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La ḫarǧa arabo-andalusa: emblema di una società multiculturale

L'Alhambra, complesso palaziale

L’Alhambra, complesso palaziale arabo-andaluso

di Claudio Maugeri

Si potrebbe, in forma preliminare, definire la ḫarǧa come l’emblema del sincretismo culturale della Spagna musulmana,  un riflesso letterario dell’incontro tra genti di provenienze, culture e religioni diverse: nel particolare, le tre grandi religioni monoteiste, che, secondo più fonti, vissero per un largo periodo di tempo una parentesi di convivenza pacifica in terra iberica, la terra che i Romani avevano chiamato Hispania e che i conquistatori musulmani arabo-berberi ribattezzarono al-Andalus. Secondo L. Alvarez (2004: 728-729):

«In an idealization not unworthy of those early Arab geographers, al-Andalus has become […] a symbol of multicultural harmony, an oasis of culture and refinement in a medieval Europe still mired in superstition and ignorance. Yet the question of cross-fertilization of cultures, of a convivencia of Muslims, Christians and Jews, is not merely a modernday fashion. It is indeed the central issue in the history of al-Andalus, for its political fortunes rose and fell in relationship to its ability to minimize ethnic factionalism and forge a spirit of common enterprise».

In questo contesto di fioritura culturale si sviluppò un genere letterario di grande interesse: il muwaššaḥ. Era essenzialmente una forma di poesia strofica sviluppatasi in al-Andalus alla fine del IX secolo, destinata, secondo le fonti, ad una recitazione musicata (Schoeler 1993: 809-811). Col tempo, il muwaššaḥ divenne famoso in tutto il mondo arabo e fu adottato anche da poeti di lingua ebraica (Alvarez 2004: 563). Intorno alla metà del XII secolo era già diffuso in Nord Africa e Medio Oriente e ancora oggi il genere rimane vivo nei rispettivi repertori musicali (Rosen 2000: 248).

I temi del muwaššaḥ, tipicamente, erano quelli già ricorrenti nella tradizione poetica araba: amori impossibili e disperati, separazioni sofferte, crudeltà dell’amante e così via. Generalmente il muwaššaḥ si componeva di cinque strofe, ognuna di esse era suddivisa in due parti: il ġuṣn, che riprendeva la rima della strofa, e il simṭ, o qufl, che ripeteva una rima comune a tutta la poesia. Ma la sezione del muwaššaḥ che più di tutte ha attratto l’interesse degli studiosi in materia dallo scorso secolo ad oggi è indubbiamente la strofa finale. La parte iniziale dell’ultimo ġuṣn, difatti, introduceva una particolare citazione poetica, ossia la interiezione di un altro personaggio della poesia, e prendeva il nome di ḫarǧa, letteralmente “uscita”. Questa poteva essere redatta in due lingue diverse: nel dialetto arabo parlato nella penisola iberica, l’arabo andaluso, o nel dialetto romanzo parlato dai cristiani, e non solo, durante la dominazione arabo-musulmana, il mozarabico. Secondo la descrizione della ḫarǧa di Tova Rosen (2000: 249):

«It reflects life in the court and on the streets; the sociocultural relations between various ethnic groups, and between the sexes; and even the tensions and rapprochements between secular and religious interests. Despite its status as an Arabic literary genre, it serves as a junction within a cultural space that encompassed non-Arabs as well [...] If the muwaššaḥ continues to fascinate us today, it is precisely because of the cultural hybridness that it embodies».

hispano-arabic-strophic-poetryIl dibattito sull’origine

L’opera dell’orientalista e linguista ungherese Samuel Miklos Stern è universalmente riconosciuta come la pubblicazione che più di ogni altra ha rappresentato una svolta nello studio del muwaššaḥ e della sua ḫarǧa. Infatti, nel 1948 Stern pubblicò sul numero 13 della rivista “al-Andalus”, una ventina di ḫarǧāt decifrate contenute in altrettante muwaššaḥāt ebraiche. L’importanza della sua scoperta risiedette nel fatto che questa decifrazione costituì la prima prova diretta dell’esistenza di un volgare latino parlato in al-Andalus durante la dominazione arabo-musulmana, ciò che il filologo spagnolo Menéndez Pidal, che già ne aveva ipotizzato l’esistenza, aveva definito lingua mozarabica (Ivi: 267).

