dopo saman
di Giovanni Cordova
Cos’è un’istituzione? Cos’è la politica? Mi pongo queste domande muovendo dalla cronaca dell’attualità per provare a scrivere un contributo di idee che mai come questa volta assumerà i tratti di una riflessione piuttosto che di un rigoroso articolo scientifico. Mi chiedo cosa sia un’istituzione – a cosa serva, come venga percorsa e piegata a un agire pratico e insieme ideale – mentre almeno un paio di episodi o processi catturano l’attenzione di tanti/e nelle ultime settimane. La pesantissima condanna inflitta a Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace, da una parte; l’estensione indifferenziata del green pass al mondo del lavoro e le proteste che questo provvedimento ha suscitato, dall’altra. Due casi, due storie, due processi apparentemente distanti tra loro, e che però mi sembra offrano utili chiavi di lettura per rispondere alle domande con cui ho avviato questo testo.
Istituzioni e critica politica
Nelle discipline etnoantropologiche, le politiche pubbliche sono costruzioni simboliche che mettono in forma, mediante codici e prassi regolamentate, norme sociali e valori (Minicuci, Pavanello 2010; Tarabusi 2014; Shore, Wright 1997). Ciononostante, nel discorso comune ed egemonico, la visione delle cose che esse incarnano tende a essere presentata come aderente a un regime inattaccabile di neutralità che poi trova espressione nel linguaggio della tecnica, idioma e matrice della governamentalità contemporanea. Le etnografie che esplorano la vita sociale delle istituzioni volgono uno sguardo mirato su come le visioni sottese dalle politiche pubbliche diventino realtà nella pratica burocratico-amministrativa. In questo ‘farsi’, le istituzioni si rivelano per essere spazi sociali e simbolici, sistemi di relazioni in cui le politiche vengono «reinterpretate, ricodificate e, al tempo stesso, trasformate e contestate dagli attori che agiscono all’interno di multipli rapporti di forza» (Tarabusi 2014: 132-133).
Pur epurando il ragionamento da fin troppo evidenti debiti con il pensiero struttural-funzionalista, le istituzioni riescono spesso nell’impresa di reificare e addirittura sacralizzare l’appartenenza al corpo sociale, così come a fornire e alimentare ininterrottamente regole e valori del vivere associato. Persino nel conflitto – riteneva l’antropologo britannico Max Gluckman a proposito delle società africane tra gli anni Trenta e Cinquanta dello scorso secolo – le norme tendono a essere riaffermate, in una sorta di ‘equilibrio mobile’ (Folk Moore 2004).
Le istituzioni ‘interpellano’, nell’accezione althusseriana, ogni soggetto, facendo sì che il collocamento stesso degli individui nello scacchiere sociale contenga già la risposta, in parte preconfezionata, a dubbi e domande su ruoli, funzioni, senso dell’ordine sociale (Fassin 2013). Le istituzioni e le politiche che esse veicolano tendono a naturalizzare gli assunti ideologici che ne stanno alla base, presentando proposte, azioni e visioni sul mondo come intrinsecamente necessarie, indiscutibili, razionali. Sono le critiche e le alternative individuate da altri gruppi, semmai, a essere imbevute di ideologia. Questa postura, tipicamente neoliberale, rischia di rendere la politica mera esecuzione di servizi il cui destinatario è non un cittadino portatore di diritti politici, ma un consumatore.
In questo ecosistema politico, allora, la possibile critica alle istituzioni, diventa una critica alla soddisfazione ottenuta dalla fruizione di un pacchetto di beni/servizi, come le valutazioni o i questionari sottoposti agli utenti dopo aver beneficiato di una qualche prestazione commerciale. Questo grado zero della politica è ormai egemonico nell’ecumene neoliberale e orienta in misura prevalente attitudini e aspettative, dividendo i commenti leciti – incasellati in un registro da ‘manuale per l’utente’ che non mette in discussione la doxa neoliberale – da quelli illeciti, che hanno l’ardire di esprimere una critica complessiva o ideologica alla classe tecnica che governa.
