In che modo può definirsi al giorno d’oggi l’amicizia, un sentimento o valore che a prima intesa sembra sottrarsi a qualsiasi criterio di formalizzazione? E quali motivazioni stanno alla base dell’insorgere di un legame non sempre dettato dall’affinità dei caratteri, ma spesso, al contrario, da una loro diversità complementare? In quale rapporto sta l’amicizia con l’amore, con le passioni, e quindi anche con l’odio, l’inimicizia, la vendetta? È possibile e in che misura, un’amicizia autentica, disinteressata? Un’amicizia è per sempre o ha un carattere transitorio?
Su queste problematiche si sono a lungo interrogati i grandi pensatori del mondo antico, a partire dai dialoghi e dalle dissertazioni epistolari di Socrate e Platone e soprattutto di Aristotele che è stato fra i primi, come è noto, a dare una definizione circoscritta dell’argomento.
L’amicizia è una prerogativa squisitamente umana – secondo il filosofo – come tale non attribuibile agli dèi né agli animali: nasce dal bisogno di socialità, proprio dell’uomo che lo spinge a entrare in una trama di relazioni con altri soggetti in un sistema di reciprocità e condivisione. Zoon politikon estin, l’uomo è un animale politico, nulla vi è al di fuori della sua capacità di socializzare. Questa particolare natura dell’uomo socialmente inteso (unus homo, nullus homo) sarebbe stata a fondamento della democrazia ateniese del V secolo, del sistema delle polis di Pericle e del comune senso della cittadinanza.
Aristotele individua inoltre diversi livelli di amicizia, i primi più apparenti che reali: quelli dettati dal piacere, tipici della giovinezza, e quelli dettati dalla finalità o scopo, tipici della vecchiaia. Ma la vera amicizia deve necessariamente essere libera da secondi fini, è un rapporto di libera scelta fra due o più persone che s’incontrano in un afflato di gusti e tendenze comuni. In questo senso è il legame nobile per eccellenza, la virtù, dominio della philia, della sapienza e come tale appartiene prevalentemente ai filosofi. Anche Epicuro riprenderà queste considerazioni, individuando nell’amicizia il vero godimento della vita, libero da bisogni materiali, e dettato solo dal desiderio di esserci nel mondo, dalla compartecipazione alle esperienze vissute.
Già nell’antichità si delineava pertanto un ambito referenziale entro cui definire l’amicizia, in quanto elemento fondamentale della reciproca convivenza, collante delle relazioni umane: anche Cicerone e Seneca insisteranno sull’aspetto conviviale di un rapporto disinteressato, come piacere condiviso alla base del consenso fra i cittadini e dunque del sentimento della communitas.
Siamo in presenza di un tema che ha alle spalle una vicenda plurimillenaria e ha visto fiorire, nel tempo, tante possibili interpretazioni, talora discordanti a riprova degli aspetti di ambiguità e ambivalenza in esso contenuti. Ha rappresentato una delle grandi questioni della filosofia greca e romana, della tradizione dei vangeli cristiani fino all’illuminismo e al pensiero contemporaneo del Novecento: come dimostrano le posizioni di Freud per il quale si tratta di un sentimento paragonabile all’eros, riconducibile all’istinto sessuale, o di Nietzche, che pur riconoscendo lo statuto dell’amicizia fra gli uomini, ribadisce il principio della solitudine, su cui si soffermerà Derrida nelle Politiche dell’amicizia, recuperando il famoso detto aristotelico “O amici, non vi sono amici”.
Un grande convegno internazionale di studi antropologici si è svolto infine a Palermo nel 1983, dal titolo “L’amicizia e le amicizie”, organizzato dalla cattedra di Antropologia culturale. In quell’occasione emersero vari contributi e confronti fra studiosi del mondo classico e antropologi della contemporaneità, studiosi delle tradizioni locali che misero a punto i diversi modelli comportamentali in materia di amicizia: dai rapporti col comparatico nel Meridione, ai legami di parentela, lignaggio, etnia in contesti geografici lontani.