Già l’anno seguente Stern pubblicò sulla stessa rivista un secondo articolo in cui annunciò la scoperta e la prima decifrazione di una ḫarǧa mozarabica trovata, questa volta, in un muwaššaḥ arabo (Alvarez 2004: 564). Si parla ancora di “decifrazione” poiché una delle peculiarità della lingua mozarabica fu l’alfabeto con il quale essa veniva generalmente scritta: l’alfabeto arabo.

In seguito alla scoperta di Stern nacquero numerosi studi sulla ḫarǧa, al fine di indagarne le caratteristiche salienti dal punto di vista letterario e i legami che avrebbe intessuto con la successiva produzione lirica iberica ed europea. Una delle questioni più dibattute dalla prima decifrazione di ḫarǧāt romanze in poi fu quella relativa alla loro origine e appartenenza letteraria. Fu lo stesso Stern ad affrontare il tema nell’opera Hispano-Arabic Strophic Poetry del 1974, dove introdusse una teoria sull’origine della ḫarǧa che definì come “Spanish theory” (1974: 56). Stern elaborò due ipotesi secondo le quali la ḫarǧa mozarabica sarebbe: a) creazione esclusiva del waššāh che imita i sentimenti e la lingua della donna o b) vere e proprie citazioni provenienti da forme di poesia popolare (Ivi: 58).

gomezLa seconda ipotesi permetterebbe di aprire nuovi scenari e possibili speculazioni riguardo l’effettiva provenienza di queste composizioni liriche. Una delle fonti che utilizzò Stern per la sua indagine fu lo storico arabo Ibn Bassām, secondo il quale lo scrittore ʿUbāda ibn Māʾ al-Samāʾ (allora ritenuto l’autore del più antico muwaššaḥ rinvenuto) avrebbe «preso espressioni dal dialetto (al-ʿāmmiyya) o dal mozarabico (al-ʿaǧamiyya)» (T.d.A.) e avrebbe costruito su di esse le muwaššaḥāt (Stern 1974: 58). La frase è ambigua per via del significato del verbo arabo aḫaḏa, “prendere”. Una prima interpretazione porterebbe a pensare che la ḫarǧa sarebbe frutto di forme fisse preesistenti che venivano, per così dire, ricopiate; tuttavia il verbo in questo contesto potrebbe avere anche il significato di “creare”. Inoltre, un ulteriore enigma verrebbe posto dalla supposta costruzione del muwaššaḥ sulla base della sua ḫarǧa, e tuttavia, secondo Stern, ci sarebbe un’assenza di prove che possano supportare una tale congettura.

L’anno seguente, García Gómez, nel prologo alla seconda edizione dell’opera Las Jarchas Romances de La Serie Árabe en Su Marco, affermò (1975: 28-29):

«Desde el primer momento creí personalmente advertir que las jarchas venían a ser la prueba patente de la existencia de “una poesía romanceada en al-Andalus”, tesis profética de Ribera, hasta ese momento ni por Ribera ni por nadie comprobada, porque no había argumentos a que agarrarse».

García Gómez, quindi, condivise la posizione di alcuni filologi, tra cui Julián Ribera, che avevano ipotizzato l’esistenza di una preesistente produzione lirica romanza in terra iberica, ma lo fece confermando l’iniziale assenza di prove certe denunciata da Stern. Tuttavia, lo studioso spagnolo proseguendo cita alcune fonti arabe già menzionate secondo le quali gli autori delle muwaššaḥāt versificavano le loro opere sulla base di ḫarǧāt romanze di cui erano già in possesso (Ivi: 30-31). García Gómez a questo punto riafferma con forza che la ḫarǧa preesisteva al muwaššaḥ nella sua composizione, sarebbe stata cioè la base su cui comporre il secondo, e che le testimonianze di Ibn Sanāʾ al-Mulk e di Ibn Bassām permettono di corroborare la posizione di Ribera (Ivi: 31-32):

«Con tales textos orientales y occidentales a la vista, no queda otro remedio, me parece, sino creer que, al menos en un principio, cuando la moaxaja nació y se estructuró técnicamente, la jarcha «preexistía» al poema, y que éste se construía sobre ella […]. No sé, repito, cómo pueden algunos negar tranquilamente todo esto. […] Si Ibn Bassām nos dice en su texto, y  Ibn Sanāʾ al-Mulk corrobora luego, que las jarchas más antiguas, anteriores a las moaxajas, puesto que éstas las tomaban como base, estaban con frecuencia en “romance”, y así se ha comprobado en unos 50 casos desde el año 1948, podemos deducir “la existencia de una literatura romanceada en Andalucía”, que es lo que profetizó Ribera».

