Recentemente tradotto in italiano, Generazione Isis (Feltrinelli, 2017) dell’accademico Olivier Roy è un importante contributo sulle dinamiche che conducono i giovani europei ad arruolarsi tra le fila del gruppo Stato Islamico. Roy, attuale professore all’Istituto Universitario Europeo di Firenze, già docente presso l’École des hautes études en sciences sociales (Ehess) e l’Institut d’études politiques (Iep) di Parigi, è tra i maggiori studiosi di Islam contemporaneo.
Non è la prima volta che Roy si occupa della religiosità degli occidentali, sempre più attratti da culti estranei al proprio tessuto culturale.Già in La santa ignoranza. Religioni senza cultura egli aveva colto lucidamente l’essenza di un simile fenomeno: «La secolarizzazione non ha cancellato la religione ma, scindendola dal suo contesto culturale, l’ha fatta apparire nei termini di pura religione» (Roy, 2009: 18). Il distacco da una specifica area culturale – l’Autore parla di deterritorializzazione e deculturalizzazione – ha reso sempre più fluttuanti i marcatori religiosi, oramai pronti ad attaccarsi a qualsiasi ambiente, oggetto e atteggiamento esogeno.
Le religioni, in altri termini, hanno preso a circolare al di fuori delle loro cultura di origine. Il risultato è la scomparsa della profondità culturale e, di conseguenza, il diffondersi di forme di culto fondamentaliste e carismatiche, le cui eventuali varianti hanno in comune la caratteristica della rottura con la cultura dominante. «Il fondamentalismo – spiega lucidamente Roy – risulta così la forma del religioso più adatta alla mondializzazione, in quanto assumendo la propria deculturazione, la trasforma in strumento di pretesa universalità» (ivi: 23).
Strettamente connesso a questo discorso è il tema dei born again, convertiti o ri-convertiti che esemplificano perfettamente il fenomeno della deculturazione del religioso. «La (ri)conversione – scrive il Nostro – è un’esperienza personale, un’illuminazione, più raramente l’esito di un percorso intellettuale. Il dibattito teologico, in proposito, non sembra svolgere alcun ruolo» (ivi: 34). Pertanto, la santa ignoranza è identificata quale uno dei maggiori motori del fondamentalismo.
In Generazione Isis, Olivier Roy introduce un elemento ancora inedito, vale a dire il nichilismo come presupposto della radicalità dei born again islamisti, ossia coloro che decidono di aderire a gruppi jihadisti come al-Qaeda e l’autoproclamato Stato Islamico. In relazione a questo specifico tema è sorto un dibattito molto ampio, tanto che tuttora gli studiosi ragionano animatamente sulla opportunità di chiamare in causa il nichilismo quale supposta giustificazione della violenza terroristica. Scrive in proposito Michele Martelli: «Per il fondamentalismo terroristico islamico, messianismo e nichilismo sono i due aspetti contraddittori della stessa insuperabile aporia» (Martelli, 2005: 82). La sempre più frequente evocazione della fine del mondo da parte dei terroristi islamisti, infatti, ha vieppiù convinto della bontà della spiegazione nichilista del fenomeno. Sempre Martelli: «Nell’Apocalisse sembra insito il nichilismo. Un nichilismo antropo-cosmico. […] Insieme alle forze malvage mortali e immortali, umane e demoniche, sprofonda nella voragine del Nulla l’intero mondo creato. Dal Nulla veniva, al Nulla ritorna. Ex nihilo in nihilum» (ivi: 76). Di tutt’altro avviso Donatella Di Cesare:
«Per Nietzsche e, ancor più, per Heidegger, il terrorista sarebbe una figura estrema della reazione, esistenziale, ontologica, politica. Perché non regge la forza esplosiva del nulla, non se ne fa carico. Vorrebbe invece dominare quella potenza, decidendo, di sua volontà, luogo e tempo della detonazione. Ma alla fine le sue bombe non sono che sfoghi di rabbia violenta e impotente. Il terrorista non è un nichilista. Piuttosto si erge sul limite ultimo, dove la storia sembra agonizzare, pretendendo di cancellarne il termine, di s-terminarlo. Meglio una fine terrificante che un terrore senza fine. Così questo angelo sterminatore dell’ipermodernità, attenta al nulla che si ripete, fa fuoco contro l’eterno ritorno. Prova invano a squarciare la calotta d’acciaio con cui il nichilismo ha avvolto il mondo» (Di Cesare, 2017: 74).
