di Giulia Panfili
Il film La Bocca dell’Anima è esordio al lungometraggio di finzione del regista palermitano Giuseppe Carleo, già noto per il cortometraggio Parru pi tia (2018), vincitore della terza edizione del concorso i love gai – giovani autori italiani, in cui una “fattura d’amore” è messa in scena nella periferia di Palermo. Con il nuovo film, uscito nelle sale italiane il 26 settembre, riprende il tema della magia popolare in un racconto drammatico realistico, ambientato nel dopoguerra dell’entroterra siciliano, montano e nevoso. Prodotto da Favorita Film, casa di produzione cinematografica indipendente nata a Palermo, in associazione con El Deseo e con il contributo del Ministero della Cultura e della Sicilia Film Commission, per essere riconosciuto come opera di interesse culturale nazionale, ha un cast siciliano di eccellenza, volti noti al teatro e volti nuovi al grande schermo. Vede inoltre il coinvolgimento di maestranze locali ed ex allievi del Centro Sperimentale di Cinematografia dove Giuseppe Carleo ha studiato recitazione e regia del documentario.
Il lavoro di costruzione della sceneggiatura del regista insieme al co-sceneggiatore Carlo Cannella poggia sui testi fondamentali dell’antropologa Elsa Guggino, La magia in Sicilia (1978) e Il corpo è fatto di sillabe. Figure di maghi in Sicilia (1993), con cui hanno dialogato durante il percorso, e su un’indagine diretta con gli operatori magici attivi in Sicilia. Qui ho volutamente omesso gli aggettivi “tradizionali” e “ultimi” o l’avverbio “ancora”, perché come sottolinea Vittorio Lanternari nella prefazione al libro del 1978
«da un lato assistiamo al perpetuarsi nella cultura popolare di un mondo magico mai estinto nei secoli, insieme con la miseria e la frustrazione: dall’altro nei ceti medio e alto-borghesi assistiamo al rigurgito di magie ufficialmente abbandonate e condannate o sopite, e oggi rivivificate nell’onda irrazionalista d’un mondo che sperimenta su di sé le contraddizioni, l’ambiguità e la precarietà di un benessere soltanto esteriore, già toccato e attuale. Nell’insieme, la magia oggi più di prima è d’attualità, sia come manifestazione culturale particolarmente rilevante, sia come problema oggetto di analisi e di ricerca nell’ambito delle scienze umane nuove. Del resto il rapporto d’inter-penetrazione fra cultura popolare e cultura ufficiale è così stringente e coerente, che ardua se non artificiosa può apparire un’astratta distinzione fra la magia popolare ed una magia borghese: benché la chiave decodificatrice e interpretativa, nei due casi, dovrà necessariamente diversificarsi. Infatti la magia d’ambito popolare riflette le tensioni che gravano su genti alle prese con antichi problemi di sussistenza e d’identità, rispetto ad un mondo e ad una natura vissuti come entità fondamentalmente ostili» (ivi: 12)
La magia in Sicilia studiata da Elsa Guggino così come la storia di La bocca dell’anima ora proiettata sugli schermi «esprime la cultura d’una società alle prese con i grandi problemi di sussistenza e d’identità, impotente a risolverli, e che trova in essa un sistema di difesa su un piano cognitivo tanto quanto su un piano rappresentativo e operativ»”. Il linguaggio magico rimanda alla quotidianità, non al fatto eccezionale. Il mago è dietro la porta di casa, il malocchio, la fattura, fittamente si intrecciano alla rete dei rapporti sociali, l’aria è satura di esseri, entrano nel corpo umano, compaiono sotto forma di animali, animano e piante.
Il mago Velasques-Marchese come figura protagonista del film si rifa ad una storia vera, quella del mago Martinez-Mirabile così come registrata e trascritta da Elsa Guggino (vedi La magia in Sicilia: 54-70, in Il corpo è fatto di sillabe con aggiunte e modifiche sulla base di alcune precisazioni richieste al mago). Elsa Guggino riprende la prospettiva e il problema demartiniano della “realtà” dei poteri magici, trovando risoluzione nella sua “adeguatezza” come codice di lettura della realtà in rapporto al suo funzionamento nella prassi. In altre parole, «quando il potere del mago si dimostra adeguato a dominare il negativo della realtà e dunque ad assicurare l’esserci nel mondo degli individui all’interno delle norme comunitarie, esso è reale» (La magia in Sicilia: 18).
