di Barbara Crescimanno
Il mito di Kore e Demetra è una storia mediterranea con diverse varianti, di cui una ambientata in Sicilia, tra Enna, Siracusa e l’Etna. Nella versione siceliota del mito si incontrano diversi strati culturali, afferenti a visioni “religiose” della vita alquanto distanti tra loro. Le fonti sono prevalentemente di epoca greca: è la storia che ci hanno raccontato i “vincitori”, cioè coloro che ci hanno lasciato testi scritti, parlando per sé e per tutte le popolazioni mute alle cui culture i Greci hanno sovrapposto la loro dal momento del loro arrivo in Sicilia.
Tenendo conto della consapevole tendenza ellenica a deformare e “normalizzare” i miti preellenici, alle fonti letterarie bisogna affiancare quanto può essere attinto dagli studi di altre discipline (archeologia, archeomitologia, antropologia…) che possono aiutare a ricostruire un significato spesso diverso, e molto più denso, rispetto all’immagine oggi veicolata nelle scuole di una inerme principessa rapita mentre era intenta con le ancelle a raccogliere fiori in un prato.
Scrive Manni che «per certi aspetti la Sicilia ha sicilianizzato i Greci» [1]. nel colonizzare l’Isola essi hanno incontrato una cultura che è stata capace di assimilare, integrare e sincretizzare le due (e più) etnie in un nuovo insieme culturale. Cosa possiamo scoprire di nuovo quindi scavando di strato in strato? Nel mito vengono documentati alcuni passaggi cruciali: Demetra thesmoforos (portatrice di legge) è l’iniziatrice di una vita sedentaria e agricola. Il passaggio dal tempo di Kore a quello di Demetra è il racconto della cosiddetta rivoluzione neolitica dell’agricoltura, una rivoluzione alimentare e sociale.
Il secondo passaggio è quello alle società patriarcali: Kore non celebra più lo hierogamos con Ade, ma viene da lui rapita con la forza e riceve come dono di nozze da suo padre Zeus la terra di cui – in un’era precedente – era lei la divina madre. Persephone rappresenta il tempo ciclico e la credenza pre-ellenica nella rigenerazione, mentre l’ellenico Ade rappresenta il tempo lineare che ha un principio ed una fine, l’ineluttabilità della morte.
Infine, il quarto è il passaggio dalla sacralità alla religione, dalla natura alla città e alle divinità poliadi [2]. Prima di diventare figlia di Demetra, Kore era una Ninfa. Diversamente dalle divinità olimpiche, le Ninfe (nome greco per figure sacre femminili pre-elleniche) sono legate ai luoghi naturali e selvaggi: i loro santuari non sono templi architettonicamente imponenti, ma fonti d’acqua, boschi sacri, grotte. Come si evince dai racconti di Nonno sulle ninfe Aura e Nicea, il passaggio alla città – e ai culti cittadini – è possibile solo attraverso la morte della Ninfa o il suo addomesticamento. Kore viene definita la Ninfa per eccellenza «in quanto esemplificazione mitica del passaggio dallo stato virginale a quello coniugale» (Lambrugo 2009: 140). Occorre quindi ricostruire un quadro più completo di questi personaggi mitologici.
Il termine nymphe identifica delle figure liminali, poste tra l’umano e il divino, tra il mondo selvaggio e quello civilizzato, tra l’adolescenza e l’età adulta. Assimilate in alcuni testi a daimones, Jeanmaire le definisce «le fate di una mitologia degli spiriti elementari della natura»[3]. Da un lato abbiamo la definizione di uno stato sociale (giovane donna in età da marito, sposa novella [4]), dall’altro è notificato uno dei nomi del sacro, probabilmente di origine non indoeuropea come altri nomi del pantheon greco (come gli stessi Demeter [5] e Persephone).
Le più antiche attestazioni del termine – risalenti ad una rase preistorica del greco – sono legate alla sfera mitologico-religiosa. Omero le chiama «figlie di Zeus», certificandone la natura divina, ma per rintracciare la loro origine dovremo seguire un percorso tortuoso e labirintico, partendo da lontano.
Studi di linguistica [6] hanno evidenziato come esista una interferenza lessicale tra il greco e l’ebraico in epoca pre-protostorica. C’é un insieme di nomi che si riferiscono a culti e riti dal rilevante significato simbolico e che sembrano una possibile eredità neolitica. Di questo insieme fanno parte due termini semitici che designano il MIELE e le API: troviamo infatti una analogia tra i termini ebraici strutturati sulla radice *DB(R) come debas/debar (“miele”) e Deborah (“ape, profetessa”), e i corrispondenti termini greci méli e Mélissa. In che modo sono collegati api e miele alle Ninfe? Porfirio ne parla, descrivendo la grotta di Itaca di cui si racconta nell’Odissea [7]:
In capo al porto vi è un olivo dalle ampie foglie: vicino è un antro amabile, oscuro, sacro alle Ninfe chiamate Naiadi; in esso vi sono crateri e anfore di pietra; lì le api ripongono il miele.[...] Qui scorrono acque perenni.
