di Mariano Fresta
Il lavoro svolto, a proposito dei “beni culturali”, dalle organizzazioni dell’UNESCO, in collaborazione con i Governi interessati di molti Stati, e, dopo lunghi anni di dibattiti, sfociato nelle Convenzioni del 2003 [1], è stato un importante incentivo a riflettere su ciò che genericamente si intende per “cultura”. Se in un primo momento, infatti, l’azione dell’Unesco è stata diretta alla tutela e alla salvaguardia delle cosiddette “bellezze artistiche e monumentali”, successivamente, grazie all’intervento di quelle Nazioni il cui patrimonio culturale è in massima parte costituito da oggetti effimeri e prodotti immateriali, intangibili e volatili, l’attenzione si è rivolta ai manufatti artigianali, ai paesaggi e, poi, anche ai saperi, al “saper fare”, e alle tecniche tradizionali che stanno dietro a questi prodotti.
Si è incominciato così a indirizzare l’azione di tutela e di conservazione verso i “beni” fino a poco tempo prima non ritenuti degni di essere considerati come monumenti, nonostante fossero patrimonio di milioni di persone. Da qui i passi successivi: oltre ai saperi tecnici, sono state prese in considerazione anche le storie di vita, le narrazioni mitiche, le leggende, le musiche, le feste, le danze, le forme teatrali, tutte, insomma, le manifestazioni dell’espressività, che si tramandano di generazione in generazione e, come si diceva una volta, di bocca in bocca [2] e che sono presenti in tutti i Paesi.
L’articolo 2 della Convenzione 2003 così definisce questi beni:
«Per “patrimonio culturale immateriale” s’intendono le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know- how – come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi – che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale. Questo patrimonio culturale immateriale, trasmesso di generazione in generazione, è costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi in risposta al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia e dà loro un senso d’identità e di continuità, promuovendo in tal modo il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana».
L’art. 3 contiene, invece, le indicazioni che riguardano la salvaguardia:
«Per “salvaguardia” s’intendono le misure volte a garantire la vitalità del patrimonio culturale immateriale, ivi compresa l’identificazione, la documentazione, la ricerca, la preservazione, la protezione, la promozione, la valorizzazione, la trasmissione, in particolare attraverso un’educazione formale e informale, come pure il ravvivamento dei vari aspetti di tale patrimonio culturale».
Se i concetti di tutela e di salvaguardia hanno possibilità di essere realizzati con un certo successo per i beni tangibili, la stessa cosa, tuttavia, non avviene per i “patrimoni immateriali”, soprattutto perché tutela e salvaguardia non significano la stessa cosa. La tutela per i beni immateriali, infatti, costringerebbe in qualche modo a renderli immutabili; è come se si volesse mummificarli o metterli in un museo, dove, esposti, rischierebbero di diventare muti e fissi per sempre, sottratti a tutti i processi di circolazione, di trasformazione e di evoluzione che sono fenomeni propri delle culture umane. D’altra parte, la salvaguardia presuppone che siano le comunità a decidere i modi con cui tenere in vita le proprie usanze, trasformandole secondo i gusti e i bisogni del tempo, magari deviando dalla antica tradizione e soprattutto con la probabilità, sempre incombente, che esse cadano nelle mani di chi le volesse strumentalizzare, snaturare e modificare per propri interessi più o meno leciti.
Quest’ultimo rischio, tra l’altro, è insito nell’azione dell’Unesco, perché, l’Orga- nizzazione, pur avendo il merito di aiutare le comunità mondiali a preservare le loro tradizioni, sveglia, altresì, i desideri di chi vorrebbe trarre profitto dal recupero e dalla valorizzazione di questi beni culturali, come ci insegna la storia recente a proposito dei vari folk-revival (soprattutto riguardanti la musica e il canto) e a proposito di assegnazioni di titoli quali “patrimonio dell’umanità” a siti paesaggistici di grande valore. Cosa che è accaduta, per portare un esempio, con la Val d’Orcia, in provincia di Siena, la quale, dopo essere stata proclamata “patrimonio culturale dell’umanità”, è stata presa d’assalto da speculatori vecchi e nuovi che hanno creato centinaia di “agriturismo”, richiamando molte decine di migliaia di turisti “mordi e fuggi” e di villeggianti [3]: cose economiche buone in sé, che però hanno trasformato, in maniera a volte selvaggia e triviale, le architetture rurali e buona parte del paesaggio, e hanno condizionato i modi di vita, la mentalità e la cultura della popolazione locale.
Su questo problema è nata la discussione tra gli antropologi, tra chi è del tutto contrario (come alcuni etnomusicologi) [4] e chi è favorevole all’assegnazione del titolo da parte dell’Unesco; ma c’è anche un consistente gruppo di studiosi che, pur mostrandosi favorevole ai suggerimenti dell’Organizzazione, ritiene importante agire con cautela e adoperando opportuni accorgimenti [5].
