di Alberto Giovanni Biuso
Kubrick è il cinema
Plato is Philosophy and Philosophy is Plato. L’affermazione di Emerson potrebbe essere volta in questa forma: Kubrick is Cinema and Cinema is Kubrick. Le ragioni di tale equazione sono numerose e ben note:
-la perfezione tecnica spinta sino all’ossessione dei particolari;
-la potenza inusitata delle immagini;
-l’unitarietà del percorso che da Day of the Fight (1951) conduce a Eyes Wide Shut (1999);
-la continua innovazione nei temi e nelle modalità di espressione;
-un classicismo che supera ogni epoca.
Ma c’è una ragione meno evidente e tuttavia fondamentale che fa di Stanley Kubrick la rappresentazione e la metafora del cinema in quanto tale. Questa ragione è l’essere il cinema non soltanto immagine-movimento (Deleuze) ma anche pensiero-movimento. L’opera di Kubrick è filosofia in immagini. Rigorosa, aperta, inquieta e inquietante filosofia in immagini.
Kubrick filosofo
Kubrick fu un lettore vorace, onnivoro. Un lettore anche di filosofia ma, di più, una mente naturaliter philosophica. Radicato nella cultura europea – i nonni paterni provenivano dalla Mitteleuropa –, Kubrick assorbe, rielabora, esprime e ricrea temi e domande della tradizione metafisica. La sua opera è filosofia non verbale, iconica, sorretta da una logica lucida e da una consapevole antropologia. Un’opera filosofica anche perché si esprime nella potenza di uno sguardo fenomenologico che non giudica ma mostra; che esclude ogni psicologismo nell’analisi e comprensione delle azioni umane; che attinge alle strutture biologiche, storiche, archetipiche della nostra specie.
Il cinema di Kubrick è filosofico anche perché il senso dei suoi film è evidente e nello stesso tempo inaccessibile, come palese e inaccessibile è il significato dell’esistenza. Cinema che nasce da un’antropologia negativa che sostanzia la radice gnostica del suo pensiero.
Kubrick filosofo gnostico
Kubrick è filosofo gnostico sia per delle ragioni teoretiche profonde sia per la modalità nelle quali le esprime. Ragioni e modalità che pervadono tutti i suoi film e che in 2001: A Space Odissey (1968) diventano particolarmente evidenti. Al suo cinema si può applicare la formula che Lucrezia Fava ha utilizzato per indicare lo gnosticismo di un altro pensatore, Heidegger. Questa formula è «indisponibilità del fondamento», un fondamento che viene meno nel momento stesso in cui lo si attraversa [1].
È ciò che accade a David nel suo viaggio insieme materico e interiore verso l’infinito. Gnosi è infatti anche la possibilità di attraversare il buio, l’incomprensibile, l’enigma, esattamente come fa l’astronauta senza soccombere ma anzi diventando egli stesso luce e dalla luce rinascendo. Natura, metamorfosi e rinascita costituiscono alcuni dei molti elementi del pensiero gnostico, che ha le sue radici anche nella figura del filosofo e mistico iranico Zarathustra-Zoroastro, figura che in 2001 è emblematica e centrale.
Kubrick è filosofo gnostico perché nei suoi film non c’è una morale conclusiva, profonda o banale che sia; non si dà alcuna prospettiva consolatoria. Una prospettiva che nella gnosi si chiama anomismo e indica il rifiuto di norme, valori e principî che sono generati dal limite del mondo e non possono quindi costituire un oltrepassamento del suo male.
Le parole che David Edelstein scrisse all’indomani della morte del regista confermano più di tante altre l’irriducibilità di Kubrick a qualunque schema ideologico, etico, politico; mostrano l’incapacità di comprenderlo da parte di chi nutre valori assoluti e con essi giudica il mondo. Per questo vale la pena leggerle: «Non posso non disprezzare Kubrick per aver legato la Nona sinfonia di Beethoven, Singin’ in the Rain e alcune musiche tra le più gloriose di Händel e Purcell al sadomasochismo e alla disumanità dell’uomo sull’uomo» [2]. Parole che costituiscono un esempio tra i più chiari di moralismo applicato all’arte.