In essa le api sembrano convivere con le Ninfe Naiadi [8] cui l’antro è consacrato. Continua Porfirio:
Le ninfe Naiadi sono dunque le anime che discendono nella generazione. Da qui discende anche l’uso di chiamare “ninfe” le donne che si sposano, come se contraessero un vincolo al fine di generare, e di cospargerle di acque attinte da fonti o correnti o sorgenti perenni.
Le Ninfe, come anime, vivono insieme alle api, entrambe potendo incarnarsi nella creatura che deve ancora nascere. Ancora: i favi sono stati usati, nel periodo arcaico, come tombe per i bambini morti prematuramente. Abbiamo dunque creature che abitano uno spazio tra la vita e la morte.
Esiste una complessa simbologia riguardante le api e il miele tra le culture mediterranee dell’età del Bronzo (anche se il legame tra api ed esseri umani è radicato già dai culti di eredità neolitica): l’ape era una creatura sacra, associata alla divinità. In uno dei miti più conosciuti Rhea, divinità pre-olimpica figlia di Gea ed Urano, partorì Zeus a Creta, nell’antro Ideo – al cui ingresso si innalzava un albero – grotta sacra alle api e sede di rituali iniziatici, in cui né dio né uomo potevano entrare, e furono proprio le api sacre a nutrire il neonato col miele: gli stessi elementi dell’antro descritto nell’Odissea. Ma le api dell’antro cretese, nei racconti degli autori classici, divennero Ninfe: una di queste, Melissa, era figlia del re Melisseo e, scrive Lattanzio, fu la prima sacerdotessa della Magna Mater: lei e le sue sorelle verranno chiamate Melissai.
Ninfe e api silvestri, nutrici divine, le troveremo sovrapposte in numerosi testi, entrambe associate ad habitat come i boschi, gli alberi e le grotte con acque, in quegli stessi luoghi cioè in cui le api allo stato selvatico depongono il miele e in cui sorgeranno i Ninfei (i santuari rupestri ad esse dedicati). «La divinità femminile che affida il suo piccolo neonato alle cure di ancelle divine o semidivine perché sia da esse svezzato, appare un topos riconducibile ai culti preistorici delle grandi dee madri» (Aspesi 2011: 67). Culti evidentemente pre-ellenici, occultati dalle successive invasioni indoeuropee: se delle Ninfe nutrono Zeus neonato, è evidente che esse occupano per prime il suolo in cui egli è arrivato successivamente [9]. Il cibo donato, il nettare o “biondo miele”, è chiamato il “dolce cibo degli dei” [10].
Ricordiamo così le Ninfe dell’Antro Niseo che nutrirono con il miele il divino Dioniso, e Meliteo (da meli, miele), figlio di Zeus e della Ninfa Otreide, nutrito da uno sciame di api; o le Thriai, le Ninfe-Muse che secondo Filocoro furono nutrici di Apollo; o ancora, la dea cretese Britomartis [11], il cui nome – secondo alcuni studiosi – significa proprio ape-Ninfa.
Torniamo a Melissa. Prima di diventare nome proprio, il termine significava letteralmente “quella del miele”, denominazione tabuistica [12] che finirà per sostituire il termine originale. Aspesi ipotizza che, una volta avvenuta la sostituzione, il preesistente termine nymphe sia rimasto ad identificare le figure divine eredi delle valenze sacrali appartenenti alle api. Scrive Mnasea, scoliaste d’epoca ellenistica:
Api sono coloro che consacrano la loro vita ai riti, e furono queste api-Ninfe a far desistere gli uomini da una dieta carnivora e a insegnare loro un regime vegetariano. Una di queste ninfe, Melissa, per prima scoprì dei favi, ne mangiò e mescolò miele e acqua; istruì le compagne e chiamò gli insetti melissai dal proprio nome.
Le Ninfe-Melisse sembrano dunque semidee o sacerdotesse che impiegano e somministrano il miele – dono divino – come nutrimento sacro. Ma non solo. In un papiro neoplatonico il dio Mitra viene definito «colui che sostiene con il miele», «colui che distrugge con il miele», «colui che crea con il miele», ricordando la divina Trimurti indiana formata da Visnu, Shiva e Bhrama.
Il miele, come le Ninfe, è un elemento ambiguo e liminare. Già dal periodo della protostoria greca questa sostanza – considerata estremamente rara e preziosa – é legata al mondo infero: veniva usato nelle libagioni durante i rituali funebri e offerto come sacrificio alle divinità ctonie. Glauco, il figlio di Minosse e Pasifae, torna alla vita dopo essere affogato nel miele [13], la pratica di imbalsamare i morti con il miele, grazie alle sue proprietà anaerobiche e antibatteriche, esisteva anche in Egitto e a Roma. Stazio, nelle Silvae, racconta che il corpo di Alessandro Magno era «perfusus Hyblaeo nectare», immerso nel miele ibleo, tanto che Augusto, tre secoli dopo, poté vederne il volto. I favi usati per i neonati morti prematuramente erano il modello di costruzione anche per le tombe a tholos micenee.