Un esempio: la festa di s. Antonio Abate a Macerata Campania
Per avere più chiari i termini della questione, riporterò qui un esempio di patrimonio culturale che è in attesa di riconoscimento da parte della Commissione dell’Unesco. Si tratta della festa di s. Antonio Abate che si celebra a Portico di Caserta e a Macerata Campania, in provincia di Caserta, precisando che il primo di questi due centri sembra del tutto indifferente a quanto succede a Macerata, dove invece esiste un comitato piuttosto attivo, promosso dalla parrocchia di san Martino, che mantiene viva, dopo averla modificata in maniera cospicua, una tradizione che negli anni ’80 del secolo scorso si era degradata fino a perdere molti degli elementi tradizionali. Il comitato, da qualche anno lavora per ottenere il riconoscimento dall’Unesco: per questo i miei riferimenti riguardano la sola cittadina di Macerata [6].
Dopo una sommaria storia del fenomeno ed una breve descrizione della festa, illustrerò quegli aspetti che hanno subito le modifiche più evidenti, comparandoli con quelli del passato, ricavati o dalle fonti scritte oppure dalle testimonianze orali. Nella discussione mi servirò di molte notizie e di riflessioni che si trovano già nello studio di cui alla nota 6.
Il culto di s. Antonio Abate
Il culto di s. Antonio è stato in Italia largamente e profondamente diffuso, soprattutto presso il mondo contadino in cui l’attività agricola era svolta in concomitanza con l’allevamento di animali da lavoro (bovini, equini) o da carne (vitelli, maiali, pollame, ecc.). La presenza del maiale, e in qualche caso di altri animali, nella iconografia e nell’agiografia del santo sono la testimonianza dell’assunzione dell’eremita africano a protettore della vita e delle sorti dei contadini.
La crisi del mondo agrario ha segnato in molte località anche la fine o l’obsolescenza della festa di s. Antonio: sono scomparse le grandi fiere degli animali da lavoro, spesso alle benedizioni organizzate dalla Chiesa sono portati gli animali domestici, come cani, gatti, uccelli e perfino pesci e criceti. Il che significa che, venuto a mancare un opportuno contesto, il rito, con la perdita del suo significato più profondo, si è ridotto a manifestazione superficiale e di moda. In alcune regioni, come la Sardegna, l’Abruzzo, il Molise, la tradizione resiste con un certo vigore; in altre parti dell’Italia è ancora abbastanza viva ma diffusa a macchia di leopardo. In altre ancora la festa è servita e serve per costruire una nuova “identità paesana”, specie là dove, per la vicinanza di centri industriali o di grandi città, le piccole comunità di una volta divenute spesso “centri dormitori”, si sono popolate a dismisura, fino a perdere le connotazioni storiche e antropologiche precipue.
È il caso, per esempio, di Macerata Campania e di Portico di Caserta, due paesi che nel 1929 sono stati uniti in un unico comune, Casalba, e che poi, nel 1949, hanno riacquistato la rispettiva autonomia amministrativa; negli anni ’60/70 del secolo scorso, c’è stato un aumento della popolazione che nel 2006 raggiungeva quasi undicimila abitanti a Macerata e quasi ottomila a Portico. Negli stessi anni, quelli del boom, ognuno dei due centri ha ripreso la tradizione della festa di s. Antonio, con caratteristiche comuni acquisite durante il periodo dell’unificazione, ma con un vivace spirito campanilistico.
La festa nel casertano
La festa che si celebra a Macerata è molto complicata e complessa. In una rapida analisi svolta diversi anni fa, riuscii ad individuare, su buona parte delle celebrazioni che avvengono in Italia, circa una decina di elementi che le compongono: la processione religiosa dietro la statua del santo, la benedizione degli animali, i falò, la questua, la riffa, i carri e la loro sfilata, il rumore, un piatto gastronomico particolare, i canti, le danze [7]. Le feste, che si svolgono in onore di s. Antonio Abate, in generale non comprendono tutti questi elementi, ma ognuna ne mantiene almeno tre o quattro; a Macerata, invece, tutti gli elementi si trovano riuniti in un’unica tradizione, magari alcuni si presentano in forma degradata, altri invece hanno assunto una funzione importante.
Ognuno di questi elementi, nella ricorrenza casertana, ha una storia diversa, ma non sappiamo quando e in che modo tutti questi filoni si siano incontrati e mescolati fino a diventare un unico corpo compatto. È, tuttavia, molto probabile che su antiche cerimonie agrarie si siano innestati poi elementi riguardanti le feste cristiane ed altre festività laiche. I due elementi principali della festa sono il fuoco e il rumore [8] (prodotto dalla percussione di strumenti agricoli – botti, tini e falci), che appartengono ad una tradizione forse addirittura antecedente alla rivoluzione agraria: basta scorrere i volumi del Ramo d’oro di J. Frazer per averne contezza. Ma poi le cose si sono complicate, perché alla festa originaria si sono mescolate le tradizioni relative al culto di sant’Antonio e poi si sono aggiunti altri filoni tradizionali, come quello del Carnevale, che, comunque, riusciamo ad individuare nella generale complessità della ricorrenza maceratese.
