La Costituzione di Carlo Alberto del 1848 (Statuto Albertino) dichiarò il cattolicesimo religione di Stato, ma i governi liberali attuarono numerosi interventi per non riservare l’attenzione solo alla religione di Stato e manifestare diverse aperture anche alle altre confessioni. Il 1848 fu anche l’anno in cui il re concesse ai membri della comunità valdese i diritti civili.
Durante il fascismo questa attenzione multipolare si interruppe. Poiché il regime era interessato ad avere la Chiesa cattolica dalla sua parte non fece concessioni ai protestanti, anche perché avevano il loro centro di riferimento all’estero. Alcune confessioni protestanti ebbero una vita dura sia per la pratica di culto che per quanto riguardava il proselitismo. Così fu anche nei confronti degli ebrei, i quali nel 1939 vennero colpiti dalle terribili leggi razziali.
A seguito dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana nel 1948 le vedute sono molto più ampie, liberali ed equanimi, tanto è vero che il rinnovo concordato, firmato con il Vaticano nel 1984, non ha riconosciuto più il cattolicesimo come religione di Stato: nello stesso anno è stata approvata la prima Intesa (uno strumento giuridico introdotto dalla Costituzione per equilibrare l’attenzione rivolta alla Chiesa cattolica con il concordato) con la Tavola Valdese (Legge 11.8.1984, n. 449, e Legge 5.10.1993, n. 409).
Attualmente la situazione delle diverse religioni è così caratterizzata in Italia da tre livelli:
a) associazioni che operano di fatto per fini religiosi senza alcun riconoscimento;
b) associazioni riconosciute come enti morali da parte statale (fatto salvo, tuttavia l’assoggettamento alle leggi fasciste del 1929 e del 1930;
c) comunità religiose firmatarie di un’Intesa con lo Stato italiano, soggette alle disposizioni previste in tali intese e non più alle leggi fasciste del 1929-1930.
La Corte costituzionale, a partire dal 1956, anno in cui è iniziata la sua operatività, è intervenuta più volte per dichiarare incostituzionali diversi articoli della normativa fascista, tuttora vigente seppure non per tutte le confessioni religiose. Alcune di queste sentenze riconoscono i diritti alle comunità religiose, a prescindere dal fatto che siano riconosciute o meno, a fruire di diversi benefici.
Pare superfluo sottolineare che anche l’Italia, in cui la maggioranza è di formazione cattolica, è a sua volta diventata multi religiosa, specialmente a seguito dell’immigrazione, situazione sulla quale sono numerosi i contributi (per quanto riguarda i dati riguardanti le diverse fedi rimandiamo a Idos e Confronti, Dossier Statistico Immigrazione 2017, Edizioni Idos, Roma, 2017).
Questo articolo, nel settantesimo anniversario dell’entrata in vigore della Costituzione, si propone di esaminare oltre alla distinzione tra libertà di culto e libertà di organizzazione di una comunità religiosa, l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale in materia di libertà religiosa, analizzando le principali sentenze in materia che hanno stabilito alcuni princìpi cardine nel nostro ordinamento.
La giurisprudenza della Corte costituzionale evidenzia alcuni aspetti non accettabili delle norme precedenti all’entrata in vigore della Costituzione. In particolare, oltre a entrare nel merito dei princìpi e censurare disposizioni che non concordano con essi, le pronunce oggetto di questa analisi riguardano la tutela penale del sentimento religioso e quelle relative le disposizioni sul giuramento nel processi civile e penale e in particolare, in via di interpretazione sistematica dl diversi parametri di costituzionalità (artt. 2, 3, 7, 8, 19, 20 Cost.).
Dopo l’analisi, per singoli punti tematici delle sentenze della Corte, si passa a tracciare un quadro globale del suo orientamento per poi concludere con alcune riflessioni personali che sottolineano la necessità di far riferimento a questo “serbatoio di saggezza” rappresentato dal giudice costituzionale nell’ambito dell’odierna società multireligiosa.
Distinzione tra libertà di culto e libertà di organizzazione religiosa
La Consulta ha sottolineato (sentenza 59/1958) che per i culti acattolici si deve distinguere la libertà di esercizio del culto, come pura manifestazione di fede religiosa, dall’organizzazione delle varie confessioni nei loro rapporti con lo Stato. La prima facoltà è riconosciuta nel modo più ampio dall’art, 19 della Costituzione, nel senso di comprendere tutte le manifestazioni di culto, ivi indubbiamente incluse l’apertura di tempi ed oratori e la nomina dei relativi ministri.