Del miele erano apprezzate anche le proprietà medicinali che ancora oggi gli riconosciamo: sedative, antibiotiche, antiinfiammatorie ed antibatteriche. Per questo era legato anche alla vita e alla nascita: era l’unico alimento destinato ai neonati nei primi due giorni di vita, ed era sicuramente alimento rituale per allevare i figli “divini”: lo abbiamo visto con Zeus e con Dioniso [14], Perfino il matematico Pitagora – probabilmente un iniziato ai misteri del monte Ida – attribuiva la sua longevità ad una dieta a base di miele. E se durante le Thesmoforie siracusane si preparavano mylloi (focacce) a base di sesamo e miele rappresentanti i genitali della dea, ancora oggi in India si usa spalmare del miele sul sesso della sposa in occasione delle nozze. Ancora la prima liturgia cristiana imponeva di far assaggiare il miele ai battezzandi, e continuava ad usarlo come libagione (insieme al vino e al latte) nei rituali funebri a Siracusa.
Ricorda la Albertocchi (2012: 68), citando Kerènyi, che il miele ha lo stesso colore del pallido sangue divino, l’ichòr omerico, e che lo stesso termine viene usato da Aristotele per definire il liquido amniotico delle partorienti. L’elemento liquido rientra nel complesso insieme simbolico al cui centro stanno le grotte-ninfeo, là dove nascono le sorgenti sotterranee. L’acqua – sacra alle Ninfe [15] e in alcuni testi sovrapposta ad esse come sinonimo – non è semplicemente un liquido dissetante, e non è ancora (siamo in un’epoca precedente alla “rivoluzione” agricola) importante per la cerealicoltura. L’acqua di sorgente è essenza ctonia: proviene dal ventre della Dea e i luoghi in cui essa sgorga sono luoghi di confine e insieme di collegamento tra due mondi altrimenti separati: il nostro mondo e il mondo infero. Perciò le api-Ninfe sono esseri che abitano il confine tra la vita e la morte, come ognuno di noi prima della nascita trascorre nell’acqua i nove mesi liminali della gestazione. L’acqua è quindi un elemento sacro e legato alla vita, alla morte, alla rinascita; essa risana, feconda, purifica [16].
Il legame tra Ninfe e acque sorgive, non “addomesticate” a scopo agricolo, chiarisce la loro relazione con la sfera del selvatico, e le sedi naturali delle api/Ninfe, le grotte da cui sgorgano acque perenni, rafforzano il simbolismo ctonio dell’insieme. È nelle grotte che ha avuto origine il culto dei morti: le grotte sono al contempo tombe dove i morti riposano e ventre gravido della Madre da cui si ri-nasce. Il miele, liquido amniotico divino usato nei riti funerari, e l’acqua sorgiva sono i mezzi per “conservare” e proteggere i morti e coloro che devono ritualmente ri-nascere. Ma il miele sembra legato anche alla parola, tramite la stessa radice relittuale semitica *DB(R) il cui significato è “effondere, fluire”. Dabar è la “parola ispirata”: profetica, poetica o cantata. Il profeta (o il poeta) è collegato all’ape: dalla loro bocca il miele/parola ispirata “fluisce” (Aspesi 2011: 75-82).
Ecco un altro insieme simbolico: in Mesopotamia il sumerico ka-lal, “bocca di miele”, è epiteto di divinità; e in un inno babilonese si dice di Ishtar: ha «labbra dolci come il miele, vita è la sua bocca». Nella letteratura greca troviamo diversi esempi di Ninfe o sacerdotesse legate all’attività profetica: Pindaro chiama la Pizia Melissa di Delfi, là dove un tempio venne costruito dalle api, e dove la prima profetessa di Gea fu la Ninfa Dafni; nell’Inno Omerico a Hermes le tre vergini-api «insegnano, in disparte, la divinazione»; la Ninfa Erato era profetessa di Pan in Arcadia; le Thriai nutrici di Apollo sono definite da Esichio le prime profetesse, e tali sono anche le ninfe Sfragitidi presso il monte Citerone (Andò 1996: nota 117). Anche Omero associa il miele alla parola, e insieme ai poeti i filosofi (Saffo, Pitagora, Pindaro, Platone, Socrate) vengono definiti ’nutriti e illuminati dal miele divino’. Lo stesso Pindaro sembra mettere in connessione méli (miele) e mélos (canto).
D’altronde il miele è l’ingrediente per una tra le più antiche misture psico-attive, tra le più semplici da realizzare e con grandi implicazioni cerimoniali: il melikratos (da miele e kratos “forza, potenza”) o idromele, formato dalla mescolanza di miele e acqua, la cui fermentazione produce una bevanda dal potere inebriante e di tradizione antichissima, precedente all’uso del vino e usato nei riti tesmoforici o di altre dee parthenoi [17]. Ma già nella grotta dell’Ida [18] dove crebbe Zeus Kretagenes si celebrava una festa misterica annuale con la preparazione rituale dell’idromele (Caruso 1994: 25): Plinio, descrivendo il procedimento per la preparazione della bevanda, sottolinea che la fase della massima fermentazione doveva avvenire al sorgere eliaco di Sirio, momento importantissimo nella religiosità greca, che corrispondeva, nei principali centri religiosi, al Capodanno.