Il territorio in cui sorgono Portico e Macerata è stato sempre a vocazione agricola. Prima del 1970 era la coltura della canapa che caratterizzava le attività economiche; successivamente, dopo la crisi di quella coltivazione e la legge (1975) che la proibiva, sono subentrate le produzioni ortofrutticole e la tabacchicoltura.
Poiché la festa a Macerata era strettamente collegata alla cultura contadina, essa era semplice e povera: la sera del 16 gennaio, nelle campagne e nei rioni della cittadina venivano accesi dei falò. Le testimonianze orali e quelle scritte, poche e scarne, ci dicono che la mattina del 17, qualche carretto girava per le vie del paese, ma esso al massimo poteva essere trainato da una sola bestia da soma; quando il carro raggiungeva proporzioni enormi, allora si documentava l’eccezionalità, come successe nel 1947, ricorrendo alla macchina fotografica. Ma in genere il carro era di piccole dimensioni e spesso era spinto da una sola persona: sul carretto c’era la botte, il bottaro era a piedi, qualche volta accompagnato da altri che percuotevano falci e cupielli (mastelli di legno, tradotto in loco con “tini”). Ma ci sono anche alcune testimonianze che affermano l’uso di più carri trainati da buoi o da cavalli, ma non in sfilata, e di un premio per il carro meglio addobbato. Il tutto, comunque, era lasciato alla spontaneità e alla iniziativa di singoli o di piccoli gruppi.
La percussione di botti, cupielli e falci doveva produrre un rumore che servisse ad allontanare le forze negative che avevano influenzato l’annata trascorsa e a salutare l’arrivo di quella nuova. Spesso al rumore si accompagnava qualche strofa di canti bene augurali.
Negli anni ’70 del secolo scorso, i due centri partecipano allo sviluppo economico e sociale della nazione e, per la vicinanza di Napoli e del polo industriale di Marcianise, cominciano ad avere strutture economiche nuove, abbandonano in buona parte le attività agrarie per quelle industriali e terziarie. Il cambiamento, ovviamente, investe anche la mentalità e la cultura e si riversa sulla festa di s. Antonio. È proprio agli inizi degli anni ’80 del XX secolo, che la festa di Macerata, grazie all’iniziativa del comitato promosso dalla parrocchia, assume una struttura sempre più complessa in cui i carri cominciano ad avere una certa prevalenza, tanto che il loro numero aumenta progressivamente e parimenti aumenta anche la loro grandezza, così che ognuno di essi può ospitare un gruppo molto numeroso di persone che percuotono botti, cupielli e falci. Anche gli altri elementi della festa, poco alla volta, vengono riuniti e organizzati organicamente dal comitato con un lavoro che si è protratto per almeno una ventina d’anni.
Oggi i carri, in numero dai dieci ai quindici, caratterizzano la festa, anzi ne sono diventati uno dei simboli principali, grazie anche ad un addobbo sempre più ricco e appariscente. Su di essi sono piazzati le botti (da 10 fino a 16 unità per carro), i cupielli (circa venti/trenta unità) e innumerevoli falci, con i loro relativi suonatori: l’insieme dell’equipaggio a volte supera le sessanta/settanta persone. Accanto a loro c’è sempre un piccolo complesso musicale e naturalmente un “capobattuglia” che li dirige nell’esecuzione. I bottari, come genericamente sono chiamati i percussionisti, riuniti nelle battuglie di pasta ’e llesse [9], sono i veri protagonisti della festa: essi danno vita ad un mondo sonoro che per tre giorni investe la comunità di Macerata.
Questi carri che si vedono adesso costituiscono, dunque, una trasformazione di grande importanza, che ha trasportato la tradizione da un mondo piccolo, chiuso e povero, al mondo nostro, aperto, ricco o solo superficialmente ricco, in cui spesso prevale l’ostentazione dello spreco e del consumo. Trattori molto potenti trainano i carri che sono mastodontici e che sono coperti di tela di iuta, per nascondere gli accorgimenti usati per ingrandirli, e ornati di rami di palme e di mascheroni di cartapesta.