I temi gnostici che fondano e intridono 2001 sono in particolare due. Il primo è la chiusura in uno spaziotempo nel quale si è gettati. Il secondo è la tesi per la quale l’essere e il tempo appaiono come labirinti della mente. Un risultato di queste due tesi è che il centro del Tempo è immobile e coincide con il suo eterno ritornare. Un’eternità che colloca A Space Odissey al centro geometrico del pensiero e della filmografia di Kubrick.
In questo film emerge in modo assai chiaro la potenza della materia e della tecnica. Il cosmo vi appare infatti come una costante minaccia, che diventa mortale nell’avanzatissima intelligenza tecnologica di HAL 9000, che da strumento dell’umano si fa sua nemica.
Tema gnostico fondamentale è la storia come gettatezza, ripetizione e sconfitta. Il peregrinare di David nello spaziotempo è espressione dell’essere gettati nel mondo e nella vita, è espressione del nomadismo di una verità che riserva sempre nuovi luoghi, dimensioni e significati, per lo più minacciosi e incomprensibili. Il familiare diventa mostruoso, la Heimat – la dimora, la solida terra che ben si conosce – si trasforma nello unheimlich, nell’inquietante che non dà punti di riferimento e dentro la cui oscurità ci si può perdere per sempre.
Il film è pervaso anche dalla memoria incerta di ciò che una volta siamo stati e vorremmo tornare a essere. In 2001 ogni prevista linearità e ogni ordine acquisito vengono sconvolti e relativizzati dal Discovery, che è insieme: una centrifuga gravitazionale; un dispositivo interiore; una dissoluzione della simultaneità che nel suo infinito ruotare relativizza il progresso, la razionalità, l’identità stessa dell’umano dentro il cosmo.
Elemento centrale della gnosi è la presenza di un demiurgo incapace. Tale è HAL 9000: un arconte, un maldestro demiurgo che da un certo momento in poi crede di essere onnisciente e onnipotente, producendo immediatamente – con questa sua tracotanza – distruzione, inganno e morte.
Come è destino degli ilici e degli arconti, HAL non viene condannato a una qualche pena, viene semplicemente dissolto. Quando David a poco a poco lo spegne, HAL pronuncia infatti parole struggenti e fortemente gnostiche: «La mia mente si dissolve, lo sento». David appartiene invece alle nature pneumatiche e quindi il suo destino consiste non nella sola rinascita al modo delle religioni orientali o del semplice orfismo ma in una vera e propria μετάνοια gnostica, una trasformazione della sostanza corporea in luce. È ciò che accade all’astronauta durante il suo viaggio metamorfico e che risulta chiarissimo nell’immagine del feto astrale sulla quale il film si chiude. Immagine accompagnata dalle note del poema sinfonico da Strauss dedicato a Zarathustra, personaggio che è una delle fonti principali dello gnosticismo antico.
Kubrick è un filosofo gnostico perché riconosce l’indistruttibilità del male e del dolore dentro l’essere: HAL 9000, così come l’albergo della scintillanza di Shining (1980), è la sostanza del negativo dentro l’apparenza della razionalità, la potenza del controllo, la sicurezza dello sguardo geometrico sul mondo. L’itinerario verso lo svelamento dell’enigma comporta il rischio di precipitare verso la follia e le tenebre. Destino che sembra molto più di una possibilità per la gran parte degli esseri umani. Kubrick ritiene infatti che «non ci sarà nessuno a piangere una razza che usò il potere che avrebbe potuto mandare un segnale di luce verso le stelle per illuminare la sua pira di morte» [3].
Il male intesse di sé ogni fibra e ogni inquadratura del cinema di Kubrick. Aver coniugato al male la bellezza è uno dei maggiori risultati di questo artista, nel quale Gianni Rondolino riconosce «l’ineluttabilità del male. Un male a volte dichiarato ed esplicito, rappresentato nelle sue forme più evidenti e sconvolgenti, altre volte più discreto, quasi inavvertibile, ma sempre presente e condizionante» [4].