Il miele è stato dunque nutrimento, farmaco, sostanza inebriante, e le Ninfe/Api sono le intermediarie, tra le divinità e gli esseri umani, tra cielo e terra, per questa sostanza sacra. Questi elementi ci spingono a comparare i riti legati alle Ninfe al viaggio sciamanico di altre tradizioni culturali, che comprende – oltre alle sostanze inebrianti – pratiche di digiuno, musica, danza e utilizzo rituale della voce per accedere a quegli stati non ordinari di coscienza dai quali potevano scaturire le visioni “profetiche” o “poetiche”. Le Ninfe, infatti, possono anche rapire: la ninfolepsia [19] ad esempio è un particolare stadio religioso, un entusiasmo profetico ispirato dalle Ninfe ai mortali, una dimensione estatica, non legata alla follia ma decisamente al mondo selvatico e non addomesticato, slegata dalla cornice cittadina. Il ninfolepto è catturato dalle Ninfe e «strappato alla polis, ma attraverso la possessione delle Ninfe riguadagna un ruolo sociale e mantico» (Schirripa 2009: 82-83). Nei ninfei si ritrovano iscrizioni e dediche di “rapiti” iniziati al culto delle ninfe. Socrate, nel Fedro, è un ninfolepto, ed evidenti tracce di questa forma di sacralizzazione si ritrovano nella poesia greca di ambito egizio, nelle dediche epigrammatiche alle ninfe del Nilo, nella tarda poesia orfica. Servio (Georgiche 4, 363) ci racconta di bambini offerti alle ninfe del Nilo, e suggerisce un rituale di iniziazione paragonabile alla discesa eleusina degli inferi. Non si può fare a meno di pensare ai racconti dei bambini “rapiti” o “scambiati” dalle Donne di Fora in Sicilia.
Dunque la voce, ma anche il canto e il pianto rituale, sono strumenti propri delle Ninfe, dai suoni spontanei della natura (la lalìa delle acque, lo stormire del vento, il fruscio delle canne) all’ololygmos (l’urlo notturno che le Ninfe lanciano alle epifanie della Dea o durante i riti funebri [20]). Anche i cori di adolescenti dei riti iniziatici sono modellati sull’archetipo divino dei cori di Ninfe (Calame 1977: 59 e passim). Ritorna una volta di più il legame simbolico tra le api e la morte: tra i termini con cui gli accadici chiamano l’ape c’è anche lallartu, ossia “la donna che si lamenta”, assimilando il ronzio delle api con il lamento rituale. Nella Valle del Nilo il suono delle anime dell’aldilà è paragonato ad uno sciame di api e Sofocle parla del ronzio prodotto dallo sciame dei morti [21].
La figura delle Nymphai è dunque abbastanza complessa. Se il termine indica la novella sposa, è perché tra le caratteristiche riconosciute all’ape c’è l’operosità incessante considerata tipica del femminile, la purezza, il continuo prodigarsi per nutrire ed accudire che sono stimati aspetti necessari di una buona moglie. La donna gestisce la vita del focolare così come l’ape l’alveare, in cooperazione per il mantenimento del gruppo e della comunità [22].
Ma la Ninfa è anche la donna fuori dal periodo puberale e nel pieno della sua maturità fisica, pronta a vivere la sfera erotico-sessuale del matrimonio. È socialmente lecito manifestare la sfera Afrodisia durante le nozze e a questo momento sono legate piante specifiche: sesamo, mirto, e menta [23], simboli dell’aidoion femminile.
Come siamo arrivati dalle api al sesso femminile? I lessicografi ci riportano un elenco molto denso di significati per il termine nymphe: è la fase della crisalide delle api, il momento di passaggio tra il chiuso e l’aperto, tra il nascosto e il palese; ma è anche il bocciolo ancora chiuso delle rose; è la punta del vomere dell’aratro; è la nicchia scavata negli antri; è soprattutto la cavità sotto il labbro inferiore: la parte interna dell’aidoion femminile, la clitoride. La Ninfa è la clitoride e la sessualità della donna-ninfa o della divinità-ninfa è espressa tutta dal nome che porta [24].
Nell’arte greca del periodo arcaico e classico (VII-V sec. a.C.) avremo dunque – da una parte – la raffigurazione di Nympheutriai come pudiche vestali di nozze che presiedono ai riti nuziali accompagnando nei cortei nuziali Demetra, Hestia o Eileithyia, dee rispettivamente della prole, del focolare domestico e del parto. In altre raffigurazioni le troveremo invece in una veste molto differente: lussuriose partecipanti dei cortei dionisiaci, in cui Sileni e Ninfe si cercano, si respingono, si baciano, si abbracciano, fuggono, danzano, fanno l’amore:
Sileni e ninfe sono infatti entrambi incarnazione dell’ambiente montano e agreste, di un modo ancora libero e selvaggio di vivere gli impulsi sessuali e le forme di seduzione. [...] Il termine greco nymphe, se da un lato indica la giovane donna in età da marito, dall’altro identifica anche la fanciulla nel pieno rivelarsi della sua sessualità, nella sperimentazione di un impulso erotico che verrà poi incanalato nella ’giusta’ direzione con la cerimonia del matrimonio e la procreazione. La ninfa è dunque anche la parthenos agrotera, ossia la giovane indomita e impulsiva, che ora soggiace piacevolmente, ora rifugge dalle brame dei sileni, di Pan, dei pastori e degli stessi dei, in quella fase dello sviluppo sociale e biologico che è a metà strada tra il vivere selvaggio e il vivere civile (De Francesco-Giacobello-Lambrugo 2009: 35).