La costruzione di ogni carro ha un costo molto elevato, per questo l’organizzazione richiede una non piccola somma (fino a 100 euro) a chi voglia salirci per percuotere uno strumento. È sentito come un privilegio essere un bottaro; quindi le richieste sono tante. Si è creata così un’atmosfera adatta a favorire chi voglia raggiungere scopi anche poco trasparenti: chi pensa di ottenere visibilità popolare non ha che da sborsare i soldi necessari per realizzare il carro e permettere ai giovani di salirci senza pagare. Il Comitato organizzatore di Macerata, oltre a dichiararlo con forza, vigila che nella festa non ci siano infiltrazioni equivoche e pericolose, ma qualche anno fa, nella contigua cittadina di Portico, correva voce che un carro, su cui erano saliti solo ragazzi al di sotto dei quindici anni con qualche adulto, era stato finanziato da una personalità locale in odore di camorra.
Fino a una decina di anni fa l’organizzazione della festa premiava il carro o i carri meglio adobbati e meglio organizzati; questa premiazione è, poi, stata soppressa per non dare adito a pettegolezzi, a gelosie varie, a discussioni anche piuttosto vivaci. E così si è perso un altro elemento, quello della gara, quasi sempre presente nella ritualità con cui si affronta il passaggio da un anno all’altro o da una stagione all’altra o da uno status ad un altro.
Anche i canti, che si eseguono sui carri, e i balli attorno ai falò hanno subito delle trasformazioni; uno dei canti tradizionali, spesso eseguito dagli antichi bottari come augurio per un anno nuovo portatore di benessere, era quello inneggiante alla bellezza e alla procacità della ragazza campagnola, simbolo della natura e della fertilità. Esso era accompagnato soltanto da semplici figure ritmiche eseguite percuotendo i cupielli e la botte, adesso si esegue ancora ma è mescolato e confuso tra le canzonette moderne ed accompagnato anche da tastiere e chitarre elettriche.
I balli che si facevano attorno ai falò festivi, (per lo più si trattava di tarantelle eseguite da organetto e tammorra), oggi sono stati sostituiti dai “giochi popolari”, come dicono gli organizzatori, tratti certamente dalla tradizione ma non sempre attinenti allo spirito della festa originaria, come la corsa nei sacchi, il tiro alla fune e l’albero della cuccagna, il più popolare, che nella parlata locale è definito “palo di sapone”.
Il rumore
I carri ci riportano al secondo asse portante della festa, che è il rumore. Questo elemento ha contrassegnato tutte le feste che contengono una qualche ritualità. Il rumore, provocato con appositi strumenti, come il “rombo”, o prodotto percuotendo tamburi, assi di legno, zappe e pentole di vario genere, determinava, scacciando eventuali spiriti maligni, il momento magico in cui si passava da uno stato all’altro della vita, da una stagione all’altra, da un’annata all’altra. Oggi il rumore si manifesta principalmente con gli spari di petardi, bombe carta e con i più sofisticati fuochi artificiali: e di ciò tutti abbiamo ampia esperienza, perché non c’è Capodanno né festa patronale di città, paese e villaggio in cui non si sentono gli scoppi di decine e decine di mortaretti e di mortai pesanti.
Anche per Pasqua, simbolo di rinnovamento e di rinascita, la Resurrezione del Cristo è segnalata e festeggiata da un lungo e gioioso suono di tutte le campane, sciolte dopo tre giorni di silenzio assoluto. In certe zone, allo scampanio si uniscono i mortaretti e il suono di una banda musicale. Se mi è consentito ricorrere alla mia esperienza di fanciullo, ricordo che nel mio paese natale in Sicilia, alla Messa pasquale, appena il sacerdote intonava il Gloria per annunciare la Resurrezione, un gruppo di ragazzini dietro l’altare maggiore saltellava su una pedana di legno, producendo quanto più rumore possibile.
La festa di sant’Antonio coincide con il tempo del solstizio invernale e quindi con il periodo nel quale si svolgono le cerimonie di inizio d’anno, per cui non dobbiamo meravigliarci se il suo aspetto più importante è costituito dal rumore. Mentre, però, nel passato il rumore era spontaneo e caotico (come quello che si sente ancora oggi in occasione del Capodanno), a Macerata ci troviamo in presenza di un “rumore organizzato”, di percussioni che hanno acquisito un ritmo congruo e sistematico, quasi musicale, tanto che è diventata necessaria la presenza di un “capobattuglia” che, come un direttore d’orchestra, dia il segnale di inizio e di fine dell’esecuzione, indichi quando attuare un crescendo o un diminuendo, quando eseguire un lungo rullio (la cosiddetta “confusione”), ecc. …
È questa l’innovazione più importante e più clamorosa che sia stata apportata alla festa maceratese; ed è, probabilmente, l’innovazione che più desta interesse ed entusiasmo, visto che le esecuzioni dei bottari sono seguite da migliaia di spettatori ed accompagnate da urli e strilli come quelli che si possono sentire ai concerti pop; e visto che anche nei paesi vicini, in occasione di feste, compaiono carri e bottari e che centinaia di persone ogni anno chiedono, anche pagando una quota, di potersi esibire sui carri. Secondo una stima empirica, svolta dal comitato di Macerata, nella città e nel suo circondario in cui si trovano città grandi come Marcianise, ci sono quasi duemila persone che si esibiscono come bottari in occasione di feste patronali o di sagre estive.