Quanto alla libertà delle confessioni religiose diverse dalla cattolica di organizzarsi secondo i propri statuti, l’art. 8 della Costituzione pone il limite che tali statuti non contrastino con l’ordinamento giuridico dello Stato, e che i rapporti di dette confessioni con lo Stato siano da regolarsi con leggi sulla base d’Intese con le relative rappresentanze. In assenza di Intese, la normativa di riferimento è quella sui “culti ammessi”: la legge 24 giugno 1929 n. 1159 e il relativo regolamento di attuazione approvato con R. D. 28 febbraio 1930 n. 289, che la Corte Costituzionale, con alcune sentenze, ha reso conforme alla Costituzione.
In particolare, si fa riferimento agli articoli 3, 8 e 19 della Costituzione che riguardano: l’eguaglianza di tutti i cittadini senza distinzione di religione; eguali libertà delle confessioni religiose che hanno diritto di organizzarsi secondo propri statuti e i cui rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di “Intese”; il diritto di tutti (anche stranieri e apolidi) di professare la propria fede, farne propaganda e esercitare il relativo culto alla sola condizione, però, che si tratti di riti non contrari al buon costume.
Dall’analisi delle pronunce qui di seguito citate si evince come il princ^pio di laicità rappresenti uno dei cardini fondamentali dello Stato così come previsti dagli articoli della Costituzione (artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20) [[1]]. L’art. 7 della Costituzione stabilisce che «lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani».
La Corte costituzionale in relazione a questo principio ha stabilito i seguenti criteri:
a) il pluralismo confessionale (sent. 440/1995);
b) il divieto di discriminazione tra i culti (sent. 440/1995) e/o offese e reazioni sociali (sent. 329/1997);
c) la distinzione degli ordini religiosi (sent. 334/1996);
d) l’eguaglianza e l’imparzialità in relazione a tutte le confessioni religiose (sent. 508/2000).
Secondo la giurisprudenza costituzionale viola i principi di eguaglianza e libertà religiosa la normativa regionale che subordina la concessione di contributi per le confessioni religiose alla stipulazione di un’Intesa con lo Stato (sentenza 195/1993, 346/2002).
Necessaria una tutela penale imparziale del sentimento religioso
La Corte Costituzionale, con riferimento alla tutela del sentimento religioso, ha evidenziato che in relazione ai princìpi fondamentali di uguaglianza di tutti i cittadini senza distinzione di religione (art. 3 della Costituzione) e di uguale libertà davanti alla legge di tutte le confessioni religiose (art. 8 della Costituzione), l’atteggiamento dello Stato deve essere di totale e assoluta imparzialità nei confronti di queste ultime, senza che assuma rilevanza alcuna il dato quantitativo dell’adesione, più o meno diffusa, a questa o a quella confessione religiosa (sentenze nn. 925 del 1988, 440 del 1995 e 329 del 1997). Non è rilevante neppure la maggiore o minore ampiezza delle reazioni sociali che possono seguire alla violazione dei diritti di una o di un’altra di esse (ancora la sentenza n. 329 del 1997), imponendosi la stessa protezione della coscienza di ciascun individuo che si riconosce in una fede quale che sia la confessione di appartenenza (così ancora la sentenza n. 440 del 1995). Resta, comunque, salva la possibilità di regolare attraverso appositi accordi bilaterali i rapporti dello Stato con la Chiesa cattolica tramite lo strumento concordatario (art. 7 della Costituzione) e con le confessioni religiose diverse da quella cattolica tramite intese (art. 8).
Il principio di laicità, che la Corte costituzionale ha richiamato nelle sentenze nn. 203 del 1989, 259 del 1990, 195 del 1993 e 329 del 1997, caratterizza la pluralità della la forma del nostro Stato, all’interno del quale convivono uguaglianza di libertà, fedi, culture e tradizioni diverse (sentenza n. 440 del 1995).
Queste conclusioni, come si legge nella sentenza 508/2000, sono progressivamente maturate, pur partendo da proposizioni iniziali per diversi aspetti divergenti (sentenze nn. 79 del 1958; 39 del 1965; 14 del 1973), in concomitanza con significativi e convergenti svolgimenti dell’ordinamento.