Il cinema come materialuce
Il cinema/filosofia di Kubrick è gnostico anche e soprattutto per una ragione che va oltre la potenza delle tenebre che ho sinora analizzato, è gnostico anche e soprattutto per come libera da tale oscurità. L’occhio della mente cinematografica e filosofica può infatti guardare la Gorgone e non morire: gli occhi chiusi su questo mondo di sogno si aprono col cinema ad altre visioni poiché, afferma Kubrick, «il vero scopo di un film è fare luce» [5]. Anche per questo 2001: Odissea nello spazio è il film-enigma, la chiave di volta, il capolavoro intorno al quale ruota la sconfinata ambizione estetica ed ermeneutica di Kubrick.
In esso l’ossessione e la morte si uniscono in due immagini successive e contigue, dopo aver riempito di sé l’intero film. La prima è l’immagine di David vecchissimo e morente dentro la stanza della ragione, dentro un luogo abitato da simboli settecenteschi, ordinati, simmetrici. È l’ultima testimonianza dell’Illuminismo che attraversa questo film e l’intera opera di Kubrick. Una dialettica dell’Illuminismo che si dispiega in particolare in Barry Lindon (1975). La seconda immagine è quella del feto cosmico, del bambino astrale che è fatto di luce e osserva la Terra tutta illuminata. Una vera e propria immagine dei cieli nuovi e della terra nuova delle tradizioni gnostiche e apocalittiche.
Nelle due immagini conclusive la differenza del percorso diventa l’identità dei suoi esiti. HAL è infatti l’espressione e il frutto più raffinato della ragione umana ma è anche il Ciclope dall’unico occhio che scruta ogni spazio/tempo e uccide dentro l’astronave/caverna. La duplicità costitutiva della tecnica e della cultura, della cultura come tecnica di sopravvivenza e di morte, germina da una antropologia illuministica proprio perché essa è un’antropologia sin dall’inizio troppo illuminata, come Horkheimer e Adorno hanno ben argomentato.
Monòlito
Il monòlito che attraversa 2001 è stato letto nei modi più diversi e anche questo è segno della natura filosofica del cinema di Kubrick. La pietra levigata e perfetta, «significante senza significati» [6], è il simbolo più denso e più chiaro dell’opera complessiva di Kubrick e del cinema in quanto sostanza nera e lucida sulla quale si formano le immagini-movimento. Il film avrebbe potuto aprirsi da dentro il monòlito, avrebbe potuto sgorgare – fiat lux! – dal nero di quella pietra sulla quale, di fatto, si chiude. Il nulla da cui si proviene, il niente verso il quale si va.
L’enigmatica attrazione esercitata dal monòlito nero di 2001 è la metafora più potente dello schermo nero che è il cinema. Schermo riempito da Kubrick di una intelligenza totale, gloriosa e dolente. Dare un’interpretazione univoca e definitiva del monòlito è dunque tanto difficile quanto vano.
È la φύσις?
È Dio?
È la razionalità?
È una sineddoche del cosmo?
È l’emblema dell’enigma stesso dell’esserci? quello racchiuso nella domanda metafisica di Leibniz: «Perché c’è qualcosa piuttosto che il nulla?»
Sì, il monòlito è tutto questo ed è sempre anche altro, è «die Möglichkeit der schlechthinnigen Daseinunmöglichkeit» [7], è la possibilità dell’assoluta impossibilità d’esserci, è la possibilità della impossibilità di ogni altra possibilità. La formula con la quale Heidegger definisce il morire vale anche per questa entità, alla quale non è certo un caso che David morente rivolga l’ultimo suo gesto prima di rinascere.
Il monòlito è Ἀνάγκη, è la necessità che attraversa la caduta, il divenire/χρόνος e il sempre/αἰών. Come il dio di Eraclito, il monòlito οὔτε λέγει οὔτε κρύπτει ἀλλὰ σημαίνει (detto 93), non parla né nasconde, bensì indica. Che cosa suggerisce (σημαίνει), il monòlito, che cosa indica? Indica il tempo, l’essere e la luce, che in 2001 sono la stessa cosa, costituiscono un’unica realtà, un solo senso.