Sui carri maceratesi il rumore ha perso la sua antica funzione (che, forse, nella comunità vive ancora a livello inconscio, come avviene, ormai, per buona parte dei riti di passaggio), perché esso sembra servire solo da accompagnamento ai canti, i quali, prima della fine del mondo agricolo, erano quelli della tradizione contadina (canti enumerativi, ritualistici), mentre oggi sono spesso le canzoni classiche del patrimonio canoro di Napoli, oppure le canzonette in voga tratte dal repertorio cosiddetto “leggero”. E qui gli etnomusicologi hanno una loro ragione ad opporsi al fatto che la tradizione venga in qualche modo storpiata, contaminata da elementi che nulla hanno a che fare con la storia precedente e molto dipendono da un gusto da cultura di massa.
Mentre nella vicina Portico il falò (cippo, nella terminologia locale) si è degradato fino al punto da ridursi a poca cosa, a Macerata i fuochi serali si sono moltiplicati nei vari quartieri e molta importanza assume il cippo principale attorno al quale si svolgono i giochi tradizionali: anche questo elemento è dovuto all’attenzione e alla cura con cui il comitato maceratese prepara la festa. Nel programma sono previste la questua e la riffa durante la quale si vendono i beni raccolti: esse si ripetono perché nei tempi passati facevano parte della celebrazione, oggi invece appaiono elementi marginali, interessando per lo più gli abitanti del luogo ancora legati alle usanze antiche; l’osservatore che segue i questuanti nel loro percorso ha l’impressione di trovarsi di fronte ad un’azione piuttosto clandestina, che si svolge nell’indifferenza degli astanti.
La festa, oltre a cadere nel periodo di Capodanno, coincide con un’altra importante ricorrenza, quella dell’inizio del carnevale. Un vecchio proverbio, infatti, recita: sant’Antuone – maschere e suone. Oggi nonostante la Chiesa tenga a distinguere gli aspetti religiosi e liturgici dalle manifestazioni che si svolgono per le strade e le piazze di Macerata, gli elementi carnevaleschi sono ben presenti nei tre giorni di festa, perché sono troppo radicati nella cultura locale per poter essere misconosciuti o eliminati. Tra l’altro, questi elementi carnevaleschi sono tratti dalle stesse leggende popolari che ruotano attorno alla figura dell’eremita egizio. Si tratta, infatti, della “signora ’e ffuoco” (la signora del fuoco), che dovrebbe rappresentare le tentazioni erotiche subite dal santo; del porco, animale legato al santo fin dal medioevo [10], dell’asino simbolo della bestialità demoniaca; infine di una “scala” o, almeno, di una costruzione verticale che somiglia ad una scala, e del cui significato si ignora tutto. I quattro elementi, come i fantocci di carnevale, sono condannati ad essere bruciati sulla pubblica piazza: la “signora”, posata su un piedistallo, comincia a bruciare, per lo scoppio dei petardi di cui è rivestita, dai piedi e finisce con la testa mozzata. Anche il maiale è posto su un supporto e brucia con i petardi dalla coda alla testa. La cosiddetta “scala”, inserita in un telaio, si consuma tra gli scoppi dei petardi. Più interessante la figura dell’asino: oggi la sua immagine di cartapesta è trasportata su un carrettino a ruote, che viene fatto girare entro un recinto nel quale sono posti anche le altre figure e come queste alla fine viene distrutto dai petardi. Il recinto è costruito in ossequio alle norme di sicurezza imposte dalla legge, contrariamente a ciò che avveniva prima, quando l’asino era mimato da due persone travestite e trotterellava facendo scoppiare piccoli petardi in mezzo alla folla, spaventando donne e bambini.
Quasi una conclusione: salvaguardia e patrimonializzazione
Possiamo dire a questo punto che il comitato organizzatore della festa di s. Antonio di Macerata Campania agisce secondo il dettato della Convenzione Unesco: la comunità, rappresentata dal comitato, in piena autonomia stabilisce come celebrare la festa, quali elementi conservare e quali modificare. Sappiamo che le tradizioni, quando le vediamo, sono il risultato provvisorio di un processo lungo nel tempo. Se, per esempio, nel rito primaverile del segalavecchia troviamo il medico, il prete, i carabinieri, ovviamente non pensiamo che questi personaggi fossero presenti nello stesso rito celebrato duecento o trecento anni fa, perché essi sono stati introdotti via via nel processo di evoluzione degli elementi cerimoniali. Le tradizioni che hanno strutture complesse, come il teatro (Maggi, Bruscelli, Opera dei pupi) e come le feste (sia quelle religiose, sia quelle laiche come il Carnevale) sono soggette ai cambiamenti, alle “varianti”; ma mentre una volta le modifiche avvenivano con lentezza, oggi è tutto globalizzato e comunicato immediatamente; non si ha tempo di assimilare i cambiamenti che subito ce n’è un altro; anzi i cambiamenti spesso non sono dettati da esigenze della comunità ma imposti dalla moda, dalla televisione, da altri mass media, ecc.