Il punto 1 del protocollo addizionale all’accordo, che apporta modificazioni al Concordato lateranense (recepito con la legge 25 marzo 1985, n. 121), ha esplicitamente affermato, come prima accennato, il venir meno del princìpio della religione cattolica come sola religione dello Stato e, con le diverse Intese poi raggiunte con confessioni religiose diverse da quella cattolica, si è messo in azione il sistema dei rapporti bilaterali previsto dalla Costituzione per le altre confessioni.
In tale contesto, si è manifestata la generale richiesta allo Stato di una sua disciplina penale equiparatrice, o nel senso dell’assicurazione della parità di tutela penale (come è nel caso dell’art. 1, quarto comma, dell’intesa con l’Unione delle comunità ebraiche italiane del 27 febbraio 1987), o nel senso che la fede non necessita di tutela penale diretta, dovendosi solamente apprestare invece una protezione dell’esercizio dei diritti di libertà riconosciuti e garantiti dalla Costituzione (art. 4 dell’intesa con la Tavola valdese del 21 febbraio 1984; preambolo all’intesa con le Assemblee di Dio in Italia del 29 dicembre 1986; preambolo all’intesa con l’Unione cristiana evangelica battista d’Italia del 29 marzo 1993).
A seguito di questi svolgimenti dell’ordinamento nel senso dell’uguaglianza di fronte alla legge penale, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 402 del codice penale.
La questione del giuramento nel processo civile e penale
In relazione alle disposizioni sul giuramento nel processo civile e penale la Corte Costituzionale ha dichiarato che, al fine di assicurare pari tutela al valore della libertà di coscienza riguardo all’obbligo del testimone di impegnarsi a dire la verità, ha imposto l’estensione all’art. 251, secondo comma, cod. proc. civ., della disciplina e della formula previste dall’art. 497, comma 2, cod. proc. pen., le quali sono prive da qualsiasi riferimento a prestazioni di giuramento.
Pertanto a seguito di questa pronuncia di accoglimento, l’art. 251, secondo comma, cod. proc. civ., risulta così formulato: «Il giudice istruttore avverte il testimone dell’obbligo di dire la verità e delle conseguenze penali delle dichiarazioni false e reticenti e lo invita a rendere la seguente dichiarazione: “Consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo con la mia deposizione, mi impegno a dire tutta la verità e a non nascondere nulla di quanto è a mia conoscenza”».
Inoltre, la Corte è stata chiamata a giudicare della legittimità costituzionale del dovere del testimone di prestare giuramento tanto nel processo civile (art. 251 cod. proc. civ.) quanto in quello penale (artt. 142 e 449 cod. proc. pen. previgente), ha implicitamente riconosciuto il conflitto di tale dovere con la libertà di coscienza del testimone la cui religione di appartenenza faccia divieto di prestare comunque giuramento e, persino, di pronunciare le parole “lo giuro”.
A tale riguardo la Corte ha rilevato che la decisione comportava una pluralità di soluzioni alternative, fra le quali soltanto il legislatore, nell’esercizio del suo insindacabile potere discrezionale, era autorizzato a scegliere (come la sostituzione del “giuramento” con formule diverse, quali “l’impegno” o la “promessa”; la previsione di una formula unica ovvero la predeterminazione di due o più formule alternative la cui scelta fosse personalmente demandata al testimone, etc.), Pertanto, con la sentenza n. 234 del 1984, ha stabilito l’inammissibilità delle questioni sollevate. Analoga pronuncia è stata resa dalla Corte, nel 1985 riguardo a un’identica questione sollevata nei confronti delle norme sul giuramento del testimone nel processo penale (v. ordinanza n. 278 del 1985).
L’insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica
La Corte Costituzionale, riguardo l’insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica (con la sentenza n.13 del 1991 e 290 del 1990) ha dichiarato che non sussiste nessuna violazione dell’art.2 della Cost. «Quanto alla sua collocazione dell’insegnamento nell’ordinario orario delle lezioni». A seguito di questo orientamento il Ministero della Pubblica Istruzione ha emanato, con circolare ministeriale del 18 gennaio 1991, n.9, le istruzioni applicative della sentenza della Corte Costituzionale 13/91.