C’è un ulteriore elemento che accomuna ninfe e api: la Danza [25]. È per mezzo di vibrazioni e movimenti circolari con schemi estremamente definiti che le api comunicano tra di loro il ritrovamento di una fonte di cibo, con una precisione massima per quel che riguarda la direzione e l’orientamento rispetto al sole, e la distanza della suddetta fonte dall’alveare. L’osservazione di questo modo ’danzante’ di comunicazione, legato alla forma circolare, al sole e al suo orientamento nello spazio, hanno dato inizio ad una serie di concatenamenti simbolici che hanno preso forma nei riti: l’identificazione del labirinto, con i meandri disegnati secondo il movimento della danza delle api, come spazio sacro; la danza come atto rituale che, insieme alle sostanze inebrianti ed intossicanti come l’idromele, finiva per indurre estasi o possessione [26].
Per chiarire questo collegamento è necessario fare un passo indietro, e tornare a quella interferenza lessicale riscontrata da Aspesi di cui abbiamo parlato. Abbiamo visto come la Grecia antica e la Bibbia condividano la metafora che collega la parola ispirata con il miele e l’ape. A partire dalla stessa radice, esiste un altro collegamento linguistico tra la base del termine greco labyr-inthos, precisato foneticamente in *dabur o *dapur [27] (dal miceneo cretese da-pu-ri-to, “focus cultuale- luogo del -”), e l’ebraico debir (il sancta sanctorum – focus cultuale del tempio gerosolimitano e sede dell’arca [28]). Entrambi i termini, come i precedenti, emergono da uno stesso sostrato linguistico-cultuale egeo-cananaico che nasce dai contatti tra la costa palestinese e l’Egeo cretese. Il significato che sembra comune ai due termini è quello di «sacro recesso pressoché inaccessibile». Seguendo questa pista, Aspesi trova un collegamento tra Debora e debir, «in considerazione delle relazioni tra ape e labirinto, inteso questo come specifico luogo di culto incentrato su di un sacro recesso» (Aspesi 2011: 98).
Tale relazione è testimoniata dalle evidenze archeologiche e letterarie dell’area egea e sembra avere epicentro a Creta. Il termine miceneo dapurito/labyrinthos deriverebbe da un termine autoctono con il quale i Minoici indicavano uno specifico luogo di culto all’interno dei palazzi cretesi, reinterpretazione architettonica delle grotte di culto cretesi di epoca neolitica, chiamate du-pu-re o dubure, caverne naturali o siti cultuali sotterranei. Nella famosa tavoletta di Cnosso in lineare B della fine del XV secolo a.C. troviamo l’offerta di anfore di miele alla cosiddetta Signora del Labirinto [29], che testimonia dei legami già riscontrati tra le api e i recessi naturali, sedi di culti preistorici con valenze labirintiche. Dell’Antro Ideo dove Rhea ha partorito abbiamo già parlato: un recesso ctonio sacro e inaccessibile. La grotta dell’Amnisos – prossima al palazzo di Cnosso – è invece sede del culto di Eileithyia [30] e presenta tracce di cinquemila anni di culto, dal neolitico all’età romana, attorno a due stalagmiti racchiuse da un muretto a secco con la stessa forma di meandro che troviamo all’interno del palazzo. Alla stessa radice *DB(R) è collegabile anche, rispetto allo stesso nucleo simbolico-concettuale di riferimento, il termine tabbur («ombelico, centro cosmico o centro focale»[31]), che associa all’ape sia le grotte che le cavità arboree, in particolare di alberi sacri come le querce di Delphi, dove le api selvatiche depongono il miele[32].
Questi luoghi sacri hanno molte caratteristiche assimilabili ai Ninfei: l’acqua sorgente o il bacino lustrale dei palazzi, l’oscurità e l’essenzialità dell’adyton del tempio di Gerusalemme, luoghi spesso connessi con la forma del meandro o della spirale. Un prototipo cretese del labirinto è quello a sette corridoi, con tracciato ortogonale a partire dal meandro centrale, oppure con linee curve. Si tratta di una raffigurazione che non segue una spirale continua, ma una successione di tratti che portano al centro con continue inversioni di tracciato, proprio come nella danza delle api [33]. Sono stati ritrovati, all’interno dei palazzi cretesi, vari bacini lustrali a pianta meandrica: A Cnosso, A Festo, ad Akrotiri (Thera) dove affreschi mostrano una divinità femminile in trono alla quale giovani donne recano offerte.
Dello stesso orizzonte simbolico-religioso fa parte la danza labirintica che Ariadne insegnò a Teseo, descritta da Callimaco come danza circolare attorno al simulacro di Afrodite a Delo, e denominata da Plutarco geranos. Omero nel parlarne fa riferimento al movimento della ruota del vasaio; Esichio lo glossa insieme ai termini choròs, kyklos, stephanos, e la chiama geren, confrontabile con l’ebraico goren: l’aia utilizzata per la trebbiatura e connessa a riti notturni, celebrati alla luce delle fiaccole, in cui la danza ha un posto molto importante. Allo stesso modo geranos è il «luogo delle danze labirintiche a Delo, presumibilmente implicate con riti agresti».