Nel passato, inoltre, nelle comunità agiva sempre una censura sociale preventiva, per cui il comitato o il responsabile, ai quali era delegata l’organizzazione della festa, sapevano cosa sarebbe stato accettato o rifiutato dagli altri membri della società; nel caso in cui la volontà tacita della comunità fosse stata trasgredita in qualche parte, la riprovazione sarebbe stata palese e sarebbe servita da monito agli organizzatori successivi [11]. La situazione odierna è diversa, perché viviamo in un mondo “liquido”, in cui le identità (quandanche ce ne siano state di immutabili) sono state ridotte in polvere [12]: venendo a mancare un determinato controllo sociale e nonostante il comitato di Macerata Campania cerchi di tenere il legame con la tradizione, quasi sempre prevale l’interesse turistico, prevale la volontà di attirare un sempre maggior numero di spettatori.
Per ottemperare a queste nuove esigenze, pertanto, è facile cadere nell’ovvio, nella reinterpretazione di manifestazioni già viste altrove o suggerite dalla televisione di massa. E con ciò viene a mancare quella ritualità attorno alla quale la festa si svolgeva e con la scomparsa di quegli elementi che la rappresentavano svanisce anche il suo recondito significato. Di questo scivolamento dal popolare, inteso come “tradizionale”, al popolare inteso come “diffusamente conosciuto”, si era già accorto negli anni passati uno storico locale che così scriveva:
«Stiamo assistendo quindi ad un lento ma progressivo affievolimento delle ragioni e degli interessi culturali che sono alla base di tali manifestazioni. E, conseguentemente, la “tradizione”, intesa come un riconoscersi ed un riaffermare le origini culturali del luogo, sta lasciando il posto, in modo lento ma inevitabile, al “folklore”, allo spettacolo di massa visto e non vissuto» [13].
Non dissimile è il giudizio di molti antropologi odierni che, però, consci del fatto che le tradizioni sono il risultato complesso di lunghi e non lineari processi culturali, non hanno gli stessi sentimenti nostalgici degli storici locali. Ecco, per esempio, come si esprime Ahmed Skounti:
«Ma, ciò che questi attori [cioè: i detentori delle tradizioni] non sospettano, è che questi elementi del patrimonio culturale immateriale non sono e non potranno più essere gli stessi; diventano altri, compreso per coloro che ne sono detentori e praticanti»[14].
Oppure Pietro Clemente che parla della salvaguardia dei beni culturali concepita dalla Commissione Unesco come di un nuovo approccio alle “tradizioni” perché
«… significa infatti che dei soggetti (comunità) in modo attivo (partecipazione) si rendono operativi per non disperdere esperienze e patrimoni, ma non fissandoli nelle forme passate, come si trattasse di ‘conservazione’, ma adattandoli ai bisogni presenti» [15].
Se da un lato, però, nella riproposizione della tradizione l’Unesco mostra sensibilità democratica lasciando alle comunità piena autonomia e libertà di vivere o di rivivere il proprio patrimonio culturale, dall’altro non può garantire affatto che questo patrimonio abbia la stessa funzione che svolgeva in un passato molto diverso dall’oggi. Non c’è nessun controllo, non c’è censura, né si vede alcuna possibilità di assicurare, nell’esecuzione di un canto o di una danza o nello svolgimento di una festa, la presenza di elementi che suscitino una qualche ritualità o che almeno la ricordino, senza ledere l’autonomia della comunità.
D’altra parte, se non ci fossero i suggerimenti dell’Unesco, se non ci fossero le iniziative di patrimonializzazione, cosa accadrebbe a quella cultura che indichiamo con l’aggettivo popolare? La risposta è nella storia: gli elementi di una cultura, che non sono più funzionali, vengono scartati, vengono dimenticati in maniera irrecuperabile [16], se poi anche la comunità si disperde o muore il mondo entro cui essa si collocava (come è successo per la fine del vecchio mondo agrario nel corso del XX secolo), scompare anche il patrimonio culturale che per decenni abbiamo chiamato folklore.
