare satirica? La leggenda dice che nei tempi andati era governatore di Tripoli il Pascià Ganni (nome sconosciuto nella storia e che voglia considerarsi come nomignolo), uomo molto avaro e poco ben visto dalla popolazione per i gravosi tributi ad essa imposti.
Si dice – il colmo dell’avarizia – che egli mandasse in giro la sua somara (?) per essere mantenuta dai sudditi del luogo, tanto poveri che non riuscivano a trovar quel necessario per sfamare sé medesimi.
Allora il popolo, prendendo lo spunto della somara che moriva di fame, rimproverava il medico, tristo consigliere di governo e sferzava con tale satira la condotta dello stesso Pascià Ganni, divulgandola il giorno dell’Asciura.
Zoerda er rabii, o pranzo di primavera
Il titolo di Zoerda er Rabii, pranzo o festa della primavera mussulmana, ci richiama a consuetudini non solamente nostre, per dir così della Sicilia, ma dell’Italia intera e di Roma antica. Certamente la festività araba che qui appresso descriverò, è senza dubbio retaggio di costumanze della latinità dominante in questa terra africana, e consiste nel festeggiare una giornata della primavera mussulmana con una scampagnata, con giochi vari, con un sontuoso pranzo all’aperto, all’ombra di oasi verdeggianti, di oliveti o sotto cedri ed aranceti fronzuti, carichi di frutti e di olezzantissime zagare.
I partecipanti a tale cibo, sono allegre comitive di uomini di ogni età e di varie condizioni. Quasi sempre si associano i membri di una stessa famiglia facenti parte di una data comunità, quale quella dei civili possidenti, dei vari artigiani, barbieri, tessitori, muratori, calzolai, ecc., quella degli studenti delle scuole private coraniche o Kutta, non escluse le donne e fanciulle che sogliono festeggiare a parte la Zoerda, in comitiva fra loro, del medesimo sesso, senza, ben inteso, l’intervento di uomini.
È una festa che, considerata sotto certi aspetti, mi sembra abbia stretta somiglianza con la celebrazione degli “Idi di Maggio” degli antichi romani. Chi non rievoca la popolare festa con allegri banchetti, alle fonti del Clitunno? Ce la fan rivivere insigni poeti con rime limpide e fresche pari alle sorgenti di quelle fonti.
E allargando l’immagine della mia fantasia verso l’arabo con la camicia lunga e ristretta ai fianchi, avvolto nell’ampio baracane che gli scende grave dagli omeri, con le gambe nude e scultoree, protetti i piedi da semplici calzari, mi sembra di rivedere il colono romano dei secoli trascorsi.
E come allora, l’arabo d’oggi al pranzo di primavera aggiunge giochi vari, lancio della palla, gare di corsa, di salto, di resistenza, lottando con compagni della medesima portata, fra il più grande entusiasmo degli spettatori.
Le donne arabe, sempre più gentili, più sentimentali degli uomini, manifestano la loro gioia con gridii caratteristici (zagratat), con lo scorrazzare in un giardino, col raccogliere, specialmente le fanciulle e le bimbe, fiori di prato o zagare d’arancio che, infilati gli uni dietro gli altri in un filo o spago, formano graziose collane, originali monili con cui le gioconde figliuole si cingono il capo, il collo, le braccia e gli orecchi.
Cosa ricorda a noi tal festa mussulmana o pranzo di primavera? Mi richiama alla memoria la ricorrenza del primo dì del mese di Maggio, una volta tanto festeggiato, nella quale alle nostre popolari gite in giardini o in aperta campagna, al gozzovigliare e dissetarsi coi vini più genuini dell’agro siciliano, seguivan canti di allegre comitive, giuochi d’ogni sorta, la raccolta e lo scambio di fiorellini di prato, fra cui margherite dai candidi petali o miste al giallo oro in tal mese abbondantissime, note fra noi col semplice nome di “fior di maggio” e più comunemente nel nostro vernacolo “maju”.
