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«Juhan»: un’appassionante dialettica tra Oriente e Occidente

copertinadi Silvia Pierantoni Giua

«In amore come in politica niente è impossibile» afferma Juhan verso la fine del libro che ha per titolo proprio il suo nome. Questa frase è esplicativa del contenuto del breve romanzo di Ameen Rihani poiché racchiude le principali tematiche che vengono affrontate, ovvero l’amore, la politica e l’infinito potere e potenziale che esse possiedono.

Non è casuale il fatto che la protagonista associ questi due termini; nel testo, infatti, amore e politica si intrecciano dando forma a dinamiche, spesso conflittuali, sia di natura psicologico-emotiva (i pensieri e le emozioni contrastanti vissute da ciascun personaggio) sia di carattere relazionale (le dissonanze che si creano all’interno dei rapporti) e, infine, di ordine sociale (in che modo il contesto e i rapporti personali si influenzano reciprocamente).

Al centro di tali dinamiche è la bella e sofisticata Juhan, donna turca altolocata cresciuta nella Francia dei primi del ‘900 e rientrata dopo gli studi a Costantinopoli. Il romanzo si sviluppa quasi interamente nella capitale di un Impero Ottomano decadente, impegnato nel Primo Conflitto Mondiale affianco alla Germania. La situazione che emerge è di grande instabilità politica dove ormai il Sultano e la classe dirigente turca sono ridotte a una semplice nomenclatura svuotata di autorità in favore di una sempre maggiore influenza da parte degli alleati tedeschi. Figura centrale in tal senso è quella dell’alto Generale prussiano von Wallenstein, personificazione agli occhi di Juhan della «bestia bionda» nietzschiana. Come precisa l’attento curatore della versione italiana del romanzo Francesco Medici, l’immagine del celebre filosofo allude a quel genere di individuo contraddistinto da un’audacia che sfocia in disprezzo per la sicurezza, che oltrepassa i limiti della natura, del rispetto per la vita. Ma, oltre ad un sentimento di repulsione, Juhan avverte nei confronti del Generale anche un certo fascino dato dall’eleganza del portamento militare, dalla forza, dal prestigio e dal potere, oltre che dal suo essere fisicamente attraente. Forse associa quella mancanza di restrizioni e inibizioni alla sua ricerca di libertà? Forse in fondo apprezza maggiormente una personalità vigorosa seppur disdicevole rispetto alla mediocrità? O forse quel suo comportarsi in modo drastico trova corrispondenza con il suo desiderio di vivere in modo radicale i propri valori? Le stesse scelte di Juhan sono imputabili di estremismo ed egoismo.

Ma è proprio questo carattere contraddittorio ad essere apprezzabile, ancor più degli ideali femministi rivoluzionari che Juhan così in anticipo sui tempi rappresenta. Infatti, gli spunti di riflessione sulla condizione della donna e sull’importanza della libertà di affermazione di sé e del proprio pensiero risulterebbero astratti e artefatti senza quel tocco di umana incoerenza che accompagna il lettore durante tutto lo scritto.

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Ameen Rihani

Lo stile intimistico dell’autore, reso egregiamente nella traduzione di Francesco Medici, disegna questa complessità soggettiva propria di ogni essere umano e così verosimilmente dei personaggi principali del testo. Questo spazio introspettivo viene costantemente messo alla prova dalla realtà che irrompe con violenza nell’intimità e costringe a fare i conti con il mondo esterno.

Da subito il lettore si trova di fronte allo scontro tra queste due dimensioni, dove le riflessioni di Juhan sull’ideale di libertà, di emancipazione della donna e sul desiderio di riforma della religione e della società si sgretolano davanti all’impossibilità concreta persino di uscire da camera sua. Riza Pascià, suo padre, infatti aveva ordinato alla servitù di chiuderla a chiave per impedirle di portare avanti quella relazione con il Generale von Wallenstein che pensava essere una relazione d’amore, rapporto da lui ritenuto inammissibile in quanto in contrasto con la propria cultura e religione. Nonostante avesse desiderato per la figlia un’educazione europea e avesse con lei un rapporto di fiducia e di grande affetto, Riza Pascià restava fortemente ancorato alla tradizione che per lui era considerata al di sopra del rispetto della libertà individuale. Il sospetto di tale legame disonorevole era nato dopo aver intercettato una lettera che Juhan aveva in realtà indirizzato a Sukru Bey, suo cugino e aspirante sposo, per scongiurarne la partenza al fronte.

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Frontespizio del manoscritto originale

Quest’ordine militare sarà la miccia che provocherà una serie di azioni e reazioni da parte dei vari personaggi, tutte neutralizzate da von Wallenstein che fino all’ultimo sembra detenere un potere irrefrenabile, tale da decidere della loro vita. La stessa Juhan sembra trasformarsi in marionetta nelle sue mani, costretta a sottostare al suo volere fino all’umiliazione di concedersi a lui nel tentativo di frenare il dramma che si stava delineando davanti ai suoi occhi. Nella parte finale del libro però la situazione si ribalta facendo emergere come burattino il Generale che, ipnotizzato dalla bellezza e dalla sensualità della protagonista, cadrà nella sua mortale trappola di vendetta, restando per giunta ignaro di esser stato usato come mezzo per realizzare ciò che Juhan aveva da tempo progettato. Fin dal principio, infatti, Juhan aveva pianificato di utilizzare il seme di von Wallenstein per generare quel figlio che aveva visto in visione la notte in cui decise di inviare la lettera segreta e che incarnava quella possibilità di unione tra libertà e tradizione, passione e saggezza, Oriente e Occidente, che in lei e nella realtà circostante erano ancora divisi.

