di Marcello Vigli
I rapporti fra lo Stato italiano e la Santa Sede nelle ultime settimane si sono arricchiti di una inedita modalità. Il ministro Marco Minniti e lo stesso Presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni. si sono incontrati: il primo, con la Segreteria di Stato, e il secondo, con lo stesso pontefice. Al centro dei colloqui la questione dell’emigrazione e la svolta impressa dallo stesso Ministro dell’Interno alla politica italiana con le norme, imposte alle Ong che intendono operare d’intesa con le nostre autorità nel trasporto di immigrati nei porti italiani. Il provvedimento, inserito in un complesso di iniziative del Governo per regolare il flusso dei migranti, ha suscitato vivaci dibattiti, aspre polemiche e un duro scontro fra due ministri, lo stesso Minniti e Domenico Del Rio, decisamente contrario alla nuova normativa. A sanarlo si è reso necessario il richiamo del Presidente della Repubblica all’obbligo di attenersi alle decisioni governative. I successivi incontri, in Vaticano e nella sede della Cei, le hanno rafforzate perché hanno ispirato il pronunciamento del cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, che ha richiamato con lo stesso vigore: sia la necessità dell’accoglienza, sia quella di un’etica della responsabilità e del rispetto della legge, denunciando, però, gli scafisti e chi organizza gli aiuti umanitari: «Per difendere i deboli nessuno può spalleggiare tali criminali».
Lo stesso papa Francesco aveva in precedenza legittimato questa scelta promuovendo la linea della prudenza, sia, il novembre scorso durante il volo di rientro dalla Svezia, sia, durante la sua visita al Quirinale. «Grazie signor Presidente, per quello che state facendo, per la generosità dell’Italia nei confronti dei profughi e degli immigrati – aveva detto il papa riconoscendo altresì – per quanto riguarda il vasto e complesso fenomeno migratorio è chiaro che poche Nazioni non possono farsene carico interamente, assicurando un’ordinata integrazione dei nuovi arrivati nel proprio tessuto sociale». Mattarella aveva colto l’occasione per rilanciare una legittima istanza del governo italiano rispondendo: «È un nostro dovere Santità. Speriamo che anche la comunità internazionale e l’Unione Europea se ne facciano sempre più carico».
Non è certo facile prevedere l’esito di questa legittimazione, inserita, come si è detto, in un disegno più ampio volto a ridurre il flusso degli immigrati con il pattugliamento avanti alle soste libiche di una nave da guerra concordato con il governo di Tripoli, e contrastato, invece, da quello di Bengasi. A rendere più difficile ogni previsione si è aggiunto il comportamento minaccioso della Guardia costiera libica che non considera legittima la presenza di navi straniere nelle acque territoriali, di cui, per di più, ha arbitrariamente ampliato il confine, finora disponibili al salvataggio dei profughi imbarcati sui gommoni degli scafisti.
Resta aperto il problema della sistemazione, della convivenza e, a lungo andare, della loro integrazione, sul quale solo l’intervento esplicito del cardinale Bassetti ha impedito che emergesse una grave divergenza in campo governativo. Questa, però, potrebbe riapparire subito dopo l’estate e prorompere nella prossima primavera vivacizzando la campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento, proprio per le diverse opinioni esistenti in proposito fra i cattolici. In tal modo, tuttavia, lo stesso Bassetti ha compiuto un gesto che segna il ritorno della Chiesa italiana ad occuparsi della “cosa pubblica” riscoprendo l’importanza della politica, anche se in forme ancora da definire. Forte è, la preoccupazione che le prossime elezioni rendano possibile un futuro governo “sovranista” a trazione leghista o 5 Stelle. Meglio quindi disinnescare sin da ora possibili reazioni populiste e razziste che potrebbero derivare da un eccesso di immigrazione. Meglio la linea dura oggi che trovarsi domani a Palazzo Chigi Grillo o Salvini, o peggio ancora, tutti e due insieme.