È tradizione popolare siciliana quella di raccogliere all’alba di tal giorno ramoscelli fioriti di tali “astri” apportatori di buona fortuna e di agiatezza, poiché l’immaginazione popolare paragona il “maju bianco” a scudi d’argento, quello giallastro a monete d’oro. E perciò, oltre a mettere tal fiore all’occhiello della giacca, si dona agli amici ed alle amiche, le quali se ne adornano il capo.
Non basta, è usanza altresì, specialmente tra la gente di campagna, attaccare quel giorno tali fiori alle porte od alle finestre di casa della donna amata ed il pastorelllo, fedele conservatore della tradizione, infiora le caprette e le vaccherelle affidate alla sua custodia. Le bimbe, poi, simili alle costumanze delle arabette, confezionano graziose ghirlandette e monili di margheritine e, quali reginette della primavera, si adornano a più non posso. Chi riceve il gradito omaggio floreale, annusa i poco profumati fiorellini con la ferma convinzione che ciò facendo si è protetti dal mal di capo.
La nostra tradizione ha perfetto riscontro altresì con la consimile di Rodi, la storica città dei Cavalieri di San Giovanni, la ben chiamata città delle rose. Giuste le notizie apprese, ivi le donne di bianco vestite, il primo di maggio appendono alle porte delle loro case una corona di freschissime e fragranti rose propiziatrici. È una rievocazione classica in cui, nei sacri riti di Roma antica, le fanciulle spargevan rose sulle Are votive; è un’usanza tanto bella in cui sembra veder trasformate le fanciulle di Rodi in tante deità mitologiche riunite a convegno e che il genio della scultura, i maghi dello scalpello han saputo scolpire con meravigliosa verosimiglianza su bassorilievi di classiche opere d’arte!
Ma un altro particolare della Zoerda io ho appreso; una tradizione tenuta in gran conto tra le donne del Garia in Tripolitania. Esse, in tale ricorrenza, oltre a raccogliere i fiori, manifestazione spontanea di allegria, di giocondità, portano sul capo un sassolino [6].
Vorrà significare che ogni gaiezza è fugace ed effimera; che fra tanto divertimento devono ricordarsi del peso della loro missione in ogni momento della vita di spose e di madri, o vale come amuleto contro la jettatura? Costumanza della quale non ho saputo approfondire le mie ricerche e che mi richiama ad un’altra simile fra le donne della mia città natale, però questa con finalità religiosa.
Le nostre buone popolane di mezzo secolo fa, nei dì ventitre e ventiquattro giugno, vigilia e festività di San Giovanni Battista, oltre a far liquefare la cera e lo zolfo, sicuro vaticinio, usavano raccogliere dalla spiaggia del mare numero nove ciottolini che, cuciti in apposito sacchettino di stoffa, venivan portati addosso per devozione al Santo universale, il Battista del Giordano.
Dialoghi Mediterranei, n.70, novembre 2024
[*] Il testo è tratto dal dattiloscritto di Giovanni Piazza inizialmente intitolato dall’autore Folklore Italo-Arabo, via via ridimensionato in Folklore Siculo-Arabo per la definitiva intitolazione Da Marsala a Tripoli – Appunti di Folklore comparato. Redatto nella seconda metà degli anni 20 del secolo scorso, durante la sua permanenza in Tripolitania, venne edito nel 1931 dall’Industria Grafica “G. Palazzotto – Marsala”. Consta di 172 pagine seguite dalla monografia “L’Oasi di Tagiura e la sua Moschea” di altre 17 pagine di cui sono stati pubblicati ampi stralci sul numero 62 (luglio 2023) di questa rivista. Comprende quaranta tra foto d’epoca ed illustrazioni grafiche. Realizzato in due copie, è dedicato agli alunni delle scuole elementari di Marsala, sua città natale. Rimasto dattiloscritto per quasi un secolo, per volontà dell’autore verrà donato alla Biblioteca comunale di Marsala e alla Biblioteca Fardelliana di Trapani, memore di avervi frequentato un corso di biblioteconomia nel 1938. Per quanto in queste pagine siano riconoscibili i limiti di uno sguardo etnocentrico riconducibile all’epoca storica del colonialismo esse restano tuttavia testimonianze documentarie di prima mano significative dal punto di vista etnografico.