Il fatto che Juhan si trovi a dover superare lutti e sofferenze per poter dare alla luce la speranza di un futuro migliore sembra indicare che ogni crescita non può essere esente da sacrifici e difficoltà. E non solo. Il figlio si fa simbolo di una rivoluzione sociale, del riformismo di una cultura patriarcale che non può che nascere dalla morte del passato; non a caso l’autore decide di sgombrare il campo da tutti i personaggi maschili che, di fatto, lo rappresentano, e di lasciare la donna come sola possibilità di cambiamento. Infatti, come sottolinea il curatore nell’Introduzione, Rihani fu tra i pochi del suo tempo «a ritenere che le donne dovessero emanciparsi da sole, senza delegare agli uomini il compito di battersi per il loro diritti». Ma, altrettanto significativa, la scelta di far dare alla luce un maschio – Mustafa – come a sottintendere la necessità di un nuova generazione di uomini.

Questo senso di speranza è però totalmente assente nella prima versione del romanzo.

«Juhan», infatti è la traduzione dello scritto in arabo, pubblicato a New York nel 1917 ma, l’anno precedente, l’autore libanese aveva elaborato una prima stesura in lingua inglese, opera che è rimasta inedita per quasi un secolo, prima di essere stampata a Beirut nel 2011. Come viene riportato da Francesco Medici nella Postfazione della recentissima edizione italiana, il punto principale di divergenza tra i due scritti risiede nel finale che conferisce al racconto una chiave di lettura molto differente. Nella prima versione, dopo aver ucciso la «bestia bionda», la protagonista viene assalita da altre «bestie»: la vergogna, la paura, il senso di colpa e la disperazione, che la conducono a togliersi a sua volta la vita; il testo si conclude allora in una vera e propria tragedia lasciando irrisolta quell’unione degli opposti a cui tanto anelava Juhan.

Come osserva il curatore nell’Introduzione, il nome della protagonista in persiano significa «mondo/universo» e rappresenta quindi simbolicamente l’intento di Rihani di dar vita a un personaggio «universale» che incarni idealmente i valori dei due emisferi del globo. Tuttavia, l’autore non costruisce una figura astrattamente perfetta, forzando questo connubio, bensì lascia che tale ideale sia sperimentato da un essere umano che in quanto tale vive le contraddizioni e le difficoltà che questo implica.

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edizione pubblicata a Beirut

Chissà che la ragione del primo finale non sia da cercare proprio in questa volontà di realismo, come a indicare che questo mondo, la nostra umanità può sì tendere a un ideale ma non potrà mai incarnarlo davvero; chissà che non si celi il monito di non cercare di coincidere con la perfezione, di non aver la presunzione di possedere la giustizia divina, presunzione che può portare solamente a conseguenze nefaste. Con questa chiusura però si sarebbe persa l’esortazione a credere nella possibilità di un cambiamento poiché esso si sarebbe spento insieme alla protagonista. Allora forse l’autore ha sentito l’esigenza di una rettifica che creasse lo spazio per questa apertura con la nascita di una nuova vita. In entrambi i casi, il lettore rimane con una serie di interrogativi su tematiche fondamentali che riguardano l’esistenza, ovvero la giustizia, la libertà, la passione, la consapevolezza, il coraggio, il rispetto e le contraddizioni presenti nell’individuo e nella società.

Nel nostro tempo queste contraddizioni sono aspre e ben lontane dall’essere risolte. Più che portare all’unione e alla consapevolezza che tutti facciamo parte dello stesso pianeta, la mondializzazione ha messo in rilievo le disuguaglianze e la chiusura di confini e mentalità. Se Juhan è una donna aristocratica che ha avuto il lusso di vivere tra Oriente e Occidente e quindi il privilegio di porsi delle domande rispetto alla convivenza di questi due mondi dentro di sé, oggi ciascuno di noi si trova a dover affrontare necessariamente la questione. Non si tratta di operare un livellamento delle differenze, un’omologazione delle culture bensì di creare un’apertura al confronto, unica possibilità di crescita personale e sociale.

Juhan ai giorni nostri rappresenta questa occasione, l’importanza di vivere l’esistenza in modo attivo e appassionato, di portare avanti una ricerca sincera della propria identità facendosi così portatori di cambiamento.

Dialoghi Mediterranei, n. 40, novembre 2019
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Silvia Pierantoni Giua, si specializza in arabo e cultura islamica durante il corso di Laurea Magistrale in Lingue e culture per la comunicazione e la cooperazione internazionale all’Università degli studi di Milano. Approfondisce poi la tematica della radicalizzazione islamista in occasione della stesura della sua tesi di laurea di Ricerca in Psicoanalisi diretta dallo psicoanalista F. Benslama, che ha discusso nel giugno 2016 all’Università Paris VII di Parigi. Attualmente si occupa della stesura di un progetto per la prevenzione del fenomeno del fanatismo.

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