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di Anna Nosari
Uno dei luoghi più a nord del pianeta, un’isola dove ogni cosa è ridotta all’essenziale, in dialogo tra lo splendore maestoso e imponente della natura e la desolazione di paesaggi dove l’orizzonte non sembra capace di disegnare una fine: l’Islanda è una terra a cui non si può restare indifferenti, i cui punti cardinali sono il mare e il vento, insieme all’eterno, come scrive Jón Kalman Stefánsson.
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Protagonista negli ultimi anni di un vero e proprio boom del turismo, spesso concentrato su alcuni pochi luoghi iconici e di grande forza scenografica, alla ricerca dell’aurora boreale più emozionante o del contrasto più fotogenico tra il verde, il blu e le sfumature dei ghiacci, l’Islanda è stata invece per me il regno del silenzio, dell’ascolto senza difese, di un viaggio guidato da una voce del luogo più sottile e sussurrata: quella della solitudine.
La natura in Islanda è sempre presente, prepotente e vigorosa, è una compagna costante, esigente e generosa ma anche dura e ostile, con cui gli esseri umani si sono sempre scontrati e affidati, in una lotta per la sopravvivenza.
Un luogo in cui concetti come assenza e solitudine possono fornire una chiave di lettura più autentica e profonda. Una solitudine precisa, tagliente, implacabile, che qui costringe a fare i conti con un’altra natura: quella umana, nella sua piccolezza e nella sua forza, nell’umiltà e nell’audacia, nella resistenza, eroica o quotidiana, o nella resa.
Una natura umana che, in questa terra magica e difficile, ha fatto costruire grumi di case nel mezzo del nulla, ha schiantato rottami di aerei o carcasse di furgoni abbandonati, ha lasciato ruderi e cartelli ormai illeggibili: in poche parole, ha disseminato indizi di vita nel tempo.
Testimonianze impercettibili e talvolta inevitabili, incontrate lungo i percorsi più ostici dell’interno, nei piccoli villaggi sulla costa, attraversando lingue di ghiaccio, arrampicandosi alla bocca di un vulcano o osservando un orizzonte sempre un po’ più lontano.
Un’umanità che ha lasciato dietro di sé brandelli di muri che trasudano storie, fatiche e abbandoni, o ha riaperto fabbriche, gestite da giovani che perpetuano e reinventano attività tradizionali, come la produzione di birra o la lavorazione del pesce, aprendosi al mondo e al futuro.
Qualche anno fa è uscito un libro, nel cui titolo mi sono imbattuta, ritrovandomi, al mio ritorno: Tutta la solitudine che meritate, di Claudio Giunta e Giovanna Silva, che ben riassume i pensieri che mi hanno guidato nella mia ricerca fotografica attraverso l’Islanda.
Arrivando sull’isola in aereo e guardando dal finestrino, racconta Giunta, «ciò che si vede è ciò che si vedeva diecimila anni fa, ed è anche un annuncio di quella che, uscendo da Reykjavík, è la parte più memorabile di ogni esperienza islandese: ci si trova spesso da soli».
Un’apparente immobilità, un silenzio che rende ogni parola preziosa e densa di significato, un paesaggio infinito di cui si sente quasi il respiro, sono il benvenuto che l’isola di fuoco e di ghiaccio riserva ad ogni viaggiatore.
Non a caso, proprio da qui, dal vulcano Snæfellsjökull, Jules Verne fece partire il suo viaggio al centro della terra, una scoperta dell’origine del mondo e del fondamento più essenziale di ogni cosa. E per non perdersi tra le nebbie e le distese di terre e acque, si può scegliere di non allontanarsi mai dalla Hringvegur, la statale n.1 che percorre tutta l’isola in un tracciato circolare, oppure si può decidere di lasciarsi guidare dall’Atlante leggendario delle strade d’Islanda, di Jón R. Hjálmarsson, e privilegiare la suggestione dei numerosi miti e della presenza intangibile e tuttavia reale di creature magiche, nate da un rapporto millenario e imprescindibile con una natura viva e presente.
Il mio primo incontro con l’Islanda, arrivando all’aeroporto di Keflavik, e l’intuizione istintiva della sua innata solitudine è stato qualcosa di spaventosamente semplice, profondo e antico, che mi ha parlato con una lingua sconosciuta eppure consonante e familiare. Qualcosa di così intenso, vero, spietato e avvolgente, da lasciare senza fiato, in una inspiegabile sensazione di appartenenza.
Perché quello che l’Islanda mi ha insegnato, con la sua incredibile, spietata bellezza, è che l’unico viaggio veramente essenziale è quello alla scoperta della propria appartenenza al genere umano e, qui si può dire senza retorica, all’universo.
Non è il viaggio più semplice, certo. Sicuramente, il più importante.
Dialoghi Mediterranei, n. 50, luglio 2021
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Anna Nosari, laureata in lettere con indirizzo artistico e una tesi in storia della critica d’arte, è giornalista ed esperta di comunicazione. Curiosa, sempre in movimento, appassionata di storie, persone e idee, si dedica da tempo ai temi legati in particolare al design, al turismo e alla cultura, cercando di trovare e raccontare pezzi di vita con uno sguardo lontano dai luoghi comuni. Con una passione per i viaggi e un grande amore per l’Italia nei suoi angoli meno noti, da tempo lavora con la scrittura, a cui ha da poco affiancato la fotografia, per conoscere, esplorare e condividere.
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