Le istituzioni sono insieme il terminale e l’infrastruttura di questa cultura (a)politica. Forniscono modelli ideali di condotta e modelli per l’agire pratico: in questo senso, sono cultura (Geertz 2019). E, come gli antropologi sanno bene, la cultura è tutto fuorché un insieme dato, statico, insulare e immutabile. La cultura è trasformazione, e anche le istituzioni possono incarnare mutamenti che mettono in discussione assunti precedenti, al prezzo però di una riconfigurazione della loro morfologia che può suscitare clamore, incomprensioni, violenza.
Una delle obiezioni più ridondanti poste al sindaco ‘fuorilegge’ di Riace anche da parte di chi non è mosso da rancorose pregiudiziali evoca il tradimento di un’aspettativa istituzionale. Insomma, a Lucano non viene contestato l’aver perseguito un disegno sociale e umanitario che contiene i tratti del favoloso, ma il fatto che un sindaco con responsabilità amministrative ancora prima che politiche non può essere noncurante di certi meccanismi, di certe regole. Qualora avesse voluto aggirare o sabotare il ‘sistema’, avrebbe dovuto svestirsi dei panni del sindaco; lasciare la fascia tricolore a qualcun altro e perseguire fuori dalle istituzioni il suo disegno trasformativo.
Poco importa, evidentemente, che molto raramente chi rappresenta un’istituzione non pieghi quest’ultima a desideri peculiari, privati, particolari – sia in forma lecita che illecita. Il ‘torto’ di Lucano è quello di averlo fatto in maniera troppo altisonante, facendo dipingere i volti di Peppino Impastato e di Ernesto Che Guevara sui muri cadenti di Riace; di citare la parola ‘sinistra’ nell’epoca in cui le ideologie vengono rappresentate come orpelli di un passato ormai superato dal vento neoliberale della neutra tecnicalità; di incarnare un fare tutt’altro che incline al compromesso e all’accomodamento. Insomma, l’istituzione incarnata da Mimmo Lucano – sostengono i fautori di questa tipologia di critica – è rea di essersi snaturata e resa irriconoscibile, di aver ammesso la sua scandalosa parzialità oltre i crismi ufficiali delle mansioni amministrative e governative. In poche parole, ha dimostrato di essersi sottomessa alla politica; a una visione delle cose non neutrale ma che esplicita sin da subito il suo seme ideale, utopico, intimamente rivoluzionario.
Quest’idea ne presuppone un’altra, oggetto di dibattito tra giuristi ed esperti di diritto, inerenti all’inviolabilità delle Costituzioni, delle leggi e – in ultima analisi – della cittadinanza. Ogni ampliamento nei diritti e nelle griglie della cittadinanza scaturisce da una revisione, in un certo senso blasfema, di precedenti acquisizioni giuridiche e politiche. Lo stato delle cose è sempre parziale e fragile, pronto a riconfigurarsi, anche drammaticamente, nelle ricomposizioni dei rapporti sociali e politici che fanno e disfano la struttura sociale. Ogni egemonia, solida in quanto capace di unire la coercizione a un lavoro ideologico di persuasione, va incontro a disegni contro-egemonici e posture resistenziali ancorché silenti.
Si tratta, in fondo, del diritto ai diritti postulato da Hanna Arendt: il potere costituito nasce da e, trasfigurandosi, evolve in un potere costituente. Per questo, sulla scorta delle riflessioni di Étienne Balibar (2012: 47), «le rivendicazioni di maggiori poteri per il popolo o l’emancipazione dal dominio che si traduce in nuovi diritti» assumono inevitabilmente «un carattere insurrezionale». La rivolta è sempre dietro l’angolo, insomma, disegnando un campo di possibilità permanente dato che la classe dominante non cede volontariamente potere o privilegi e l’emancipazione e la conquista dei diritti non possono che prodursi per la via del conflitto. È, questo, «il fondamento democratico di ogni costituzione che non derivi la sua legittimità dalla tradizione, da una rivelazione, o dalla pura efficacia burocratica» (ivi: 49). Ed è anche il paradosso di ogni comunità politica e di ogni istituzione: il consenso – necessario perché il corpo politico consti di una qualche unitarietà – fa sempre il paio con a(nta)gonismo diffuso tra gruppi sociali.