Nel nostro mondo di ieri, nella nostra società non ancora moderna, il rito, benché non palesemente, era ancora vigoroso: le feste, fossero esse religiose o laiche o proprie di una società agraria, si “dovevano fare”, si dovevano “vivere”, come scrive Piccirillo. Ci sono testimonianze che ci dicono quanto sia triste essere lontani dal paese e non poter partecipare alla festa: alcuni dei “maggiaioli” di Castiglion d’Orcia confessano che, non potendo essere presenti qualche volta, la notte del 30 aprile, si sono messi a cantare da soli qualche strofa del “maggio”. Anche se non ne erano coscienti, rispettavano e celebravano il rito. Oggi la totalità della gente che assiste alla festa di s. Antonio Abate di Macerata o a qualsiasi altra festa non sa nulla del perché essa è nata, è inconsapevole del rito e della sua funzione, forse nemmeno si rammaricherebbe se la ricorrenza fosse eliminata, perché tanto ci sono molte altre feste simili cui partecipare. C’è solo qualche erudito o qualche pubblicista locale che parla di tradizioni “che si perdono nella notte dei tempi”. Il carro che una volta serviva a trasportare la pesante botte, oggi attira su di sé l’attenzione degli spettatori, perché esso stesso è diventato spettacolo, quasi come i carri carnevaleschi di Viareggio. A Macerata, con simili profonde trasformazioni, sono riusciti, forse senza volerlo o credendo di rispettare la tradizione,a tradurre una festa contadina in uno spettacolo di cultura di massa. Per le generazioni più giovani, la festa di “pastellessa” è quella di oggi, quella che hanno conosciuta e vissuta direttamente, senza radici nel passato.
Dell’antica ricorrenza semmai sono rimasti, per dir così, lo spirito, la sua essenza, il bisogno soddisfatto di far festa, come scrive Paolo Apolito [17]. In questo senso quella di s. Antonio Abate e qualsiasi altra festa, che ha un minimo di tradizione, di un qualsiasi paese, di qualsiasi comunità, continuano a funzionare ancora ed hanno una larga partecipazione popolare: ma, come osserva Skounti, da un punto di vista della sostanza, non è più la stessa cosa. E soprattutto: è forse questo l’esito auspicato dalle Convenzioni dell’Unesco?
Fino a qualche decennio fa, gli studi demoantropologici hanno sottolineato l’alterità della cultura popolare tradizionale nei confronti di quella delle classi dominanti; questa contrapposizione trovava la sua ragion d’essere nel fatto che la società era costituita appunto da classi sociali in antitesi tra di loro. Oggi, nella cosiddetta “società liquida e globalizzata”, la contrapposizione fra classi apparentemente sembra non esistere, ma non si può negare che essa esista (altrimenti non si capirebbe nemmeno il fenomeno tragico ed immenso delle fughe dai Paesi poveri a quelli ricchi). Lasciare, dunque, che siano le comunità a decidere come salvaguardare le proprie tradizioni senza un precedente e approfondito dibattito e senza, soprattutto, avere individuato e valutato gli eventuali esiti della patrimonializzazione, si rischierebbe di ottenere, parafrasando il giudizio di Rudolf Schenda, una situazione in cui l’espressività tradizionale propria di classi o etnie dominate si confonde con quella delle classi o dei Paesi dominanti [18].
La patrimonializzazione va fatta, perché riallaccia i rapporti fra i membri della stessa società, perché serve ad avere un punto di riferimento in una società globalizzata che appiana tutto davanti all’onnipotenza del denaro, perché crea solidarietà; ma occorre studiare il modo perché il valore contenuto nelle antiche manifestazioni della cultura popolare tradizionale venga mantenuto, oppure sostituito con un altro di pari rilevanza esistenziale.
Dialoghi Mediterranei, n.25, maggio 2017
Note
[1] Il testo della Convenzione del 2003 si trova nel sito www.unsco.org/culture/ich/en/convention.
[2] L’evoluzione delle vicende che hanno portato all’attuale situazione delle Convenzioni è stata raccontata da V. Zingari, Dalle tradizioni popolari al patrimonio culturale immateriale. Un processo globale, una sfida alle frontiere, in «Palaver», 4 n.s. (2015), n. 2: 125-168; e da F. Caruso, Politiche Unesco e patrimoni immateriali: il caso della liuteria classica cremonese, in Cultura del lavoro e dello svago in Lombardia, Mimesis, Milano 2014: 325-343. Se ne è occupato, con preziose riflessioni giuridiche, anche Lauso Zagato, La Convenzione sulla protezione del patrimonio culturale intangibile, in Le identità culturali nei recenti strumenti Unesco. Un approccio nuovo alla costruzione della pace?, a cura di L. Zagato, Fondazione Venezia per la Ricerca sulla Pace, CEDAM, Padova 2008: 27-70.
[3] Si veda M. Fresta, La Val d’Orcia: ovvero l’invenzione di un paesaggio tipico toscano, in «Lares», n. 2, 2011: 205-218.
[4] Cfr. Ignazio Macchiarella, Dove il tocco di Re Mida non arriva. A proposito di proclamazioni Unesco e musica, in «Erreffe», n. 64, 2011:71-80.