In alcune rappresentazioni vascolari, i danzatori o le danzatrici lasciano pendere dalle mani allacciate una stella a cinque punte o un disco con raggi: simboli astrali che potrebbero connettersi con indicazioni calendariali riguardanti i momenti dell’anno adatti alla semina e al raccolto. Sembra in effetti che la geranos venisse effettuata nel mese di luglio. In alcune iscrizioni fenicie è menzionato un “mese della danza” che coincide con luglio, in cui si svolgeva la festa di Astarte che i Greci identificano con Afrodite: lo stesso mese della levata eliaca di Sirio di cui abbiamo già parlato.
Le api/Ninfe sembrano dunque le Signore dei meandri labirintici – le viscere della Madre/Terra – luoghi di culto ctonio e di riti danzati legati alla fertilità della terra e della donna e ai ritmi astronomici che le connettono, alla morte e alla rigenerazione. Nel complesso di questa figura mitologica troviamo descritte semidee/sacerdotesse con capacità profetiche, interpreti della divinità e tramite della ispirazione poetica e dell’en-thusiasmòs attraverso l’utilizzo del miele e del canto rituale, espressione di una libertà sessuale non addomesticata e legata alla potenza creatrice divina, ma al contempo nutrici legate all’aspetto curotrofico della Dea madre. Come ricorda la Simonini (Porfirio 2006) «senza le Ninfe non si celebrano i riti di Demetra», e sacerdotesse e Ninfe sono entrambe considerate Api di Demetra a Corinto, come Melissai saranno chiamate le partecipanti alle Tesmoforie. Abbiamo corteggi di Melissai al Santuario Ideo di Rhea a Creta; per Artemide ad Efeso, dove la sacerdotessa maggiore era detta “apicultrice” e i sacerdoti “fuchi”, come se il Santuario fosse un alveare la cui Ape Regina era la dea in persona.
La Nymphe greca di età storica finisce per ereditare ed antropomorfizzare le valenze sacrali e simboliche caratteristiche dell’ape, epifania teriomorfa della divinità nella pre-protostoria delle popolazioni attorno al bacino del Mediterraneo – e non solo – lungo i millenni: della simbologia riguardante il miele e l’ape troviamo testimonianza – come abbiamo visto – in tutte le culture antiche dalle nostre coste fino all’India [34].
La Sicilia fa parte integrante di questa koinè linguistica e culturale. Oltre al legame tra le api e la dea Hyblaia, viene subito alla mente lo Zeus Meilichios di Selinunte: Zeus dalle parole di miele, i cui rituali dovevano comprendere l’utilizzo di questa sostanza sacra. Diodoro racconta ancora che Dedalo creò per l’Aphrodite Erycina un nido d’api in oro, simile a quello trovato a Cnosso. Ma soprattutto, non possiamo dimenticare il corteggio delle Ninfe di Kore, in Sicilia, chiamata melitodes (dolce come miele) da Teocrito e Porfirio, e abitante in una zona della Sicilia che viene definita da Diodoro omphalos, il centro dello spazio sacro.
I luoghi legati alle Ninfe (grotte, labirinti, adyton…) sono i santuari più rappresentativi dei culti femminili mediterranei d’eredità neolitica; le loro danze arrivano fino in età storica [35]: ne abbiamo esempio nelle pinakes votive della fine del V sec. a.C. in cui vengono rappresentate le Ninfe in forma di tre fanciulle, spesso all’interno della grotta-ninfeo, procedenti a passo di danza; o ancora le triadi di suonatrici di aulos, di cembali, di tamburelli ritrovate in Magna Grecia e, ovviamente, in Sicilia [36]. Ne troviamo traccia nei culti legati alle Fatae galliche, alle Rusalski russe, e, ovviamente, alle Donni di Fora siciliane.
E il coro dei satiri irsuti echeggiava con mistica voce.
Tutta la terra rideva, mugghiavano gli scogli,
le Naiadi mandavano grida, sul fiume dai flutti silenti
e le ninfe volteggiavano in un cerchio
e intonavano le note concordi di un siculo ritmo
come quello che le melodiose sirene spargevano
con bocca di miele
Nonno di Panopoli, Dionisiache
Dialoghi Mediterranei, n.14, luglio 2015
Note
[1] E. Manni, Indigeni e colonizzatori nella Sicilia preromana, cit. in Martorana 1985: 16 (nota 36).
[2] cfr. la teoria di Martorana sull’utilizzo politico del culto di Demetra e Kore, 1985.: 43.
[3] Jeanmaire 1972.
[4] Ninfa è ad esempio il termine che i poeti usavano per le Muse e le giovani spose quando per la prima volta si mostravano senza velo.
[5] cfr. Aspesi 2011:. 205 e passim.
[6] Aspesi 2011.
[7] Porfirio 2006.
[8] Le Naiadi sono le Ninfe dei fiumi, delle sorgenti e dei laghi; le Oreadi dei monti; le Driadi dei boschi e le Amadriadi degli alberi; le Oceanine (figlie di Oceano e Teti) dell’Oceano, appunto, e le Nereidi (figlie di Nereo e Doride) del mar Mediterraneo.
[9] Lo Zeus kretagenes è, diversamente da quello olimpico, uno dei cosiddetti dying and rising god, una divinità che muore e rinasce ogni anno, come il sole e la vegetazione.
[10] vv. 560-62 dell’Inno Omerico a Hermes.