La radicalità dei born again islamisti, che Roy non esita a definire nichilista, sfocia infine in quella che Alessandro Orsini chiama violenza ideologica:
«Vi sono due tipi di violenza politica: la violenza “rabbiosa” e la violenza “ideologica”. La prima, che è ben rappresentata dall’assalto alla Bastiglia del 14 luglio 1789, termina quando vengono rimosse le cause economiche e politiche che hanno prodotto la rabbia e la frustrazione. La seconda, invece, è largamente indipendente dal contesto politico ed economico. Contro la violenza ideologica, che scaturisce dall’educazione all’odio, le tregue e i processi di pace hanno – generalmente – lo stesso peso di un lenzuolo poggiato sul cratere di un vulcano. Vi è un odio che nasce dalla politica e una politica che nasce dall’odio. Vi è un odio che viene plasmato dalle situazioni e vi sono situazioni che vengono plasmate dall’odio. A differenza di quanto afferma la dottrina marxista, secondo cui l’odio è una variabile dipendente dai rapporti di produzione, la storia del terrorismo documenta ampiamente che l’odio può essere una variabile indipendente del mutamento sociale, con un potere di mobilitazione collettiva che può essere superiore a quello degli interessi economici» (Orsini, 2016: 128-129).
L’odio diviene, quindi, cifra della violenza terroristica. In Generazione Isis, l’elemento di novità che Roy coglie lucidamente e che fa da sfondo a tutta l’opera è il forte legame del jihadismo di matrice pseudo-califfale con la cultura giovanile moderna.
Nel radicalizzato simpatizzante per l’Isis esistono, infatti, due registri che coesistono e convivono in una curiosa e inedita miscela ideologica: «Troviamo l’Isis al crocevia fra due immaginari, uno religioso e classico (il Califfato), l’altro connesso a una certa cultura “giovanile” e che si manifesta anche in contesti privi di alcun rapporto con l’Islam» (Roy, 2017: 62). La maggior parte dei radicalizzati di cui si hanno informazioni, infatti, frequenta assiduamente le discoteche, beve e fuma, fruisce di videogiochi e film violenti, ascolta rap e usa un gergo giovanilistico. Una simile condotta poco s’addice ai born again, i quali sono generalmente ligi alle regole e scrupolosi nell’ortoprassi. E dunque, come interpretare questa apparente contraddizione?
Roy, come già anticipato, utilizza la categoria di nichilismo per definire il sottofondo ideologico, o quantomeno culturale, che definisce e influenza, quand’anche in maniera latente, le scelte e le azioni degli occidentali radicalizzati. «Ad affascinare non è la costruzione dell’utopia ma la rivolta pura» (ivi: 13), il genuino desiderio di distruggere. «Fare tabula rasa è il progetto che accomuna Guardie rosse, Khmer rossi e legionari dell’Isis» (ivi: 11), tutti gruppi rivoluzionari fanatici ed estremamente violenti dediti alla distruzione e alla rimozione di ciò che è passato. L’odio per i padri diventa, per Roy, emblema dei moderni islamisti radicalizzati, in cui «l’odio generazionale conduce logicamente all’iconoclastia culturale. Si distruggono non solo i corpi ma anche le statue, i templi e i libri. Si distrugge la memoria» (ibid.).
Secondo l’originale analisi di Roy, l’islamismo s’innesta in un territorio già esistente, in un bacino di nichilismo rivoluzionario pronto ad assumere nuove vesti e ad abbracciare una nuova causa, quest’ultima fungendo da movente che offra solamente l’occasione per far esplodere nuove ondate di violenza. «Il terrorismo – spiega Roy – deriva non dalla radicalizzazione dell’Islam ma dall’islamizzazione della radicalità» (ivi:14). L’Autore ripete costantemente lungo tutto il testo che il fondamentalismo, di per sé, non produce violenza, dal momento che ne esiste una variante quietista o passiva; inoltre, insiste sul fatto che il terrorismo di matrice islamista non sia un semplice sintomo del malessere delle società islamiche, dato che spesso i radicalizzati hanno un’idea sommaria ed estremamente superficiale della situazione del Medio Oriente. Tutti i radicalizzati si collocano su un piano ideale e più generale, quello del jihad globale e non, all’opposto, nello specifico contesto geopolitico mediorientale.