[5] Per uno sguardo d’insieme su questa problematica: Pietro Clemente, Carnevali indigeni del XXI secolo, in «edA. Esempi di Architettura», 2016, Special issue, 1° International Symposium Dialogue among cultures. Carnival in the world, edited by Olimpia Niglio: 160-165.
[6] Sulla festa di s. Antonio Abate nei due centri: M. Fresta, La festa di s. Antonio Abate. Tradizione e innovazione nel Casertano, «Archivio di Etnografia» n. 2, 2007.
[7] M. Fresta, La festa di s. Antonio Abate… cit.: 46-48.
[8] Sull’uso rituale del rumore rimando a S. Bonanzinga, I suoni della transizione, in La forza dei simboli. Studi sulla religiosità popolare, a cura di I.E. Buttitta e R. Pernicone, Folkstudio, Palermo 2000: 23-62.
[9] La “pasta ’e llesse” è il piatto tipico della festa antoniana; si tratta di castagne secche cotte (’e llesse) e poi soffritte con la pancetta e unite alla pasta asciutta. Incerta è l’origine dell’espressione, essa comunque indica la festa di s. Antonio, i carri e i loro occupanti (le battuglie di pastellessa) e perfino il suono che viene prodotto dai bottari: il ritmo di pastellessa.
[10] Il porco è l’animale che accompagna il santo nell’iconografia popolare; pare che si riferisca, secondo una interpretazione, al maiale che i monaci antoniani allevavano sia perché con il suo grasso curavano il cosiddetto “fuoco di sant’Antonio” (l’herpes zoster), sia perché un maiale veniva allevato da tutta la comunità a favore dei poveri. Un’altra interpretazione vuole che il porco sia il simbolo del diavolo tentatore.
[11] Sulla censura preventiva si veda R. Jakobson e P. Bogatirëv, Il folclore come forma di creazione autonoma, in «Strumenti critici», n.3, Einaudi, Torino 1967: 223-240, ripubblicato in forma più ampia con il titolo Il folclore come forma specifica di creazione, in P. Bogatirëv, Semiotica della cultura popolare (a cura di M. Solimini), Bertani, Verona 1982.
[12] Sulla società liquida si veda Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 2002, e Id. Intervista sull’identità, a c. di B. Vecchi, Laterza, Roma-Bari 2003. Sulla identità: A. Appadurai, Modernità in polvere, a c. di P. Vereni, Raffaello Cortina, Milano 2012.
[13] Piccirillo P. M., Portico di Caserta. Storia di un Casale rurale, Sacconi Editore, Caserta 2006: 630.
[14] A. Skounti, Elementi per una teoria del patrimonio immateriale, in «Antropologia Museale», n. 28-29, 2011: 34.
[15] Pietro Clemente,Carnevali indigeni, cit.: 5.
[16] Si veda ancora il saggio di R. Jakobson e P. Bogatirëv, Il folclore come creazione autonoma, cit.
[17] P. Apolito, Ritmi di festa. Corpo, danza, socialità, Il Mulino, Bologna 2014.
[18] Mi riferisco alll’opera dello studioso tedesco Folklore e letteratura popolare: Italia – Germania – Francia, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1986 e in particolar modo al saggio in essa incluso Le letture dei dominati sono la letteratura dominante, titolo a sua volta parafrasato da un più noto concetto marxiano sulle idee della società. Una conferma di questi esiti si può trovare nella festa “La parata dei turchi” di Potenza, per la quale si veda F. Mirizzi, Parata dei turchi, in “Antropologia Museale. Etnografie del contemporaneo- Comunità patrimoniali”, a.13, nn.37-39, Imola 2015-2016: 124 e sgg.
Riferimenti bibliografici
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Mariano Fresta, già docente presso il Liceo classico di Montepulciano, ha collaborato con Pietro Clemente, nella Cattedra di Tradizioni popolari a Siena. Si è occupato di teatro popolare tradizionale in Toscana, di espressività popolare (canti e proverbi), di alimentazione, di allestimenti museali (Tepotratos-Monticchiello), di feste religiose, di storia degli studi folklorici, nonché di letteratura italiana (I Detti piacevoli del Poliziano, Lo stile narrativo nel Pinocchio del Collodi). Ha pubblicato sulle riviste Lares, La Ricerca Folklorica, Antropologia Museale, Archivio di Etnografia, Archivio Antropologico Mediterraneo. Ultimamente si è occupato di identità culturale, della tutela e la salvaguardia dei paesaggi (L’invenzione di un paesaggio tipico toscano, in Lares) e dei beni immateriali. Fa parte della redazione di Lares. Ha curato diversi volumi partecipandovi anche come autore: Vecchie segate ed alberi di maggio, 1983 ; Il “cantar maggio” delle contrade di Siena, 2000 ; La Val d’Orcia di Iris, 2003. Tutti i suoi lavori si possono leggere in http//marianofresta.altervista.org
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