La cittadinanza è un set di rapporti oscillanti tra distruzione e ricostruzione. In queste tensioni ricorrenti, in virtù delle quali nascono diritti fin qui inesistenti e si scorgono nuovi orizzonti di possibilità, la democrazia si realizza a partire da un atto di invenzione agito contro lo spirito di conservazione delle classi e dei gruppi che beneficiano del corrente status quo. «Una democrazia che ha come funzione quella di conservare una certa definizione della cittadinanza», prosegue Balibar, «è anche, proprio per questa sua caratteristica, incapace di resistere alla propria democratizzazione (ivi: 55)». Ci troviamo di fronte al dilemma dell’istituzione, enucleabile nel complicato bilanciamento tra preservazione – il che implica il consolidamento dell’autorità e della legittimità che ne fonda l’esistenza – e il mutamento sostanziale, che comporta inevitabilmente una messa in questione dei presupposti su cui poggia la ragion d’essere delle relazioni sociali e del potere.
Le istituzioni e l’altro
Per questo motivo, di fronte alle tensioni che abitano il nostro vivere, credo che la chiamata alla difesa della sacralità delle regole che presiedono alla possibilità di imbastire fruttuose e pacifiche convivenze vada ridimensionata quando assume la forma di puro (e conservatore) horror novi e limitata alla pretesa del rispetto di prerogative universali – come il rispetto della dignità dell’essere umano indipendentemente da qualsivoglia frame religioso, culturale, politico. Chiarisco che per ‘universale’ intendo non una sostanza tendente all’affermazione unilaterale di un telos o, per dirla con Appadurai (2014), un traiettorismo proto-coloniale, bensì una direzione volta alla convivenza il più possibile equa e pacifica tra persone e comunità.
In un contributo per l’ultimo numero di Dialoghi Mediterranei (Ciccozzi 2021), viene ad esempio denunciata la possibilità che l’ostilità dei migranti al Paese e al contesto culturale, politico, istituzionale nel quale si trovano a vivere – possibilità forclusa, a dire dell’autore, dall’assiologia post-coloniale, egemonica nel campo degli studi culturali italiani – possa tradursi in una contrapposizione militante alle prerogative giuridiche e costituzionali su cui si fonda l’ordinamento dello Stato. Non mi soffermerò su alcuni assunti, a mio avviso problematici, che guidano il ragionamento delineato nel contributo e che, laddove viene adombrata l’introduzione surrettizia della Sharia in Occidente, parte di un «primordiale e mai sopito progetto di conquista dell’Europa» (Ciccozzi: 124) perseguito da migranti/musulmani/islamisti con la complicità degli alfieri del multiculturalismo – studiosi compresi, trovo pericolosamente affine alla crociata contro l’islamo-gauchisme di attualità in Francia.
Credo risulti invece più fruttuoso riflettere sulla possibilità che la presenza ormai stabile di comunità e individui provenienti da varie parti del mondo determini un pluralismo giuridico (di cui i tribunali e la giurisprudenza musulmani costituiscono l’esempio più evidente) che in qualche modo chiama in causa i regimi di verità attorno ai quali si sono costruite le istituzioni della nostra civiltà. Anche in questo caso occorrerebbe condurre una seria riflessione su come ciò che per noi è materia giuridica possa assumere, in altri ecosistemi culturali, una connotazione più decisamente religiosa e rituale, il che rende più complicato immaginare la possibilità di aggirarli o non prenderli in considerazione. La scelta di consumare un certo tipo di cibo; configurare le relazioni sociali – comprese quelle di genere e sessuali; organizzare la gestione e il superamento delle controversie; definire modelli di autorità: sono ambiti che, sebbene percorsi da relazioni di potere cangianti e dunque tutt’altro che definitive e chiuse, implicano un riferimento a un piano sovra-ordinario e, in ultima analisi, sovra-umano. In quanto tali, sono difficilmente traducibili e riducibili a modalità a noi consuete di vivere in società. Intendo propugnare un povero culturalismo? Certo che no. Bisogna però stare molto attenti a distinguere i piani.