Nel 1988 Alan Jones pubblica un’altra opera cardine nello studio della ḫarǧa, Romance Kharjas in Andalusian Arabic Muwaššaḥ Poetry, nella cui introduzione nega l’affidabilità di Ibn Sanāʾ al-Mulk e Ibn Bassām, affermando che i commenti del primo siano in realtà troppo spesso tersi ed enigmatici e quanto al secondo (Jones 1988: 12):

«It is clear from what we know of the eastern muwaššaḥ that Ibn Sanāʾ al-Mulk was attempting to lay down norms for the genre in Egypt according to his own perception of the Andalusian muwaššaḥ. He did this by analysing a fairly small number of Andalusian muwaššaḥāt, without any instruction of any sort; and, whilst his remarks are fairly accurate, they often contain surprising errors and are thus not of the standard that inspires real confidence».

Jones, dunque, conclude affermando di considerare i due autori arabi fonti troppo deboli per poter avanzare una solida teoria sulla preesistenza di materiale romanzo, come fatto da García Gómez, sottolineando come le ḫarǧāt e le muwaššaḥāt in cui si trovano si inseriscano perfettamente negli schemi della produzione letteraria araba (Ivi: 12-13):

«For a more balanced perspective, it is important to acknowledge the highly Arabic nature of the poetry in which the Romance ḫarǧāt are found. The Arabic muwaššaḥāt were written by Arab poets for Arab audiences, and they are an integral part of the Arabic culture of Muslim Spain. The unique features of the muwaššaḥ — its stanzaic form, metre and ḫarǧah — do not remove it far from the traditions of classical Arabic poetry. The themes of the muwaššaḥāt, for example, fall entirely within the range of the themes of classical Arabic poetry. [...] There is also a tradition, one of the chief proponents of which was the influential Abū Nuwās of finishing a poem with a quotation from another of one’s own poems. Consequently, even when a ‘Romance’ ḫarǧah has every appearance of being borrowed from an earlier poem, that does not necessarily take us back beyond another Arab poet. All these points should be taken into account if speculation about the origin and nature of the ḫarǧah is to have a reasonably plausible basis. Most of the theories about pre-existing Romance poetry sadly ignore them».

Dunque, Jones menziona tra le peculiarità del muwaššaḥ, oltre alla sua ḫarǧa, la sua costruzione strofica e la metrica. Esse non si conformavano ai dettami della poesia araba classica, il che rappresentava il nucleo della seconda speculazione di García Gómez in merito alla provenienza romanza del genere. Il dibattito degli studiosi sull’origine metrica del muwaššaḥ e della sua ḫarǧa porterà alla divisione tra la “teoria romanza” e la “teoria arabista”.

9780415571135_0_424_0_75Il dibattito sulla metrica

Il metro del muwaššaḥ non rispettava nessuno degli schemi metrici della poesia araba classica, così come la sua forma strofica si opponeva alla tradizione monorima precedente (Stoetzer 2004: 737). Questa sua caratteristica generò grandi dibattiti, poiché alcuni critici, García Gómez su tutti, elaborarono una teoria secondo la quale la spiegazione di questa particolarità metrica dovesse essere ricercata in un presunto calco di un metro romanzo preesistente (Alvarez 2004: 565). García Gómez utilizzò la singolarità metrica del muwaššaḥ a sostegno della sua tesi sulla provenienza romanza della ḫarǧa. In particolare, riprendendo l’ipotesi secondo cui il muwaššaḥ venisse interamente costruito su ḫarǧāt preesistenti, affermò (1975: 31-32):

«Si los textos nos dicen que la moaxaja se ajustaba en medida y rima a la jarcha, aquí tenemos la explicación de la “métrica” de la moaxaja. Y esta métrica, al menos en lo antiguo y original, previo a las reabsorciones posteriores, no hubiera podido ser clásica, puesto que en un principio la jarcha estaba en lengua coloquial o en lengua romance, siendo así que ni en una ni en otra lengua es posible la prosodia clásica [...] Como es evidente la similitud, en métrica y sentido, de las jarchas romances, o medio romances, descubiertas hasta ahora con las coplas y villancicos castellanos posteriores [...] no parece tampoco exagerado deducir que esta poesía funcionaba como “lírica de estilo tradicional”».