Insomma, nella Cei si è riscoperta la realpolitik, ma, al tempo stesso, in Vaticano si vuole impedire che, come in altri tempi, ci sia qualcuno che pretenda di rappresentare tutti i cattolici: è l’orientamento dello stesso papa Bergoglio. Ad un giovane che gli chiedeva se un cattolico può fare politica, può immischiarsi in politica ha risposto:
«Deve! Il beato Paolo VI, se non sbaglio, ha detto che la politica è una delle forme più alte della carità, perché cerca il bene comune. Sui laici cattolici: Nella Chiesa ci sono tanti cattolici che hanno fatto una politica non sporca, buona; che hanno anche favorito la pace tra le Nazioni. Pensate ai cattolici qui, in Italia, del dopoguerra: pensate a De Gasperi. Pensate alla Francia: Schumann, che ha la causa di beatificazione. Si può diventare santo facendo politica. …Non si può guardare dal balcone! Immischiati lì! Dà il meglio di te. Se il Signore ti chiama a quella vocazione, va’ lì, fai politica. Ti farà soffrire, forse ti farà peccare, ma il Signore è con te. Chiedi perdono e vai avanti».
Questa riabilitazione della politica, che costituisce uno degli elementi essenziali del magistero di papa Bergoglio, se rappresenta un perentorio invito valido per il singolo cristiano non deve, però, essere inteso come la sollecitazione a costituire un partito cattolico: «La Chiesa è la comunità dei cristiani che adora il Padre, va sulla strada del Figlio e riceve il dono dello Spirito Santo. Non è un partito politico. “No, non diciamo partito, ma… un partito solo dei cattolici”. Non serve, e non avrà capacità di coinvolgere, perché farà quello per cui non è stato chiamato».
Testimone di questo rapporto fra fede e politica è stato, per tutta la sua vita, Giovanni Franzoni morto il 13 luglio scorso. Da benedettino abate dell’abbazia di San Paolo a Roma prima, da prete sospeso poi e, infine, da comune fedele ridotto allo stato laicale non è mai venuto meno a questa distinzione nel suo operare come cristiano e come cittadino: un cristiano impegnato a edificare una Chiesa comunità di uguali con diversa responsabilità, un cittadino rispettoso della laicità delle Istituzioni.
Fu padre conciliare, il più giovane fra le fila degli italiani, nelle due ultime riunioni del Vaticano II. Per il suo impegno nel promuovere in Abbazia una comunità di laici, donne e uomini, impegnati con lui a realizzare la Chiesa del Concilio, fu dimesso per volontà di Paolo VI subito dopo che, nelle sue omelie domenicali, destinate ai parroc- chiani disponibili a coinvolgersi responsa- bilmente, aveva aggiunto alle sue sistematiche critiche sui mali della società anche analisi e giudizi sullr istituzioni ecclesiastiche, confluiti in quella che fu la sua unica Lettera Pastorale: La Terra è di Dio. In essa denunciava la speculazione fondiaria diffusa con la complicità della Dc e dei suoi sostenitori cattolici; anche per questa aveva chiesto e ottenuto l’aiuto di esperti di diverso orientamento. Fu il suo ultimo atto ufficiale con cui offrì ai suoi interlocutori un’idea di Chiesa non autoreferenziale a servizio di una società fondata sulla solidarietà.
La sua offerta fu rifiutata dalla gerarchia che, dopo averlo indotto alle dimissioni da abate, lo ridusse allo stato laicale favorendo la sua scelta di ritrovarsi fra eguali nella costruzione di quella Comunità di base che si unì ad altre, ugualmente autoconvocate, per proporre un modo diverso di essere Chiesa adeguata ai nuovi tempi fedele all’impegno di evangelizzare costruendo il Regno, rifuggendo, cioè, dalla tentazione di usarne l’annuncio per acquisire consenso e potere. Fu fedele a questo impegno per tutta la sua vita integrandolo con quello di intellettuale nella produzione di libri e saggi su temi teologici, etici, sociali e politici, che costituiscono un patrimonio per chi intende avanzare proposte, non per acquisire autorità, ma per promuovere umanità.