Una cosa è – giustamente – invocare l’inviolabilità delle traiettorie storiche che hanno condotto a garantire diritti a categorie escluse dalla loro fruizione, aprendo una breccia nel senso comune e nella coscienza fenomenica dell’ordine delle cose. Noto, a margine, che tale inviolabilità non ha riguardato ambiti non connessi alla sfera della persona (ad esempio, i diritti del lavoro, in costante regressione negli ultimi decenni). Altro è invocare l’immutabilità del panorama istituzionale come garanzia del mantenimento di una direzione progressiva del corso sociale. Siamo sicuri, poi, che la direttrice del progresso abbia condotto sempre a buoni risultati? Da uno sguardo alle condizioni di vita nel pianeta plasmate dall’idea di progresso, mi sembra di no. Ma questa è un’altra storia (Tsing 2021).
Detto in poche parole: siamo sicuri che la compresenza della Sharia – sulla cui interpretazione in termini pragmatico-legalisti o, al contrario, metafisici, non v’è affatto unanime concordanza – nello spazio politico europeo debba indurre alla ossessiva preservazione degli interstizi culturali, sociali e istituzionali in cui possono infiltrarsi e propagarsi mondi altri? Se pensiamo alla vicenda di Saman Abbas, certo, il moto spontaneo della nostra coscienza porta a un irrigidimento protettivo verso ciò che siamo. Ma la stessa vicenda, come provavo sinteticamente ad argomentare in un precedente numero di Dialoghi Mediterranei (Cordova 2021), può suggerire che l’esistenza di istituzioni altre e codificate possa intervenire per regolamentare prassi sociali e perfino vietarle, come avviene negli stessi contesti da cui provengono i nuovi cittadini del nostro Paese.
È preferibile lasciar crescere un sottobosco di pratiche mal tollerate, clandestine e invisibili o assegnare loro visibilità permettendone l’istituzionalizzazione e, dunque, un più facile mutamento in direzione dell’estensione democratica di diritti cui innegabilmente tendono le ‘seconde’ e le ‘terze generazioni’ di migranti, figure antropologiche che intessono legami tra identità e pratiche differenti? (Rossi 2012).
La storia della Sharia nei Paesi musulmani ci restituisce un quadro più sfumato e interessante di quanto dibattiti polarizzati possano ammettere [1]. La dialettica tra potere religioso e potere politico è configurabile anche in terra d’Islam (Ferjani 2005), dove l’applicazione della Sharia è stata ed è tutt’oggi parte integrante di un lungo processo di secolarizzazione, intendendo con questo concetto l’interazione feconda – e trasformatrice – tra sistemi giuridici e codici. Oltre i suoi usi prescrittivi, la Sharia «può rappresentare un semplice quadro virtuoso d’ispirazione religiosa e, in tal caso, non impedisce il pluralismo e l’apertura politica» (Botiveau 2012: 20).
In conclusione di questo paragrafo, rilevare – e, perché no? governare – gli esiti incerti risultanti dall’intersezione, anche conflittuale, certo, tra pensieri, pratiche e istituti in un’Europa in via di trasformazione non significa prestare il fianco alla decapitazione degli apostati o alla segregazione della donna in un anfratto privato. Certifica, semmai, l’ammissione dell’incrinatura di un modello di progresso le cui ambizioni imperiali e neo-imperiali non possono essere emendate come se fossero un’appendice estranea a quella traiettoria, dal momento che, invece, hanno contribuito a fondarla.
La preservazione dell’istituzione influenza anche la soglia morale dell’accettabilità delle politiche. Tolleriamo in fondo senza troppo turbamento che barche e barconi nel Mediterraneo affondino quasi ogni giorno, specie d’estate, facendo nostra la tacita accettazione di accordi e politiche con cui il governo italiano ha delegato allo Stato libico la gestione dei flussi migratori, dai centri di accoglienza-lager fino all’aggressiva caccia alle imbarcazioni in mare perseguita dalla guardia costiera dello Stato nordafricano. Tra mito della ‘ragion di Stato’ e necessità dell’azione di governo per limitare l’emergenza-sbarchi (sulla cui costruzione non mi soffermo in questa sede), all’istituzione (statuale, in questo caso) viene permesso l’oltraggio ormai sistematico di diritti umani e princìpi teoricamente universali.