Secondo l’arabista spagnolo, la cui argomentazione verrà supportata da diversi altri autori sulla scia della teoria romanza, il muwaššaḥ veniva, almeno in principio, costruito su un metro basato su numero e accentuazione delle sillabe, dunque un metro romanzo, e non sul tradizionale metro quantitativo della poesia araba classica (Alvarez 2004: 565). Questo avrebbe costituito una prova inconfutabile non solo della costruzione delle muwaššaḥāt su ḫarǧāt preesistenti, ma anche della provenienza romanza di quest’ultime. Un successivo processo di arabizzazione del genere poetico avrebbe poi portato alla composizione di ḫarǧāt in dialetto arabo andaluso, oltre che ad un progressivo riavvicinamento del muwaššaḥ agli schemi metrici arabi come conseguenza di un riadattamento ai canoni classici (Rosen 2000: 270).

Nei decenni successivi arrivarono diverse critiche alla teoria di García Gómez, che costituirono quella che si definisce come “teoria arabista”. Jarir Abu Haidar, ad esempio, accusando gli studiosi a lui contemporanei, sostenne che le ipotesi sulle origini romanze della metrica della ḫarǧa fossero derivate da un’interpretazione sbagliata ​​delle dichiarazioni “ingannevoli” di Ibn Sanāʾ al-Mulk e Ibn Bassām riguardo l’utilizzo delle ḫarǧāt come base delle muwaššaḥāt (Ivi: 273).

Secondo Corriente, la metrica del muwaššaḥ sarebbe un’evoluzione del sistema prosodico arabo classico, adattato ai tratti fonetici peculiari dell’arabo parlato nella penisola iberica (Ivi: 274-275). Dunque, la ḫarǧa non sembrerebbe essere responsabile della peculiarità metrica del muwaššaḥ, tuttavia Corriente non accantonò l’ipotesi secondo la quale le ḫarǧāt precedessero le muwaššaḥāt nella loro composizione. Infatti, nel 2009 pubblicò sulla rivista “Romance Philology” un contributo dedicato alla ḫarǧa in cui sottolineò come la probabile preesistenza di questa rispetto al muwaššaḥ fosse un dato slegato da una sua possibile natura romanza e come la prova di ciò fosse riscontrabile nelle sue tematiche. Infatti, se è vero che non vi è alcuna differenza tematica tra ḫarǧāt mozarabiche e ḫarǧāt arabe, il che farebbe presagire una loro fonte comune, è altrettanto vero che, nel caso in cui si ipotizzasse che la fonte comune fosse romanza, parrebbe piuttosto strana la totale assenza di temi cristiani e riferimenti alla rispettiva religione (Corriente 2009: 118-119).

81ud7vlitel-_ac_uf10001000_ql80_Una possibile risoluzione

Qualche anno prima, nel 2003, la filologa italiana Laura Minervini aveva elaborato un’ipotesi che, allo stato attuale, sembrerebbe trovare conferma nella teoria di Corriente. Secondo la Minervini anche nel caso in cui le ḫarǧāt fossero traccia di una lirica romanza pre-islamica in territorio iberico, non costituirebbero comunque una sua trasposizione, poiché prodotte dai poeti arabi in funzione delle loro stesse muwaššaḥāt (Minervini 2003: 714). La studiosa sottolinea come le ḫarǧāt romanze presentino pochi elementi tematico-stilistici in grado di caratterizzarle e distinguerle da quelle arabe; sarebbero dunque appartenenti ad un’unica tradizione che, seppur riflettesse attraverso la stilizzazione poetica la sua propria realtà sociale, sarebbe stata comunque debitrice della sua matrice orientale (Ivi: 713). I compositori arabo-andalusi potrebbero anche aver occasionalmente utilizzato espressioni di una tradizione lirica locale estinta o prossima all’estinzione, il che sarebbe consono al cambio di registro che si instaura nel muwaššaḥ nel passaggio alla sua ḫarǧa, ma questo non costituirebbe alcuna prova di una derivazione romanza del genere. Si deve infatti tenere a mente come i poeti di al-Andalus guardassero all’Oriente letterario come fonte di ispirazione e al di là dell’innovazione metrica apportata, comunque derivante da una trasformazione ritmico-sintattica della metrica araba, mai si distanziarono dal loro linguaggio poetico tradizionale (Ivi: 710-712).