Essere amici è il nuovo contributo di Franco La Cecla, edito da Einaudi, che apre varie prospettive illuminanti soprattutto in un’epoca come la nostra letteralmente dominata dai social e dalle comunicazioni sul web. Qui l’Autore insiste soprattutto sul carattere di un legame che sembra assumere una predominanza esclusiva nell’Occidente, per i processi di rarefazione dei rapporti tradizionali, sanciti da norme contrattuali come il matrimonio e/o di consanguineità, la famiglia e la parentela. L’amicizia, al contrario, non ha nulla di istituzionale, è un fuori programma, dato semplicemente dal suo esserci per simpatia o per affinità. Essa comporta una sospensione del tempo, in quanto è, si rinnova attraverso la presenza, che non sempre e necessariamente è data dal contatto fisico, ma può esserci anche a distanza come qualcosa di impalpabile e indefinibile.
L’amicizia è inoltre avalutativa, comporta un sospendere il giudizio sull’altro, di cui si accettano a priori pregi e difetti. È la capacità di guardare oltre, in prospettiva e in questo sta “il vantaggio del malinteso” che lascia sempre aperta la possibilità di non capire fino in fondo, mantenendo sempre una zona d’ombra, non risolta. Non vi è alcuna imposizione nell’amicizia e può nascere solo da una libera scelta e per libera scelta può essere in qualsiasi momento revocata. Ma proprio per questo l’amicizia può diventare pericolosa, per il suo essere qualcosa di inafferrabile che si contrappone alla norma e al costituito e può infrangerlo fino a farlo saltare. Il carattere informale e aleatorio dell’amicizia, dove non vi è nessuna garanzia, le conferisce una carica di ambiguità.
Montaigne sosteneva che non vi può essere amicizia fra i giusti, non si tratta di un rapporto egualitario, proprio per il fatto che essa deriva da una scelta ingiusta, ci si sceglie fra tanti, senza una ragione precisa. L’ingiustizia dell’amicizia può determinarne il suo contrario: il nemico è sempre in agguato, perché a volte è lo stesso ex amico che ci conosce fin troppo bene, non vi sono nemici fra gli sconosciuti, il nemico è, come l’amico, uno specchio di noi stessi. Lo dice Giorgio Agamben (L’Amico, Roma 2007: 17), quando afferma che «l’amico non è un altro io, ma un’alterità immanente nella stessità, un divenire altro dello stesso. Nel punto in cui percepisco la mia esistenza come dolce, la mia sensazione è attraversata da un con-sentire che la disloca e la diporta verso l’amico, verso l’altro stesso. L’amicizia è questa desoggettivazione nel cuore stesso della sensazione più intima di sé».
La Cecla si chiede a questo punto se, in questa forma, l’amicizia può essere considerata un valore esclusivo della nostra civiltà che avrebbe sviluppato un culto dell’individuo tale da consentire di sottrarsi a legami tribali e religiosi, accentuando modelli comportamentali in cui ognuno è libero di costituire legami provvisori o duraturi con chi vuole.
In realtà la nuova letteratura antropologica e le recenti esperienze sul campo presso comunità extraeuropee, hanno dimostrato che accanto ai legami di parentela, religiosi, identitari, vi sono anche quelli di pura e semplice amicizia. Non vi è un confine netto infatti fra queste forme di interazione sociale, parentela o amicizia, anzi a volte sembrano sovrapporsi anziché opporsi. Anche i legami di parentela, come avverte Sahlins, possono essere, in ultima analisi, legami di reciprocità e non biologici. Occorre dunque rivedere le proprie chiavi di lettura, e non cadere nelle insidie di classificazioni troppo rigide, anche se bisogna riconoscere nelle culture extraeuropee una maggiore diffusione dei legami tribali, parentali e religiosi e una tendenza di tali vincoli ad assorbire quelli che noi, dal nostro punto di vista, definiremmo amicali.
