di Rosario Lentini
Sul finire del Settecento il primo mercante inglese venuto a stabilirsi a Mazara – secondo in ordine di tempo, nell’area trapanese, rispetto a John Woodhouse che si era già insediato a Marsala – è stato Joseph Payne. Sulle sue origini e provenienza, in verità, si sa ben poco; precedette di alcuni anni i due connazionali Matthew Clarkson e James Hopps e, almeno inizialmente, i suoi interessi commerciali si concentrarono sulle compravendite di semi di lino, mandorle, fichi, ceneri di soda, orzo e olio, di cui il territorio mazarese abbondava [1]. Acquistava dai produttori locali e spediva ai suoi corrispondenti britannici residenti a Palermo i quali, a loro volta, imbarcavano i prodotti siciliani più richiesti sui mercantili per l’Inghilterra.
Dal buon rapporto con Woodhouse derivò probabilmente lo stimolo a sviluppare anche l’attività enologica, sempre più redditizia per effetto delle vicende che andavano maturando durante il conflitto tra Napoleone e le grandi potenze europee e che portarono al controllo politico-militare da parte degli Inglesi, sia della Sicilia nel decennio 1806-1815, sia dell’Isola di Malta divenuta protettorato britannico [2]. Per assicurare rifornimenti e servizi di varia natura alle truppe dislocate nel Mediterraneo meridionale ci si avvalse proprio della rete di case commerciali inglesi e di singoli mercanti come Payne, già presenti nell’Isola e ben inseriti nelle comunità locali.
Due erano, quindi, i principali destinatari del vino siciliano: le truppe di mare e di terra che stazionavano nel Mediterraneo e i porti della Gran Bretagna; a questi si sarebbero aggiunti, in una seconda fase, altri mercati di consumo d’oltreoceano e dell’Europa continentale. Si può ipotizzare che la costruzione del baglio di Joseph Payne lungo la riva sinistra del fiume Mazaro risalga ai primi anni dell’Ottocento e che all’interno dello stesso si conferissero le partite di mosto o di vino acquistate dai diversi proprietari delle circostanti contrade e anche alcune produzioni agrarie e relativi derivati da lavorazione in loco (specialmente l’olio di semi di lino e l’olio di oliva), che alimentavano la domanda estera [3]. Non a caso, nell’estate del 1818, Payne richiese – ottenendola rapidamente – l’autorizzazione a costruire un mulino a vento «nelle vicinanze di Campobello di Mazara» [4]. Sarebbe auspicabile un’indagine presso quell’archivio storico comunale e presso l’archivio di Stato di Trapani (fondo Intendenza), per accertare l’avvenuta costruzione del mulino e per sperare di ritrovare la documentazione di dettaglio (relazione, disegni) sul progetto presentato.
Analogamente a quanto si praticava nello stabilimento dell’amico Woodhouse, anche presso quello mazarese – quasi certamente attrezzato per la distillazione – si procedeva alla produzione di acquavite, sia da esportare come tale, sia da aggiungere nelle botti, per alcolizzare e rafforzare maggiormente il vino locale; lo attestano diversi documenti dai quali, ad esempio, si rileva la definizione di «opificio ad uso inglese». Nel 1812 il commissario britannico responsabile degli approvvigionamenti delle truppe chiedeva alla segreteria di stato borbonica di ordinare al funzionario doganale competente di consentire l’imbarco di botti di acquavite provenienti da Mazara, franche di qualsivoglia dazio; richiesta che, in quegli anni, anche in forza dei trattati veniva quasi sempre accordata [5]. Tuttavia, la questione doganale era spesso oggetto di aspre controversie tra le autorità locali e i mercanti inglesi, avvezzi a un pragmatismo operativo che mal si conciliava con il groviglio del sistema daziario siciliano. Accadeva, ad esempio, che i vini acquistati da Woodhouse o da Payne in altre e più lontane contrade della Sicilia orientale, e trasferiti nei rispettivi bagli di Marsala e di Mazara per essere “rinforzati”, venissero tassati sia all’imbarco in quei porti, sia nel momento dell’estrazione per fuori regno [6].