Nelle percezioni collettive, invece, questa soglia di tollerabilità si abbassa e di molto quando viene invocato il formale snaturamento delle istituzioni. Facilitare la contrazione di matrimoni al fine di dotare soggetti migranti di permessi di soggiorno e non farli finire nelle maglie della marginalità sociale ed economica è compito di un sindaco o di un attivista-militante radicalmente collocato fuori dalle istituzioni?
Ricordo che alcuni anni fa, quando il primo cittadino del comune siciliano di Messina era il ‘sindaco scalzo’ e pacifista Renato Accorinti, critiche trasversali si levarono da ampi settori dell’opinione pubblica e dell’elettorato in occasione della festa delle forze armate del 4 novembre 2013. L’allora sindaco Accorinti espose la bandiera della pace mentre presenziava alla cerimonia istituzionale al fianco di autorità civili, militari e religiose. «Un sindaco non dovrebbe agire così», si disse; eppure tutti erano a conoscenza delle opinioni di Accorinti, o meglio, dell’Accorinti-militante e attivista. Anche parte del suo elettorato collocato su posizioni politiche di sinistra ritenne improvvida quella performance, ritenendo che incarnare l’istituzione debba veicolare un repertorio di comportamenti, pratiche ed estetiche altre dalla quotidianità e dalle idiosincrasie personali.
Che un sindaco protegga il diritto/dovere dell’accoglienza può andare bene, secondo i convincimenti politici di ciascuno di noi, salvo poi storcere il naso quanto l’istituzione palesa le pre condizioni che ne orientano condotte e decisioni, diventando dunque politica e, al tempo stesso, umana, troppo umana. Del resto, nella cultura politica repubblicana del nostro Paese, le istituzioni non contrattano (o, almeno, non contrattavano) con i terroristi anche se il prezzo di questo rigore equivale al sacrificio di vite umane; magari ci si scambia tangenti, ma nei ‘retroscena’ della performance pubblica.
Compromessi e conflitti virali
Nel senso comune, dunque, l’istituzione non è malleabile. E non scende a compromessi. La sacralità dell’istituzione unita alla tecnicalità della razionalità governamentale neoliberale contribuisce alla creazione di un dominio ancora più assoluto, privo di ogni legame con il resto del corpo sociale. È questa intuizione che, in fondo, costituisce il nucleo di verità delle più fervide fantasie di complotto dei nostri tempi (Wu Ming 1 2021) e che abbiamo visto impiegata anche nel governo del tempo pandemico.
In questi giorni il possesso della certificazione verde, il green pass, è divenuto obbligatorio per lavoratrici e lavoratori di ogni ambito, pubblico e privato. Sebbene il tanto temuto (o desiderato, dipende dai punti di vista) blocco alla circolazione delle merci e all’erogazioni di servizi nel Paese non si sia verificato, proteste e manifestazioni si susseguono senza sosta nelle principali città italiane, coagulando attorno alla richiesta indirizzata al governo di ritirare il provvedimento pubblici e categorie socio-economiche profondamente diversi. Lavoratori del settore della logistica; cittadini atterriti all’idea di doversi fare inoculare il siero anti-covid 19; sindacati di base; cospirazionisti che leggono nella pandemia e nella sua gestione una strategia di controllo e disciplinamento non priva di rapporti con oscuri scenari esoterici e insondabili; gruppuscoli afferenti a residuali organizzazioni neofasciste; l’elenco sarebbe ancora lungo e vario.