Ancora una volta, dunque, superata l’iniziale tentazione dell’eurocentrismo, la conclusione sembrerebbe essere quella di una simbiosi culturale, e ancora una volta tale simbiosi si rivelò feconda. La ḫarǧa, difatti, costituirà un’eredità letteraria che verrà raccolta da altre successive produzioni liriche.

9788843096107_0_536_0_75L’eredità castigliana

Prima nell’opera di Stern e poi in quelle degli altri studiosi che si dedicarono al tema, la prima produzione iberica nella cui genesi si ipotizzò la presenza della ḫarǧa fu quella gallego-portoghese. In effetti, la lirica castigliana fiorì solo dopo il declino di quest’ultima, ma da subito pare ricollegarsi ai temi e alla stessa natura popolaresca della ḫarǧa (Brugnolo e Capelli 2013: 345). Difatti, la trattazione del tema amoroso nella lirica castigliana pare lontana dagli stilemi cristallizzati della produzione trovadorica e dell’amor cortese. La voce è quasi sempre quella femminile, il che presenta di per sé una prima importante differenza, e si fa portatrice di un sentimento più semplice e diretto (Ibidem). In particolare, sono stati riscontrati chiari echi della ḫarǧa andalusa in un genere musicale castigliano tardomedievale: il villancico. Il ritornello di questi componimenti infatti, chiamato estribillo, presenta talvolta coincidenze, anche vistose, con alcune ḫarǧāt mozarabiche (Ivi: 346-348).

Queste coincidenze, già riscontrate da diversi studiosi, furono approfondite in uno studio del 2003 del linguista e storico americano Samuel Gordon Armistead, il quale evidenziò la presenza di alcuni topoi tipici della ḫarǧa nei componimenti castigliani (Armistead 2003: 5). Tra questi, cita la presenza della madre come confidente delle sofferenze amorose della figlia, così come il tema della separazione dei due amanti e altri motivi presentati con formule quasi identiche a quelle rintracciabili in alcune ḫarǧāt. Infine, l’autore statunitense conclude affermando che: «Kharjas and Villancicos can – and, I believe, must – be seen as but two stages in a single, multisecular, traditional continuum» (Ivi: 19). Ḫarǧāt e Villancicos sarebbero dunque espressioni di un’oralità che, conclusasi la Reconquista e con essa la storia di al-Andalus, continuò a riecheggiare nei componimenti del nascente Stato spagnolo.

Manoscritto contenente Cantìga de Amigo

Manoscritto contenente Cantìga de Amigo

L’eredità gallego-portoghese

A partire dalla fine del XII secolo si sviluppò nella penisola iberica un’importante produzione lirica in lingua gallego-portoghese, in particolar modo nei regni di Portogallo, Galizia, ma anche Castiglia. Diversi autori di lingua castigliana infatti, tra i quali il più noto è il re Alfonso X, adoperarono la lingua dei due regni vicini, che in breve tempo era assurta al ruolo di lingua di cultura iberica (Brugnolo e Capelli 2013: 363). In questa produzione si sviluppano diversi generi, in particolare tre distinte tipologie di cantigas: la cantiga de amor (la canzone d’amore), la cantiga de escarnho (la canzone di vituperio) e la cantiga de amigo (la canzone di donna) (Ibidem).

Se per le prime gli studi concordano nel rintracciarne una provenienza occitanica, il discorso si complica nel caso delle cantigas de amigo, le quali non troverebbero nessuna diretta corrispondenza nella produzione trovadorica. Questo genere è rappresentato da un corpus di liriche all’apparenza più semplici e dirette rispetto alle cantigas de amor; sono infatti espressioni di un amore più sincero e passionale, di probabile ascendenza popolare, un po’ come avverrà con i villancicos spagnoli. Ma il vero tratto saliente di queste composizioni è soprattutto la presenza di un io lirico sempre femminile (Ivi: 275), a differenza delle cantigas de amor, che erano invece generalmente cantate da una prospettiva maschile (Schaffer 1987: 2). Queste caratteristiche rappresentano delle consistenti analogie con le ḫarǧāt, motivo per il quale, a partire dalla prima decifrazione di Stern, si sono sviluppati diversi studi sulla presunta derivazione andalusa di questo genere della letteratura gallego-portoghese. Lo stesso Stern (1974: 59) analizzò le coincidenze tra le ḫarǧāt e le cantigas de amigo:

«In it, the lovelorn girl speaks of her beloved, almost always complaining of worries and separation; the usual confidants of her love are her girl-friends or her mother. The definition of the cantiga de amigo as quoted above fits perfectly well the majority of the kharjas».