Oltre all’ottimo rapporto con Woodhouse e con gli anglo-mazaresi Clarkson e Hopps, Payne divenne fiduciario e corrispondente di altri suoi connazionali residenti a Palermo, a Messina e a Malta, molto influenti, per operazioni non solo commerciali, ma anche finanziarie: Benjamin Ingham, dal quale veniva considerato grande amico, Charles Crockat, George Wood, Alexander Brech, Thomas Corlett. Si tenga presente che a causa delle ingenti spese militari e di mantenimento della corte napoletana costretta a rifugiarsi in Sicilia, la Tesoreria generale era continuamente chiamata a onorare gli impegni facendosi prestare somme dai ricchi mercanti, soprattutto inglesi. Woodhouse era uno dei principali mutuanti per importi rilevanti e talvolta si avvaleva anche di Payne – a riprova dell’elevata disponibilità di denaro contante – come trattario delle cambiali per erogare le somme da anticipare al governo, di norma al tasso dell’un per cento al mese; più raramente, senza interessi [7].
È fuor di dubbio che Payne fosse un negoziante-imprenditore abile e intraprendente; nuovi documenti ci mostrano adesso quanto fosse anche disinvolto nello svolgimento dei suoi affari, come si evince da una vicenda che suscitò «l’universale dispiacenza» e le proteste del Senato mazarese. Verso la metà del 1817, infatti, aveva fatto costruire prospiciente al suo baglio «una banchetta fissa di fabrica, che occupa, e si estende molto dentro il fiume, il quale ha poca latitudine, e (il Senato) facendo rilievare di esser mostruosa quell’opera fatta senza precedente permesso, conchiuse, che per non urtare con persona potente lo rassegnava al Governo per non incorrere in quella responsabilità, che da taluni se gli indossava» [8]. In buona sostanza, i senatori mazaresi pur contrariati per il grave abuso commesso, non osarono contestare direttamente e con tempestività i lavori non autorizzati di Payne, né durante, né dopo la loro attuazione, ma preferirono scrivere al Luogotenente generale di Sicilia «per non urtare con persona potente», quale egli veniva considerato.
Ma, ad aggravare il misfatto, si aggiungeva il fondato sospetto di contrabbando avanzato dal cavalier Mollica, segretario distrettuale di Mazara: «Dalla foce del fiume entra il mare quasi per un miglio dentro terra della larghezza di circa canne 12 (poco più di 24 metri), che nel centro v’è tale profondità da potervi entrare Sciabecchi e Legni grossi di carico». Il funzionario doganale non aveva dubbi sul fatto «che l’oggetto della banchetta [fosse] d’immettere, o di estrarre ogni mercanzia colla massima facilità, appressandosi li bastimenti di carico sino alla porta del suo baglio per mezzo della banchetta, onde oltre alla mostruosità, che porta questa fabrica nel fiume, dal che ne è derivata quella dispiacenza nella Popolazione, […] v’è anche da temere, che ne abbiano le Dogane il massimo danno, non essendovi più necessità di far uso delle piccole barchette per eseguire un controbando, che ben si poteva impedire da una vigilante, e fedele custodia, ma con situarsi li bastimenti di carico al fianco della banchetta possono di giorno e di notte eseguire a franca mano tutte le importazioni, ed esportazioni possibili, passando le merci dal bastimento alla porta del baglio, e vicendevolmente dall’interno del baglio ove esistono grandi magazeni per occasione della fabrica de’ Vini all’uso d’Inghilterra nel bastimento» [9].
Il fenomeno del contrabbando era tutt’altro che marginale – non solo in Sicilia – e la sua incidenza, specialmente in tempo di conflitti, era considerevole, di natura endemica, proprio come si direbbe di una malattia contagiosa persistente. Non c’era mercante indigeno o straniero che non ritenesse del tutto normale frodare le dogane quando se ne presentavano le condizioni e in questa pratica – onore al merito! – i mercanti inglesi eccellevano, forti anche del fatto di appartenere a una potenza dominatrice dei mari che aveva salvato il regno dei Borbone, impedendo l’invasione francese della Sicilia. Basti pensare, per esempio, che in quegli stessi anni Benjamin Ingham, quando ancora conseguiva i maggiori ricavi e profitti dalla commercializzazione di tessuti inglesi, accusato con prove certe di avere smerciato grandi quantità di panni con i bolli doganali falsificati, evitò il carcere (se non forse qualche giorno di detenzione) solo acconsentendo di pagare una sanzione pecuniaria molto gravosa (novemila onze).