Come rapportarsi a questo fenomeno, provando a combinare il giusto bilanciamento tra cogenza dell’attualità (il vaccino, il green-pass, la pandemia) e sequenze storiche trans-locali che, negli ultimi anni in varie parti d’Europa – per limitarci al Vecchio continente – vedono sempre più apparire sulla scena pubblica schiere eterogenee, mosse da rivendicazioni plurime come quella di queste settimane? Il protagonismo di questi gruppi sociali pone problemi non solo al potere costituito, non diversamente da quanto accadrebbe con altre forme del conflitto sociale, ma anche a schieramenti tradizionalmente prossimi alla ‘piazza’ e al repertorio politico che essa evoca, e che in queste occasioni ne sono lontani per linguaggi e strategie organizzative. Mi sembra infatti innegabile che quanto meno una parte delle rivendicazioni espresse da queste piazze delineino una critica delle diseguaglianze sociali esacerbate dalla continua riarticolazione dell’economia globale, attestando la crisi acuta delle forme di rappresentanza e di mediazione politica dei nostri tempi (Bertho 2019) – testimoniata, da ultimo, dal più che elevato tasso di astensione alle ultime elezioni amministrative. Come rapportarsi a questo magma senza incedere in facili apologie e in uno schizofrenico ratio-suprematismo?
Certamente una porzione non trascurabile del blocco sociale ostile al green pass (e al vaccino) attinge e dà forma, forse inconsapevolmente, a un assemblaggio di trame, narrative e retoriche di matrice cospirazionista che in Europa e soprattutto negli Stati Uniti da tempo costituisce la linfa vitale di movimenti e organizzazioni della destra variamente suprematista e razzista (Portelli 2020; Wo Ming 2021), che nella pandemia ha individuato un nuovo cavallo di battaglia così come lo sono stati (e lo sono ancora) i migranti e la supposta sostituzione etnica; temi entrati nelle più importanti sedi istituzionali anche in Italia, attraverso la porta d’ingresso dei principali partiti conservatori.
Preso atto di questa genealogia, resta il problema di come rapportarsi a questa fenomenologia, sebbene non maggioritaria nel Paese. Le uniche strade percorribili sono plaudire all’azionamento degli idranti contro i lavoratori portuali di Trieste e sposare incondizionatamente l’azione di governo degli ultimi due anni? Lasciando da parte, in questa sede, riflessioni di carattere tattico/strategico comunque non procrastinabili per chi opera una qualche forma di lavoro sociale e politico, mi sembra cruciale non dimenticare da cosa è originata la pandemia e quali azioni debbono essere messe in campo perché la normalità di ieri, che era il problema, non ritorni a pandemia terminata.
Il desiderio di normalità, pur comprensibile per lavoratrici e lavoratori che sono andati incontro ad acute difficoltà in questi anni e per tutte/i coloro che hanno rinunciato a condizioni di affettività e socialità determinanti per la propria soggettività, rischia di far dimenticare alcune premesse necessarie. Lo stesso può dirsi per lo strabismo con cui si guarda in queste settimane al pass e al vaccino come soluzioni sanitarie dirimenti o, di contro, come diabolici espedienti da dittatura sanitaria.
La prima di queste premesse concerne la genesi di questa pandemia, che risiede nell’insostenibilità di quelle perturbazioni antropiche (Tsing 2021) con cui lo sviluppo capitalista ha devastato – oltre che gli esseri umani – la natura e gli ecosistemi della Terra, mediante l’apporto di logiche varie ma analoghe (la mercificazione della terra; l’estrazione continua di risorse per la loro messa a valore nei circuiti del capitale; ecc.). La prospettiva di un’apocalisse prossima in cui l’umano non rimane che traccia sbiadita di un reperto archeologico non è mai stata così d’attualità come negli ultimi anni. La devastazione che segue a eventi meteorologici e climatici estremi e perlopiù imprevedibili lascia intravedere come realistici quegli scenari distopici in cui l’umanità lascia definitivamente il posto ad altri regimi di vita (non-umani) (Lai 2020). Di zoonosi e spill-over si è parlato abbastanza, in questi mesi. Imputare al regime cinese mancanza di trasparenza e denunciare i vincoli politici e finanziari che limitano l’operato di un’agenzia come l’Organizzazione Mondiale della Sanità non può far passare in secondo piano processi storici di lunga durata e ormai quasi irreversibili.