Ed ecco emergere un altro interessante sviluppo dell’analisi condotta da Roy: il nichilismo dei radicalizzati ha una chiara connotazione apocalittica. Chiamando in causa gli scritti di Sayyid Qutb, l’ideologo per eccellenza dell’Islam radicale, l’Autore ne evidenzia il profondo pessimismo di fondo, scorgendone in prospettiva una deriva apocalittica: secondo la diagnosi di Qutb, l’età contemporanea è la nuova jahiliyya (l’età preislamica dominata dall’ignoranza), ma non potendo ormai più emergere un nuovo profeta dopo Muhammad, allora la storia è condannata a sprofondare sempre più sino alla fine dei tempi. In quest’ottica, «ogni conflitto locale diviene metafora di un conflitto millenario che potrà terminare solo con la battaglia finale» (ivi: 55). Ecco dunque spiegato il riferimento sempre globale e (quasi) mai locale dei radicalizzati: «A interessarli è l’Islam globale, non un particolare conflitto». Tutto è visto in prospettiva e sullo sfondo di una guerra cosmica destinata a concludersi nella catastrofe finale, come un gioco di fuochi ove si aspetta impazientemente l’ultimo botto, quello conclusivo e più spettacolare.
In quest’ottica, suggerisce Roy, la ricerca deliberata della morte, elemento che accomuna i radicalizzati, pur essendo legata al nichilismo, porta con sé un vago sentore di misticismo: «La morte cancella una vita di peccati. […] La morte lava tute le mancanze. Il nichilismo (l’inanità della vita) è parte integrante del loro misticismo (raggiungere Dio)» (ivi: 64). Il millenarismo dei radicalizzati si salda con un certo misticismo nichilista secondo cui la distruzione accelera la salvezza perché l’aldiqua è talmente corrotto che solo un (radicale) salto nell’aldilà può porvi rimedio. Nichilismo, apocalitticismo e misticismo stanno e cadono insieme. In più, «l’apocalisse trasforma la loro [dei radicalizzati] traiettoria nichilista individuale in destino collettivo» (ivi: 67).
Com’è noto, è stato proprio l’Isis a introdurre il discorso apocalittico nell’alveo delle ragioni per il jihad, sfruttando il furore pantoclastico dei radicalizzati: il nome della più nota rivista dello Stato Islamico, Dabiq, richiama l’omonima cittadina siriana dove, secondo la tradizione islamica, avverrà uno degli scontri finali fra musulmani e infedeli prima della fine dei tempi. La stessa bandiera nera, stendardo del gruppo terroristico, ha radici profetiche, riferendosi all’avvento di “uomini dall’est” presso i quali vi sarà il Mahdi, il messia secondo l’Islam.
A prima vista può sembrare che la conoscenza delle fonti tradizionali dell’Islam sia decisiva nella costruzione del nichilismo sopra descritto. Ma non è così. Bisogna, infatti, operare una distinzione fra l’Isis e le sue reclute: il primo sfrutta i riferimenti testuali in modo sapiente ancorché criminale; i secondi, invece, hanno scarse o addirittura inesistenti conoscenze religiose (la santa ignoranza) e non seguono tanto scrupolosamente le regole dell’ortoprassi (così emerge dagli studi sui profili dei radicalizzati occidentali). «Non si radicalizzano perché hanno letto male i testi o sono stati manipolati: sono radicali perché vogliono esserlo, perché è solo la radicalità ad attrarli» (ivi: 52), sostiene Roy. I radicalizzati si affidano al discorso dell’Isis sulla base del principio di autorità senza muovere obiezioni e senza sollevare dubbi. Ma così «la radicalizzazione violenta non è una conseguenza della radicalizzazione religiosa, anche se ne riprende sovente le direttrici e i paradigmi» (ivi:16). In questa semplice e lapidaria formula, l’Autore riassume l’intuizione che guida l’intera sua opera. La fonte della radicalizzazione non è il salafismo, «fra i due fenomeni esiste una matrice comune ma non una relazione di causalità» (ivi: 75). E così «la radicalizzazione precede il reclutamento» (ivi: 50), creando di riflesso il problema per il quale «la distruzione dei gruppi esterni [ad es. al-Qaeda e l’Isis] non metterà fine alla radicalizzazione» (Ibid.).