[11] Che i Greci identificheranno in una Ninfa Oreade o in Artemide.
[12] Cioè necessaria per nominare un termine che è innominabile per tabù sacro.
[13] Il mito adombra, come in altri casi, un processo di morte e rinascita rituale.
[14] Era anche cibo iniziatico nei misteri Eleusini.
[15] Le Ninfe, nella genealogia orfica, sono figlie di Oceano, come i fiumi e le sorgenti. Partecipano dell’acqua primordiale, principio di ogni cosa e di ogni essere vivente, e sono adorate come divinità delle acque e delle fonti. Nel processo evolutivo le specie viventi nascono nell’acqua e poi “migrano” sulle terre asciutte. Lo stesso processo avviene nella formazione del feto, che sembra “ricapitolare”, durante le varie fasi della gravidanza, la storia della vita sulla terra, passando attraverso diversi stadi dai Celenterati, ai Pesci, ai Rettili e ai Mammiferi – formando e poi abbandonando anche branchie e coda – prima di arrivare all’essere umano. Si ha l’impressione, come dicono i biologi, che «l’ontogenesi riassuma la filogenesi» (cioè la storia individuale riassuma il filo dell’evoluzione della vita).
[16] Ciò spiega l’utilizzo delle acque di sorgente nei rituali di iniziazione delle donne che si preparano al matrimonio, e nei rituali di purificazione legati alla Parthenia. È per questo che le Ninfe sono patrone di sorgenti e fontane, dove le nimphe umane vengono a raccogliere l’acqua: i lessicografi testimoniano l’identità terminologica tra “sposa” e “fonte”.
[17] cfr. Albertocchi 2012. Nella Lisistrata di Aristofane le fanciulle sacrificano ad Artemide, furiosa per un’orsa che le è stata sottratta dagli ateniesi. Il termine utilizzato è ek-meilissomenai. (C. Isler-Kerényi 2002: 117-138).
[18] Il cui nome era Arkésion, caverna dell’Orsa. I greci indicavano il mammifero al femminile, quasi avesse un solo sesso. Animale materno per eccellenza ai loro occhi, ha un primo piano nei riti (le Brauronie ad esempio) e nei miti come nutrice: in orse si trasformeranno le ninfe nutrici di Zeus per sfuggire alla vendetta di Crono, per poi finire come costellazioni (vedi Caruso 1994: 26).
[19] Nel sostantivo si riconosce la radice del verbo greco lambano, “prendere”, “afferrare”.
[20] «Il grido è espressione di forza incontrollata, non ancora addomesticata nel canto e nel coro rituale, e si comprende soltanto alla luce del rapporto profondo che la ninfa intrattiene con la natura e con la morte. [...] Dioniso è dio inteso come essenza musicale e le sue donne, Menadi e Ninfe, usano la voce anche come percussione violenta, come pura fonìa rituale» ( Schirripa 2009: 80).
[21] Anche in India esiste un legame le api e il suono sacro: Bhramari Devi, la dea del nettare, prende il suo nome dal termine Hindi per “ape”. Si dice che Bhramari Devi emetta il suono ronzante delle api, chiamato “Bhramaran”, lo stesso che veniva riprodotto nei canti Vedici e che rappresentava il suono essenziale dell’universo, Anahata (“ininterrotto, incausato”).
[22] In origine la comunità era quella delle Melissai, mentre in epoca storica la comunità diventa la polis organizzata intorno al cittadino, al marito, al padre di famiglia: la Nymphagoghìa è la processione notturna che porta la promessa sposa dalla casa del padre alla casa del marito in un contesto ormai decisamente patriarcale.
[23] Il primo è simbolo di fecondità e viene impastato per i già citati mylloi siracusani e in una focaccia per gli sposi, ai quali si intrecciavano corone di mirto. La menta, chiamata sisymbrion, era considerata un afrodisiaco.
[24] cfr. Pestalozza 2001: 23 e passim.
[25] cfr. Lawler 1953-54.
[26] Era credenza radicata nel mondo antico che le api fossero sensibili al ritmo, e che fosse possibile radunare gli sciami dispersi al suono dei cembali: questo ci ricollega al clangore delle armi dei Cureti sul monte Ida, che doveva nascondere a Crono i vagiti del piccolo Zeus. I Cureti potrebbero intendersi come primitivi apicoltori che con il frastuono ritmico guidavano gli sciami (Caruso 1994).
[27] La decifrazione della lineare B ha portato ad abbandonare la tesi di un’etimologia di labyrinthos a partire dal termine lidio o cario labrys (bipenne), per legarlo al miceneo da-pu-ri-to.
[28] Il debir del tempio ebraico è l’adyton dei templi siro-palestinesi preisraelitici e dei templi greci e sicelioti.
[29] Nelle tavolette il miele non è mai negli elenchi di cibi quotidiani, ma in quelli relativi ai cibi e alle offerte per il culto.
[30] La dea cretese e greca della nascita, figlia di Hera, divina aiutante delle donne in travaglio. Nonostante non avesse un grande ruolo nella mitologia olimpica, era una divinità il cui culto era di grande importanza e un grande numero di santuari a lei dedicati erano distribuiti in tutta la Grecia. Il suo culto principale era presso la grotta dell’Amnisos, dove si diceva fosse nata.