Conclusioni
Un brano di Fava riferito allo gnosticismo in generale sembra costituire la sintesi più rigorosa anche dello gnosticismo di Kubrick:
«L’antica gnosi infatti, punto primo: riconosce che l’umano come ogni altra cosa che accade nel mondo è inevitabilmente determinato dai limiti intrinseci all’esser parte sostanziale del mondo, e dunque che l’esserci, la presenza che è il mondo, ha valenza fondativa nei confronti degli enti che vi appaiono, mutano e scompaiono; tuttavia contrappone all’esserci un fondamento più originario, eternamente immutabile e perfetto in ogni sua parte, privo cioè delle limitazioni ontologico-temporali che quello comporta. Al fondamento originario sarebbe consustanziale un’altra sostanza nascosta nell’umano, o meglio in alcuni uomini soltanto: la parte immortale, lucente, spirituale o in una parola divina, quella dalle qualità opposte alle qualità proprie di chi è umano (mortale, tenebroso, materiale). I miti gnostici cercano di spiegare l’esistenza del mondo in rapporto e in funzione alla realtà primordiale dalla quale sarebbe emerso e tenuto fuori come uno scarto, dando per certo quindi che sia questa realtà a segnare l’orizzonte di senso del cosmo manifesto e abitato, nonché il vero luogo d’appartenenza delle particelle divine sparse nella natura umana, perché questo cosmo non avrebbe dovuto esserci ed è una creazione del tutto priva di connotazioni positive»[8].
Dalle tenebre di HAL esplodono le luci del viaggio verso Giove e oltre l’infinito poiché nell’astronave il tempo si è dissolto, moltiplicato, piegato dalla più potente contrazione, quella di un’intelligenza visionaria.
Il cinema di Kubrick restituisce così ai pensieri tutta la loro forza di indagine, di disincanto, di penetrazione nel male e nell’uomo. Una fotografia scattata da Weegee (Arthur Fellig) ritrae il giovane regista «misteriosamente ammantato nella materia stessa del cinema: luce e ombra» [9]. L’ombra e la luce delle filosofie gnostiche.
Dialoghi Mediterranei, n. 53, gennaio 2022
Note
[1] L. Fava, L’indisponibilità del fondamento. Heidegger, il nulla e la gnosi, Tesi di laurea magistrale, Università di Catania, a.a. 2017-2018.
[2] T. Elsaesser, in Aa.Vv., Stanley Kubrick, a cura di H.P. Reichmann, Giunti Arte Mostre Musei, Firenze 2007: 181.
[3] In E. Ghezzi, Stanley Kubrick, Il Castoro Cinema, Roma 1995: 12.
[4] G. Rondolino, in Aa. Vv., Stanley Kubrick, Paravia, Torino 1998: 150.
[5] G. Seesslen, in Aa.Vv., Stanley Kubrick, Giunti Arte Mostre Musei, cit.: 278.
[6] E. Ghezzi, Stanley Kubrick, cit.: 22.
[7] M. Heidegger, Sein und Zeit (1927), in «Gesamtausgabe», a cura di F.-W. von Herrmann, Vittorio Klostermann, Frankfurt am Main 1988, Band 2, § 50: 333.
[8] L. Fava, L’indisponibilità del fondamento. Heidegger, il nulla e la gnosi, cit.: 34. Della stessa autrice si veda anche Un itinerario nel mito gnostico, in «Vita pensata» 18, febbraio 2019: 26-37.
[9] D. Kothenschulte, in Aa.Vv., Stanley Kubrick, Giunti Arte Mostre Musei, cit.:137.
_____________________________________________________________
Alberto Giovanni Biuso, professore ordinario di Filosofia teoretica nel Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania, dove insegna Filosofia teoretica, Filosofia delle menti artificiali e Epistemologia. È collaboratore, redattore e membro del Comitato scientifico di numerose riviste italiane ed europee. È direttore scientifico della rivista Vita pensata. Tema privilegiato della sua ricerca è il tempo, in particolare la relazione tra temporalità e metafisica. Si occupa inoltre della mente come dispositivo semantico; della vitalità delle filosofie e delle religioni pagane; delle strutture ontologiche e dei fondamenti politici di Internet; della questione animale come luogo di superamento del paradigma umanistico. I suoi due libri più recenti sono: Tempo e materia. Una metafisica (Olschki Editore), Animalia (Villaggio Maori Edizioni).
______________________________________________________________