Sarebbe piuttosto interessante – ed è questa la sfida che Roy lancia e che gli studiosi dovranno accogliere – studiare la “religiosità” piuttosto che la religione: «La profonda secolarizzazione delle nostre società e dei nostri saperi spinge ad approcciare la religione solo attraverso i testi ignorando ciò che io definirei come “religiosità” […] ossia il modo in cui il credente vive la fede e si appropria di elementi teologici, pratiche, immaginari e riti» (ivi: 52-53). La religiosità deve diventare il paradigma di riferimento che superi l’approccio troppo classico e spesso vano ai testi canonici sovente sconosciuti agli stessi soggetti radicali.
Da ultimo, Roy evidenzia la continuità del radicalismo generazionale e rivoluzionario fra l’estrema sinistra e l’islamismo. La lunghezza del seguente passo è giustificata dalla sua importanza:
«In entrambi i casi si ha a che fare con una contestazione globale contro l’ordine del mondo e non con movimenti di liberazione nazionale. L’ideale è globale, prima la rivoluzione (permanente e mondiale) […], oggi il jihad. […] Analoga è anche la tendenza al nomadismo rivoluzionario. […] Poco importa se la rivoluzione si sviluppava in Bolivia, in Vietnam, nel Dhofar (Oman meridionale) o in Palestina: essa era sempre positiva e identica. Più tardi sarà lo stesso con il jihad: l’Afghanistan, la Bosnia, la Cecenia e, oggi, lo Sham. […] La rivolta avviene in nome di una comunità degli oppressi globale e virtuale: il “proletariato internazionale” o la “umma musulmana”» (ivi: 81-82)
La continuità appena evidenziata indica presenza di quel bacino di radicalità cui di volta in volta le diverse ideologie radicali attingono. La morte dell’estrema sinistra occidentale ha lasciato tale bacino alla mercé dell’Islam radicale. «E così, sul mercato, per i nuovi ribelli in cerca di una causa sono rimasti solo l’Isis o al-Qaeda» (ivi: 83).
Al termine del saggio, Olivier Roy lascia un interrogativo aperto: cosa è questa radicalità nichilista che precede qualsivoglia rivestimento ideologico e che è sorgente della politica della tabula rasa così comune ai gruppi più estremi? Difatti «esiste una forte analogia strutturale fra comportamenti nichilisti che emergono in contesti assai diversi» (ivi: 86), sostiene l’Autore riferendosi anche ai due gruppi pseudoreligiosi che hanno organizzato suicidi collettivi, l’Ordine del Tempio Solare (fra il 1994 e il 1997) e la setta del Tempio del Popolo (nel 1978), ma potremmo anche richiamare alla mente Aum Shinrikyo, la setta giapponese che nel 1995 organizzò l’attentato alla metropolitana di Tokyo nella convinzione dell’imminente fine del mondo. La sfida è aperta, ora spetta agli studiosi rispondere al quesito.
Dialoghi Mediterranei, n.27, settembre 2017
Riferimenti bibliografici
Donatella Di Cesare, Terrore e modernità, Einaudi, Torino 2017.
Michele Martelli, Teologia del terrore, Manifestolibri, Roma 2005.
Alessandro Orsini, Isis. I terroristi più fortunati del mondo e tutto ciò che è stato fatto per favorirli, Rizzoli, Milano 2016.
Olivier Roy, La santa ignoranza. Religioni senza cultura, Feltrinelli, Milano 2009.
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Giacomo Maria Arrigo, ha conseguito con lode la Laurea magistrale in Filosofia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano nel 2015. Si è poi diplomato al Master Universitario in Middle Eastern Studies presso ASERI (Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali). Attualmente è dottorando presso l’Università della Calabria, dove studia la presenza dello gnosticismo rivoluzionario all’interno del salafismo-jihadismo. È membro del team di ricerca di Occhialì – Laboratorio sul Mediterraneo islamico e fa parte del Comitato editoriale dell’omonima rivista.
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