Stern elaborerà poi un’importante teoria, che troverà d’accordo diversi studiosi, secondo la quale le ḫarǧāt, così come le cantigas de amigo e altre espressioni di “canzoni di donna” che è possibile ritrovare nell’Occidente europeo (ad esempio il frauenlied germanico), potrebbero derivare da un’unica grande radice poetica orale (Ivi: 209). Si tratterebbe cioè di una tradizione folklorica molto antica che non sempre approdò, o lo fece tardivamente, ad una documentazione scritta (Brugnolo e Capelli 2013: 277-278).

Uno studio più recente è quello della statunitense Martha Elizabeth Schaffer, che nel 1987 pubblicò un articolo incentrato sulla possibile relazione tra ḫarǧāt mozarabiche e cantigas de amigo. Partendo dalla considerazione che un’elevata coincidenza a livello estetico-tematico sia innegabile (Schaffer 1987: 1), la studiosa dimostra come questa somiglianza non sia solo influenzata dalla trattazione dello stesso tema, quello della sofferenza per amore (per altro tema antichissimo di molte produzioni), ma vi sia piuttosto una vera e propria sovrapposizione, talvolta con l’inserimento di elementi cristiani, in diverse formule fisse utilizzate sia nelle ḫarǧāt che nel genere gallego-portoghese. La statunitense poi, riprendendo la teoria del sostrato di oralità comune già menzionata da Stern, conclude che

«The evidence certainly suggest that, once analyses have been made which will accurately define these and other lyric traditions […], a clearer picture will emerge of the manner in which the threads of the underlying popular lyric tradition were woven» (Ivi: 20).

nyklL’eredità trovadorica

L’influenza più dibattuta è quella che il muwaššaḥ e la ḫarǧa avrebbero esercitato sulla produzione lirica trovadorica. La letteratura dei trovadori, come è noto, viene da sempre identificata come una delle colonne portanti di gran parte delle produzioni poetiche dell’Europa occidentale, avendo elaborato ed imposto una visione dell’amore e del suo trattamento letterario, il cosiddetto ‘amor cortese’, che rimase alla base degli sviluppi di molte altre letterature nazionali (Brugnolo e Capelli 2013: 207-208). Una così grande importanza costituisce al contempo una barriera per tutte quelle posizioni non-eurocentriche che ipotizzerebbero la presenza nella genesi di questa produzione di elementi non direttamente romanzi. Tuttavia, allo stato attuale, le origini della lirica trovadorica appaiono ancora incerte, a partire dalla stessa etimologia del nome, non essendovi nessun collegamento diretto con la poesia latina, ed è in questa incertezza che si innestano diverse ipotesi sorte in merito alla possibile relazione con la poesia araba volte a giustificare alcune possibili similarità nella concezione del sentimento amoroso.

L’arabista e ispanista ceco Alois Richard Nykl fu il primo studioso ad approfondire questo tema ed elaborare, attraverso numerose ricerche culminate nell’opera Hispano-Arabic Poetry and its Relations with the Old Provençal Troubadours del 1946 (di due anni precedente alla prima decifrazione di Stern), alcune teorie sul legame tra la poesia ispano-araba e l’amor cortese della letteratura occitanica. Secondo la tesi di Nykl, i primi trovadori, a differenza degli ultimi, non erano semplici ripetitori di un’arte di comporre pedantescamente appresa, ma artisti sempre alla ricerca di nuove combinazioni ritmiche e melodiche. La somiglianza delle loro forme poetiche con quelle della poesia strofica arabo-andalusa contemporanea sarebbe dunque spiegabile addirittura come imitazione o adattamento di essa. La lirica trovadorica non proverrebbe dunque da un’invenzione indipendente, piuttosto i primi trovadori furono abilissimi e creativi rielaboratori (Ivi: 379).