[31] È interessante ricordare la connessione in greco tra omphalòs (ombelico) e omphé (parola divina, oracolo).
[32] Debora potrebbe essere un neologismo da tabbura, “quella del tabbur”.
[33] Il labirinto come spirale sembra una variazione tarda.
[34] Il miele viene assimilato al Soma vedico. Il termine melìglossos è il corrispondente di màdhujihva, “dalla lingua di miele”, epiteto di Agni e Soma nella letteratura indiana. Il collegamento tra il miele e la parola divina è presente anche in accadico e nelle culture del Mediterraneo orientale antico, e l’ape è presente anche nelle concezioni religiose hittite quale simbolo di fertilità e animale sacro alla dea.
[35] Quando subentreranno Hermes, o Apollo, o Pan a guidare le danze.
[36] cfr. Bellia 2013.
Riferimenti bibliografici
Albertocchi M. 2012, Eugenie ebbre? Considerazioni su alcune pratiche rituali del Thesmophorion di Bitalemi a Gela, in “Kernos”, 25: 57-74.
Andò V. 1996, Nymphe: la sposa e le Ninfe, in “Quaderni Urbinati di Cultura Classica”, vol. 52, n. 1: 47-79.
Aspesi F. 2011, Archeonimi del labirinto e della ninfa, L’Erma di Bretschneider, Roma.
Bellia A. 2013, Gli strumenti musicali nelle performances rituali: qualche esempio dalla Sicilia greca, in “Dyonisus ex machina”, IV: 428-442.
Calame C. 1977, Les choeurs de jeunes filles en Grèce archaique, Ateneo, Roma.
Caruso F. 1994, Zeus Kretaghenes e i ladri di miele, in “CronArch”, XXXIII: 9-39.
De Francesco S., Giacobello F., Lambrugo C. 2009, L’immagine delle Ninfe, in Giacobello-Schirripa (a cura), Ninfe nel mito e nella città dalla Grecia a Roma, Viennepierre ed., Milano: 31-52.
Giacobello F. e Schirripa P. (a cura di) 2009, Ninfe nel mito e nella città dalla Grecia a Roma, Viennepierre ed., Milano.
Giuman M. 2008, Melissa. Archeologia delle api e del miele nella Grecia antica, G. Bretschneider, Roma.
Isler-Kerényi C. 2002, Artemide e Dioniso: Korai e Parthenoi nella città delle immagini, in B. Gentili-F. Perusino, Le orse di Brauron, Eds, Pisa : 117-138.
Lambrugo C. 2009, Ninfe di Sicilia, in Ninfe nel mito e nella città da Grecia a Roma, Viennepierre ed., Milano: 133-154.
Jeanmaire H. 1972, Dioniso. Religione e cultura in Grecia, Einaudi, Torino.
Lawler L. B. 1953-54, The dances and the sacred Bees,in “Classical Weekly”, 47: 103-106.
Martorana G. 1985, Il riso di Demetra, Sellerio, Palermo.
Pestalozza U. 2001, I miti della donna-giardino, Medusa, Milano.
Porfirio, 2006, L’antro delle Ninfe, a cura di Laura Simonini, Adelphi, Milano.
Schirripa P. 2009, La Ninfa cattiva, in Ninfe nel mito e nella città dalla Grecia a Roma, Viennepierre ed., Milano:71- 98.
___________________________________________________________________________________________
Barbara Crescimanno, è fondatrice e coordinatrice del gruppo di ricerca antropologica ed etnocoreutica TrizziRiDonna su danze, canti e pratiche tradizionali siciliane legate al mondo femminile (nel quale opera come ricercatrice, cantante, percussionista, danzatrice, docente); co-fondatrice a Palermo della Scuola di Musica e Danza Popolare del Centro delle Arti e Culture Tavola Tonda, all’interno della quale conduce i corsi di Introduzione alle danze tradizionali europee e del sud Italia.
________________________________________________________________
Che articolo meraviglioso!!!
Complimenti vivissimi. I miei più sentiti ringraziamenti per l’inaspettato dono.
Grazie per l’apprezzamento!
Se può interessare, ho pubblicato un secondo articolo più specifico sulle Ninfe in Sicilia (dove vivo), argomento su cui studio e raccolgo materiale da diverso tempo per passione personale e su cui spero di poter lavorare e pubblicare, col tempo, in maniera più approfondita…
http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/ninfe-ed-acque-in-sicilia-una-relazione-sacra/
Affascinante, come del resto lo è la storia contornata di miti e leggende del periodo di riferimento.
Molto interessante e stimolante per il giusto approfondimento.
Mi è capitato casualmente, indagando sulle Ninfe ed in particolare su Galatea, essendo stata scelta come riferimento in temi legati al Mediterraneo nell’ambito di un campus scolastico dell’istituto comprensivo di Tropea (VV), dove ho l’occasione di insegnare in questo anno scolastico.
Forse il legame tra le Ninfe e le api mi darà qualche spunto per eventuale rappresentazione grafica da indicare ai ragazzi…non male…molti sono i significati…e i messaggi che ne verrebbero fuori…Cmq. complimenti Barbara…è evidente la grande passione verso argomenti e temi che ancora spingono alle riflessioni e fanno soprattutto sognare….