Anche nell’esercizio della cittadinanza politica il suo impegno è stato esemplare per la coerenza con cui ha vissuto la distinzione fra politica e religione nella dimensione della laicità, riconoscendo il diritto-dovere dello Stato di scegliere in piena autonomia una normativa per la famiglia rispettosa delle idee e dei valori condivisi dalla maggioranza dei cittadini, anche se non accettati dalla morale cattolica. Non ha mancato, perciò, di far sentire il suo impegno per la difesa delle leggi sul divorzio e sull’aborto, così come mai ha sconfessato la sua adesione alla politica del Partito comunista, con cui fu giustificata la dimissione dallo stato clericale.
Fu costante e responsabile la sua partecipazione attiva ai movimenti di trasformazione del mondo reale. Giovanni Franzoni a questi movimenti ha avuto il merito non solo di prendere parte, ma anche di promuoverli egli stesso e in qualche modo di “guidarli”. Le virgolette sono obbligatorie, perché Franzoni il leader non lo ha mai voluto fare. Come Enzo Mazzi ed altri preti e laici che hanno partecipato alla costituzione del movimento delle Comunità di Base, si è sistematicamente coinvolto nella ricerca di iniziative comuni, di documenti unitari e di scelte condivise, senza pretendere particolari ruoli e riconoscimenti, pur senza rinunciare all’originalità delle proprie idee e del proprio vissuto.
Non è certo se fra qualche decennio un papa andrà a inginocchiarsi sulla sua tomba, come Francesco ha fatto su quelle di Mazzolari e di Milani. È certo però che, chi vorrà scrivere con onestà la storia della Chiesa italiana degli ultimi decenni, non potrà prescindere dalla testimonianza, dalla ricerca teologica, dai comportamenti e dagli insegnamenti, affidati a numerosi volumi, di Giovanni Franzoni. Chi, invece, vorrà solo continuare la sua opera dovrà essere, come lui, cristiano/a, fedele all’impegno di evangelizzare costruendo il Regno, rifuggendo, cioè, alla tentazione di usarne l’annuncio per acquisire consenso e potere.
Franzoni il potere ha saputo lasciarlo immergendosi in quella parte di umanità che, rifuggendo, da ipocriti irenismi, affronta quotidianamente la lotta per impedire che i poveri siano sfruttati, i deboli oppressi e le minoranze emarginate. È questa la giustizia, fondamento della carità, che Franzoni ha esercitato segnando un confine insuperabile con chi, fra i cristiani, la considera strumento di promozione ecclesiale: la Chiesa si costruisce per promuovere umanità non per acquisire autorità tanto meno privilegi.«Senza Giovanni Franzoni la Chiesa e la società italiane non sarebbero le stesse», ha scritto di lui Valerio Gigante su Adista.
Anche la Chiesa dell’America latina non sarebbe la stessa senza monsignor Oscar Romero, ucciso sull’altare e che papa Francesco si appresta a canonizzare nella sua prossima visita in quel continente. Tutto ciò in coincidenza con l’avvio del processo per pedofilia in Australia contro il cardinale George Pell che lui stesso aveva chiamato a Roma per risanare le finanze vaticane, e con la mancata conferma alla guida della Congregazione per la dottrina della fede, dicastero tra i più importanti della Curia romana di Gerhard L. Müller perché non in linea con il suo orientamento contro la pedofilia, da lui stesso recentemente confermato nella prefazione del libro di Daniel Pittet: «Si tratta di un’assoluta mostruosità, un peccato terribile, che contraddice tutto quello che la Chiesa insegna». Non è facile riconoscere membri della stessa Chiesa Franzoni e Romero, Pell, e Muller, Bassetti e Bergoglio!
Dialoghi Mediterranei, n.27, settembre 2017
________________________________________________________________
Marcello Vigli, partigiano nella guerra di Resistenza, già dirigente dell’Azione Cattolica, fondatore e animatore delle Comunità cristiane di base, è autore di diversi saggi sulla laicità delle istituzioni e i rapporti tra Stato e Chiesa nonché sulla scuola pubblica e l’insegnamento della religione. La sua ultima opera s’intitola: Coltivare speranza. Una Chiesa altra per un altro mondo possibile (2009).
________________________________________________________________