Questa mi sembra essere anche la chiave di lettura e la posizione del film che con viva immediatezza immette lo spettatore dentro un mondo magico reale e tangibile, vissuto dal di dentro. Fin dall’inizio quando il protagonista Giovanni Velasques, interpretato dall’attore italo-iraniano Maziar Firouzi, ritorna pallido, sporco ed emaciato nel suo paese natale, una piccola comunità arroccata sulle aspre montagne dell’entroterra siciliano, sentiamo il dolore e il peso dell’esistenza. Trascinato a casa dalle braccia della futura moglie (Marilù Pipitone), il giovane corpo reduce della Seconda guerra mondiale e di una lunga prigionia ha incistato una sofferenza tale da provocargli crisi violente. Questo malessere psicofisico induce il corpo a piegarsi su se stesso all’altezza dello stomaco ed altera la voce, fino a farlo parlare una lingua straniera, l’italiano.
Al centro della riflessione e del corpo è ‘a vucca ‘i l’arma, come suggerisce il titolo del film, ossia il plesso solare, una zona fortemente affetta dai movimenti della vita. In ambito magico è ricettacolo degli esseri che attraversano il mago e anche punto del corpo in cui si annida il male: soglia di guardia e punto di convergenza tra basso e alto, tra dentro e fuori, tra corpo e anima, nonché tra individuo e corpo sociale. Dal punto di vista fisiologico, il plesso solare o plesso celiaco è formato da un complesso di fibre nervose e gangli del sistema nervoso simpatico tra ombelico e stomaco, sotto il diaframma. Le sue terminazioni nervose s’irradiano verso gli organi addominali, quali stomaco, intestino, fegato, reni, surreni. Qui si trovano tantissimi ricettori nervosi che avvertono ogni cambiamento d’umore ed è frequentemente soggetto a blocchi, tensioni e disturbi, per questo si dice pugno allo stomaco o avere lo stomaco chiuso ad indicare una situazione di agitazione e malessere emotivo.
Ad alleviare Giovanni da questo patimento è una vecchia maga, la maara Za’ Mariannina (Serena Barone), che dichiara avergli inviato un essere: l’anima dell’amico Eric Marchese morto in guerra ora alberga e si manifesta in lui. Rivelandogli di possedere il “dono” ovvero la presenza di un essere con il quale potrà aiutare gli altri, Giovanni Velasques viene così iniziato all’arte della magia. In questo modo il suo amico intimo continua a vivere, tanto che ne assume il nome o cognome di comando Marchese quando esercita come mago, e la sua presenza lo induce ad accettare e superare le situazioni negative sofferte da sé e dagli altri.
Nel film si delinea il percorso attraverso cui Velasques diventa maaru: crisi, manifestazione, iniziazione o mediazione magica, rivelazione e riconoscimento pubblico sono delle costanti. Il processo attraverso cui la natura ambigua e potenzialmente pericolosa dell’essere, dopo una lunga crisi individuale, giunge a manifestarsi e a rivelarsi con la sua identità particolare e viene indirizzata in senso univocamente positivo e favorevole, è però lungo e drammatico. L’intero iter di formazione del ruolo di mago accompagna e segna il corso della sua vita: dalla età militare all’età matura, al matrimonio, alla paternità.
Il riconoscimento da parte della comunità è una fase fondamentale, si è maghi non per sé, ma nella convinzione pubblica. Fin dal primo manifestarsi della crisi, i compaesani hanno esercitato su Giovanni un rigido controllo e al mago non resta che assomigliare al ritratto attribuitogli. Prima che abbia ottenuto il totale padroneggiamento di Marchese, Giovanni infatti comincia ad esercitare come mago, non certo per essersi arrogato il ruolo di mago, piuttosto è la comunità a riconoscerne il dono e cioè il potenziale magico ancorché ancora ambiguo. I due momenti, quello della decisione individuale e quello dell’assenso della comunità, sono interagenti. Velasques-Marchese conquista autorevolezza perché è preso sul serio ed è preso sul serio perché si ha bisogno di lui: trasferendo la malattia sul piano magico, questa può essere sconfitta da un rimedio magico garantito da ciò che si è già sperimentato nel vivere quotidiano della magia.