Negli anni successivi alla prima decifrazione di Stern, la teoria di Nykl e di quanti come lui si mostrarono partitari dell’influenza araba sulla letteratura europea medievale fu al centro di molti dibattiti. Tuttavia, gli studi e le speculazioni di Nykl non furono mai supportati da prove concrete e solide e la sua posizione, seppur condivisa da alcuni studiosi, venne spesso del tutto respinta da molti altri (Fees 2013: 17). Stern, ad esempio, si dichiarò scettico verso questa posizione, che giudicò estremistica, affermando come, sebbene diversi trovadori possano aver avuto contatti diretti o indiretti con al-Andalus, appaia difficile immaginare una loro così grande coscienza culturale araba tale da poter comprendere ed apprezzare la sua produzione poetica (Ivi: 217).

In altre parole, la positiva ricettività dei trovadori nei confronti della letteratura e cultura araba sarebbe tutta da dimostrare e, ad appoggiare questa posizione, sarà anche la Minervini, la quale affermerà che non è stato ancora possibile individuare con certezza alcun ambiente trovadorico in cui vi sia stato uno stimolo o una concreta iniziativa di divulgazione di tale letteratura (Minervini 2003: 716). L’ipotesi di Stern rimane infatti quella di uno sviluppo slegato, lo studioso afferma come «in history similarities do not always imply relationship» (1974: 216) e che, nel caso in cui vi sia effettivamente stata una forma di influenza, questa sarebbe piuttosto da ricercare in alcuni motivi orali, presenti nelle stesse ḫarǧāt, che avrebbero potuto raggiungere i trovadori (Ivi: 220).

Ad oggi, la posizione scettica di Stern pare la più accettata e nessuno studio ha fornito prove decisive verso un’effettiva relazione tra la ḫarǧa, e la poesia strofica di al-Andalus in generale, e la lirica trovadorica. Infatti, pur essendovi alcuni parallelismi tematici, ad un’analisi più approfondita l’estetica arabo-andalusa e quella trovadorica non paiono poi così sovrapponibili e non sono ancora emerse prove di contatti diretti tra i trovadori e il genere del muwaššaḥ (Fees 2013: 210-212). È bene inoltre ricordare come quest’ultimo, nel suo primo periodo, non godesse dell’apprezzamento di molti degli stessi scrittori arabi, i quali non erano soliti includerlo nel loro dīwān, cioè il canzoniere, essendo un genere dalla forma non-classica (oltre che dall’ultima strofa, la ḫarǧa, non redatta in fuṣḥā) e dunque giudicato meno meritevole (Alvarez 2004: 563).

front.tifConclusioni 

Si è dunque visto come la ḫarǧa, oltre ad essere una fonte importante per la conoscenza della realtà linguistica arabo-andalusa, costituisca altresì una testimonianza di un’antica tradizione di oralità, le cui radici affondano ad oggi nell’ignoto. Quanto scritto pare certamente in linea con la natura stessa di questa strofa, testimone dell’incontro tra lingue diverse in un fecondo contesto multiculturale, dove, si ricordi, fu presente e culturalmente attiva anche la componente ebraica. La sua influenza sulla lirica gallego-portoghese e castigliana conferma non solo come quella di al-Andalus sia stata una storia priva di frontiere linguistiche, ma anche come l’influenza dell’arte e della letteratura prodotte in seno a quel dominio superi la Reconquista e altri contenitori temporali.

In conclusione, la ḫarǧa può essere letta ancora oggi una fonte di conoscenza di un universo culturale, quello di al-Andalus, che il mondo europeo per diversi secoli provò a cancellare e che, attraverso la letteratura, rappresenta un’ulteriore testimonianza di un mondo fatto di incontri. 

Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024
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Claudio Maugeri, laureando del corso di laurea magistrale in “Scienze Linguistiche per l’Intercultura e la Formazione” dell’Università di Catania, con laurea triennale in “Lingue e Culture Europee Euroamericane ed Orientali”, si occupa di filologia e sociolinguistica e conduce attualmente degli studi sui contatti linguistici in contesto migratorio. Nel corso dell’ultimo anno ha ricoperto il ruolo di tutor universitario di letteratura spagnola e di lingua araba per gli studenti del corso di laurea triennale in “Mediazione linguistica e Interculturale” della SDS di Ragusa.

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