Lo stesso dicasi per la presa in carico della salute, da decenni stritolata tra pervasiva medicalizzazione (inclusa la psichiatrizzazione) della sofferenza sociale che svilisce il portato più ampio dell’incontro terapeutico da un lato, e logiche finanziarie che ritengono prioritario mettere a valore la cura e la malattia, dall’altro. Anche di questo si è parlato negli ultimi mesi, e lo si è fatto giustamente a partire dal dato della sanità lombarda, a lungo considerata la più efficiente e ‘in salute’ d’Italia salvo poi vederla crollare alla prima ondata epidemica perché la sua organizzazione territoriale – volta alla massimizzazione più ampia possibile del profitto – non poteva competere con la capillarità della diffusione del virus, che avrebbe richiesto ben altro radicamento dell’istituzione sanitaria sul territorio.
In un dibattito pubblico fagocitato dall’estensione dell’obbligo di green pass, vi è il serio pericolo di introiettare narrazioni diversive che si allontanano da valutazioni complessive e sistemiche. Si possono mettere in dubbio le motivazioni e la mobilitazione del cosiddetto ‘popolo no-vax’ senza per questo aderire incondizionatamente all’ordine del discorso istituzionale – in altri termini, criticare il suo divenire regime di verità?
Credo di sì e che, anzi, ciò sia oltremodo necessario. Abbiamo tutti un dovere di memoria affinché in un non così improbabile nuovo futuro pandemico alcune scelte vengano contestate e non assorbite totalmente dall’emozionalità istintuale e dalla paura. Dalla decisione, fortemente caldeggiata da Confindustria, di non chiudere e bloccare la produzione nella Bassa Valle Seriana, principale focolaio d’infezione durante la prima ondata, alla scelta di adottare provvedimenti discutibili da un punto di vista epidemiologico e fortemente restrittivi delle libertà individuali e sociali, cosa a cui abbiamo assistito piuttosto attoniti e impotenti più di un anno fa. Discutere di queste misure, a mio parere erronee, non equivale a foraggiare polemiche di stampo elettorale, ma significare ragionare su come impedire che la sacrosanta esigenza di protezione della popolazione – la sua messa in sicurezza – non debba scivolare in una perennizzazione dell’emergenza.
Anche qui, nulla di nuovo, sebbene sembri che alcuni intellettuali si siano ridestati all’improvviso dal sogno di un mondo ideale e perfetto che, però, non esisteva. I processi di capitalizzazione della sicurezza (basti pensare alla sempiterna emergenza terrorismo) in cui la soglia tra regimi autoritari e democratici si fa labile, non costituiscono affatto una novità, anche nel nostro Paese.
Ecco, piuttosto che invocare lealtà morale nei confronti del ‘capo’ paventando la realizzazione di un’unità nazionale fondata sul conformismo politico, credo si possa ragionevolmente dubitare della legittimità delle istituzioni e del loro operato, e provare financo a cambiarle.
Dialoghi Mediterranei, n. 52, novembre 2021
Note
[1] A tal proposito, rimando al n. 15 (2012) della rivista “Oasis”, Dove poggiano gli Stati. Diritto, costituzioni, Sharî’a.
Riferimenti bibliografici
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https://www.terrestres.org/2019/11/22/leffondrement-a-commence-il-est-politique/?fbclid=IwAR2L2cZcj_-U6HvPTfUqIr6VlYcswx00oCEgRhwtbYKz3zwMDqM_D-pseh8.
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Giovanni Cordova, dottorando in ‘Storia, Antropologia, Religioni’ presso l’Università ‘Sapienza’ di Roma, si interessa di processi migratori – con particolare riguardo al sud Italia, società multiculturali e questioni di antropologia politica nel Maghreb. Per la sua ricerca di dottorato sta esaminando la dimensione politica ‘implicita’ nella vita quotidiana dei giovani tunisini delle classi sociali popolari nonché la commistione tra i linguaggi della religione e della politica. Prende parte alla didattica dei moduli di antropologia nei corsi di formazione rivolti a operatori sociali e personale della pubblica amministrazione in Calabria e Sicilia.
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