Allo stesso tempo chi ha un dono è diverso, e questa diversità è avvertita come pericolosa, perché i comportamenti di colui che è dotato escono fuori dalla norma. Velasques è uno che viene da lontano, prima la guerra e poi la prigionia, è “diverso” e presto entrerà in conflitto con parte della comunità, con la cultura ufficiale e il potere, ossia la Chiesa nella persona del prete Don Minicu e la mafia. Il dono manifesta la sua ambivalenza di sfuggire al controllo di chi lo possiede e di fornire protezione così come esposizione al rischio quando il ruolo non è ancora chiaramente definito. Il mago a sua volta rimane una persona temibile poiché usa strumenti che inferiscono materialmente sulle cose e per questo alla fine è soggetto di un giudizio etico negativo, quando se ne parla soprattutto in pubblico.
Con il matrimonio e la tormentata conquista della paternità Giovanni si rifugia nella natura aspra e selvaggia dei monti, finché moglie con neonato tramite nuovamente l’espediente magico della fattura d’amore riesce a legarlo a sé e al ruolo di padre. Date le necessità di sussistenza della vita e le pressioni di una comunità cattolica e grottesca, si convince quindi a divenire contadino. Eppure l’amico perduto in guerra continua a farsi strada per esprimersi e venire evocato da parte del protagonista.
La magia è il mondo delle necessità volontarie, dove niente accade a caso, ossia l’agente è sempre l’essere umano che risponde a bisogni primari e materiali. Ecco che allora la sterilità di una donna è dovuta da una “fattura” voluta dall’invidiosa cognata e si concretizza in modo mitico-simbolico con i trizzi di donna ossia dei capelli attorcigliati su cui è stato compiuto il maleficio. La legatura dello sposo ossia l’impedimento a procreare è anch’essa imputata ad un vecchio pretendente della sposa. E ancora la fattura d’amore con cui si conquista un uomo vede la preparazione di un miscuglio di sangue mestruale con altri ingredienti da far mangiare all’uomo da affatturare, insieme al rituale intrecciare di tre nastri di colore bianco, rosso e verde.
Insomma le operazioni magiche utilizzano mezzi materiali, corpi o oggetti in cui viene trasferita e fissata la virtù, e intervengono attraverso la potenza esercitata da orazioni ben precise recitate in una ben precisa sequenza. La scelta di far parlare i personaggi in dialetto con le inflessioni specifiche restituisce con immediatezza quasi aggressiva la carica semantica dei significati espressi dai significanti dialettali. Musiche e canti diegetici come la “musica da barberia”, i lamenti e i canti polifonici, integrano questo effetto di toccar con mano. Così come la fotografia dal canto suo sottolinea splendidamente la matericità della magia.
Il risultato complessivo è quello di affatturare lo spettatore e trascinarlo dentro quel mondo che vive e interpreta la vita secondo magia. Questa articolata, viva e toccante opera di incantesimo e persuasione del mondo magico sembra esitare quando a volte forzosamente sono suggeriti degli slanci che forse vorrebbero portare lo spettatore verso l’anima. Che sia in cielo quando la maara Za’ Mariannina spira e rende l’anima, che sia nel rapporto con la natura quando l’albero sanguina nel momento in cui Giovanni è in profonda crisi con se stesso e appare l’essere Marchese, o che sia nel finale nel fondo del mare quando il mago può riallacciare la sua intimità con la forza-entità dell’amico, l’effetto che si ha è certamente di straniamento, eppure in questi brevi cruciali momenti sembra vacillare il piano concreto del mondo magico.
Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024
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Giulia Panfili vive attualmente a Roma. Ha studiato antropologia visiva a Lisbona e ha concluso il dottorato in antropologia, politiche e immagini della cultura, museologia con una tesi di ricerca etnografica in Indonesia sul wayang come patrimonio immateriale dell’umanità. Ha partecipato a convegni di antropologia e arte in Portogallo, Brasile, Inghilterra, Indonesia, e a mostre collettive di fotografia, illustrazione e stampa grafica presso gallerie e festival in Italia, Spagna, Portogallo, Indonesia. Tornando in Italia ha frequentato la Scuola Romana del Fumetto, dedicandosi quindi a disegno e illustrazione, con cui ha elaborato parte della tesi di dottorato. Ha approfondito in seguito tecniche e linguaggi della fotografia e del documentario audiovisivo con corsi formativi e progetti vincitori di bandi di concorso.
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