Note
[1] Le donne arabe per colorirsi di turchino le palpebre, farsi le occhiaie ed essere più avvenenti (vanità di tutte le donne e di ogni epoca!) in cambio del belletto e dei carboncini moderni, consumati in larga scala dalle nostre donne, usano sciogliere nell’olio un po’ di “Kohel”, solfuro d’antimonio, metallo grigio-verdastro e poscia l’introducono nelle palpebre. Mi è stato affermato che parte di tale sostanza colorante, introducendosi per i condotti lacrimari nel naso e da questo nella gola, compaia nella saliva (Alle gentili lettrici non garentisco la ricetta). Per tingersi invece i capelli sul biondo, come se fossero ossigenati, usano un infuso di foglie di Henna.
[2] È credenza popolare mussulmana che il montone sacrificato il giorno del Gran Bairam, tornerà in vita il giorno della morte di colui che l’ha fatto uccidere in suo nome, per trasportare sulla sua schiena l’anima del defunto e attraversare i sette ponti che conducono in Paradiso.
[3] V’è un errore di rima, però la giustificazione la troviamo pensando che a crearla è stato il popolo non troppo meticoloso a curare la rima e la metrica.
[4] Il fioraio indigeno usa dividere in cinque parti una fogliolina di palma e in ciascuna di esse infila i fiorellini di fèl, candido, odorosissimo gelsomino arabo, dando così l’idea d’un grappolo, che viene venduto al prezzo di venti centesimi circa.
[5] Analoga usanza trovo fra le notizie storiche della città di Marsala. Prima della espulsione degli Ebrei dalla Sicilia (1492) per volere di Ferdinando il Cattolico, Marsala, come le città sorelle, ospitava forse poco ben volentieri un certo numero di ebrei ed il ghetto o loro quartiere era limitato dall’attuale Via Ferrer, ex San Giovannello, dal Monastero di San Pietro, da Via Pannieri e dal piano San Salvatore con la chiesa omonima, ex Sinagoga. Era consuetudine dei cattolici marsalesi di quei tempi fare assistere a viva forza gli ebrei alla messa di mezzanotte del Santo Natale, col proposito di indurli alla conversione. A mitigare l’ingiusta e incivile costumanza, c’è voluto l’intervento di Re Martino con appositi decreti proibitivi per i fanatici marsalesi.
[6] Secondo altri, numero sette ciottolini.
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Giovanni Piazza, nato a Marsala nel 1892, ha prestato servizio nelle scuole italo-arabe della colonia Tripolitania dove rimase per ben sedici anni. Fu la scuola italo-araba di Tagiura la sua prima sede di servizio e qui, da sempre osservatore della realtà, dell’ambiente naturale ed umano, ebbe l’occasione di descrivere in una breve monografia rimasta dattilografata, usi, costumi, vestigia delle civiltà passate, aspetti naturalistici, storico-artistici, e in particolare i tratti salienti del folklore: tradizioni, feste, linguaggio ed elementi della cultura materiale. Rientrato nel 1936 a Trapani frequentò alla Fardelliana un corso di biblioteconomia per trasferirsi a Marsala nel 1943 dove fu nominato ispettore onorario delle tradizioni popolari e continuò a raccogliere nei numerosi quaderni una cospicua mole di proverbi, modi di dire, filastrocche, cantilene, superstizioni, pregiudizi, tutto un mondo di manifestazioni destinato ad essere sommerso dalla sempre più accelerata trasformazione della vita individuale e ed associata.
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