Perciò, acquisite le relazioni del Senato e del funzionario della dogana mazaresi, il Luogotenente si rivolse al maggiore Carlo Afan de Rivera che aveva disegnato per conto dell’Ufficio topografico di Palermo, tra il 1810 e il 1816, una pianta di Mazara e dintorni e ordinò che si realizzasse una copia parziale della stessa, limitatamente all’area interessata – del fiume e del baglio –, da inviare al ministro delle Finanze del governo partenopeo, per renderlo edotto della questione. Anche la massima autorità istituzionale siciliana, quindi, al pari dei senatori mazaresi, si guardò bene di assumere un’iniziativa senza autorizzazione dello Stato centrale, quale era diventato il regno delle Due Sicilie dopo il Congresso di Vienna, con unica capitale a Napoli. D’altronde, come aveva fatto notare il Luogotenente dell’Isola, «Payne è un Vice Console Inglese, che tiene affissi le armi di S.M. Britannica alla Porta del Baglio, onde non si può nemmeno occorrere alla custodia, o colla visita a sorprendere li Controbandi». Occorreva prudenza e diplomazia in un caso così delicato, in cui le forzature davvero si sprecavano, considerato peraltro che re Ferdinando aveva stabilito che tutti i viceconsoli degli Stati esteri dovessero essere “nazionali” e non originari dei Paesi rappresentati.
Ad ogni modo, Sua Maestà, non ebbe esitazione e il 25 ottobre di quel 1817 prese la decisione: «che sia demolita la banchetta fabricata dal medesimo (Payne) nel letto del fiume di codesta Città tanto per la sua deformità, quanto perché potrebbe agevolare le furtive importazioni, ed esportazioni delle merci doganali». Questa sovrana risoluzione venne immediatamente comunicata all’imprenditore anglo-mazarese il quale, in verità, avendo compreso di non potere addurre giustificazioni plausibili, manifestò «la sua prontezza» a demolirla [10].
Tuttavia, non sarebbe stata la rinuncia al molo privato che avrebbe procurato il graduale declino delle sue fortune, bensì l’inizio di una grave recessione economica. Dall’inizio degli anni venti in poi gli affari cominciarono ad andar male; l’esplosione dei moti insurrezionali sanguinosi che esplosero in diverse località siciliane provocarono la paralisi del commercio con l’estero. Crebbe l’indebitamento di Payne nei confronti di amici e corrispondenti commerciali, primo fra tutti Ingham, verso il quale era esposto per poco più di 662 onze; debito che, nonostante la sbandierata amicizia, questi cominciò a reclamare con una certa insistenza a dicembre del 1824 [11].
Payne morì a gennaio del 1825 [12] e dei suoi creditori si dovettero occupare, in qualità di esecutori testamentari e amministratori, il console generale britannico, Frederic Lindeman [13] e il connazionale amico, George Wood, negoziante-banchiere. Lo stabilimento vinicolo fu poi rilevato da Matthew Clarkson [14].
La vicenda qui sinteticamente narrata offre lo spunto ad alcune riflessioni: la prima, quasi consolatoria, è che anche un potente e disinvolto mercante-imprenditore con un debole per il contrabbando, può fallire; peraltro – ironia della sorte – vessato da un creditore ancor più spregiudicato come Ingham, che pur gli si professava amico. La seconda, è persino confortante: gli eredi del conclamato contrabbandiere Ingham – ovvero i nipoti e i pronipoti Whitaker – hanno ampiamente risarcito la collettività siciliana, lasciando un patrimonio di studi, di ricerche, di beni archeologici, d’arte e d’architettura, di inestimabile valore: Mozia, la Fondazione Giuseppe Whitaker con la sua villa Malfitano e lo splendido parco, le collezioni di coralli ecc. Ed infine, di tutta la colonia di mercanti inglesi attiva e produttiva in provincia di Trapani, unico probabilmente a distinguersi per correttezza e che beneficiò della stima della popolazione marsalese, oltre che dell’apprezzamento del governo, fu proprio l’inventore del vino marsala John Woodhouse. Peccato che la sua memoria non sia stata degnamente onorata preservando il suo maestoso stabilimento enologico divenuto ormai un irriconoscibile e anonimo residuo architettonico.