Un fatto è certo comunque, che l’amicizia mantiene sempre uno spirito di libertà e autonomia, un modo di sottrarsi all’obbligatorietà e costrizione dei vincoli familiari. Ma è proprio questo spirito libero e informale, effimero e volatile che ne provoca, al contempo, la sua fragilità. Se è vero che l’amicizia è conditio sine qua non del comportamento prepolitico dell’uomo come volevano i pensatori greci, questo potrebbe costituire la causa della sua debolezza.
Uno dei problemi più inquietanti per la nostra democrazia è, fra gli altri, la massificazione e la coercizione dell’amicizia online proclamata dai social. L’Autore avverte e mette in guardia dai pericoli del web e dei contatti virtuali che non esita a definire come “surrogati della presenza”. Nel linguaggio dei social, tutto si riduce ad un’evocazione di presenze e di fantasmi di presenze. Si è portati a ritenere che dietro un messaggio o un contatto ci sia la presenza vera, ma in realtà questo comporta a lungo andare uno sfibramento delle relazioni.
Un’amicizia gestita su Skype o su una chat somiglia ad una specie di “messa in attesa”. Ogni telecomunicazione è dunque un rinviare, in attesa che la relazione diventi fisica, reale. Ma questo surrogato della presenza ci rimanda alla nostra solitudine, privandoci della fisicità dell’amicizia, caratteristica della nostra attualità. Il continuo rimandare la vita vera, il fare di tutto per registrarla per poterla vivere più tardi: in altre parole l’incapacità di vivere in prima battuta. La logica di Facebook è dunque quella dell’appiattimento, nella convinzione che basti sbandierare il numero dei contatti o dei presunti amici, i followers, o pensare che basti un like per diventarlo, quando in realtà questo significa umiliare il valore autentico dell’amicizia, svuotarlo di significato. Facebook e tutte le piattaforme social sono, sotto questi aspetti, un vero pericolo per la democrazia, perché ne trattano il materiale più prezioso come qualcosa di mercificabile. I legami sociali hanno perso così ogni consistenza, trattati, nell’era dell’informatica, come beni da negoziare.
In realtà, come abbiamo visto, l’amicizia è ben altro ed è qualcosa che non può essere manipolata dalla rete. C’è un rango ontologico dell’amicizia, conclude l’Autore, riprendendo Agamben ma anche Aristotele, ciò che definisce il nostro modo di essere nel mondo. Essere al mondo come amici, il potenziale essere dell’amicizia con qualcun altro è il modo stesso con cui si manifesta la nostra individualità. La socialità è dunque il bene più prezioso nell’uomo e va difesa: è l’autopoiesi sociale che crea tessuto, cultura, futuro – sono parole dell’Autore. L’unica vera democrazia non è fatta certo di friends, ma di amici veri che si confrontano nella vita in maniera diretta, non mediata, e valutando di volta in volta il legame di onestà che li lega.
Dialoghi Mediterranei, n. 40, novembre 2019
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Orietta Sorgi, etnoantropologa, ha lavorato presso il Centro Regionale per il catalogo e la documentazione dei beni culturali, quale responsabile degli archivi sonori, audiovisivi, cartografici e fotogrammetrici. Dal 2003 al 2011 ha insegnato presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Palermo nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici. Tra le sue recenti pubblicazioni la cura dei volumi: Mercati storici siciliani (2006); Sul filo del racconto. Gaspare Canino e Natale Meli nelle collezioni del Museo internazionale delle marionette Antonio Pasqualino (2011); Gibellina e il Museo delle trame mediterranee (2015); La canzone siciliana a Palermo. Un’identità perduta (2015); Sicilia rurale. Memoria di una terra antica, con Salvatore Silvano Nigro (2017).
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