Successivamente, con la sentenza n. 297 del 2006, la Consulta, nel valutare la conformità alla Costituzione della norma impugnata (inserimento in ruolo degli insegnanti della religione cattolica), ha osservato che occorre tener conto del suo carattere eccezionale rispetto al contesto normativo in cui è inserita. Essa, infatti, disciplina il primo inquadramento in ruolo di una categoria di insegnanti che ha operato tradizionalmente con un rapporto di servizio costituito mediante incarico annuale e non in base a concorso. Solo in virtù di tale carattere eccezionale, la norma in questione sfugge al dubbio di costituzionalità, che deriva dalla riserva di tutti i posti ai soli incaricati annuali che la stessa norma ammette al concorso (sent. n. 205 del 2004).
In particolare, secondo la costante giurisprudenza costituzionale la scelta di introdurre norme del genere «è espressione di discrezionalità legislativa, non censurabile sotto il profilo del principio di parità di trattamento di cui all’art. 3 Cost., se non esercitata in modo palesemente irragionevole» (sentenze n. 136 e n. 35 del 2004, nonché n. 208 del 2002, e ordinanza n. 168 del 2001).
I tre criteri prescelti nel caso in esame (il quadriennio, l’ambito dell’ultimo decennio e la continuità) sono tra di loro congruenti e, nell’insieme, non palesemente irragionevoli. Il legislatore – nell’ambito delle possibilità di scelta compatibili con i principi costituzionali – ha ritenuto che l’espletamento continuativo, nell’ultimo decennio, per quattro anni, dell’insegnamento della religione cattolica costituisce indice di una più sicura professionalità e, su tale base ha delimitato l’accesso al concorso per la copertura dei primi posti nel ruolo organico dei docenti in argomento (analogamente sentenza n. 412 del 1988).
Pertanto, la Corte Costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, della legge 18 luglio 2003, n. 186 (Norme sullo stato giuridico degli insegnanti di religione cattolica degli istituti e delle scuole di ogni ordine e grado), sollevata, in riferimento agli articoli 3, 4, 51 e 97 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale della Puglia, sezione staccata di Lecce.
Tutela del pluralismo religioso
Da ultimo la Corte costituzionale ha evidenziato (sentenze n. 52 e 63 del 2016), che il principio di laicità come tutela del pluralismo, a sostegno della massima espressione della libertà di tutti secondo criteri di imparzialità, non esclude discipline differenti per le singole confessioni religiose, fermo restando che il principio di libertà religiosa non può essere subordinato alla stipulazione di Intese con lo Stato da parte delle confessioni religiose.
La pronuncia 63/2016 come quella immediatamente precedente (52/2016), interessa le confessioni religiose prive di un’Intesa con lo Stato e consente di svolgere qualche riflessione sulla portata del principio di uguaglianza tra le confessioni stesse.
La Corte costituzionale, in entrambe le pronunce, ha dichiarato l’incostituzionalità parziale di alcune disposizioni della legge della Regione Lombardia, sia in relazione alla questione dell’utilizzo del parametri dell’Intesa per differenziare i percorsi previsti per le diverse confessioni, sia in relazione agli aspetti dei controlli preventivi e, più in generale, in relazione al limite dell’ordine pubblico [2].
La sentenza n. 67 del 2017 riguardante la Regione Veneto, ha rilevato che nella convenzione urbanistica per la realizzazione di attrezzature di interesse comune per servizi religiosi, stipulata tra il soggetto richiedente e il comune interessato, sia previsto l’impegno ad utilizzare la lingua italiana per tutte le attività svolte nelle attrezzature di interesse comune per servizi religiosi, che non siano strettamente connesse alle pratiche rituali di culto.
La Corte ha però dichiarato l’incostituzionalità della legge della regione Veneto [3] nel punto in cui esigeva l’impegno a usare la lingua italiana per le attività urbanistiche per servizi religiosi, che non siano strettamente connesse alle pratiche rituali di culto (nel caso di specie non si poteva imporre l’uso dell’italiano nelle moschee per le attività non connesse al culto)
Per completezza espositiva si segnala anche un’interessante pronuncia della Corte Costituzionale, la sentenza 42 del 2017, che ha statuito un importante principio, ovvero la lingua italiana come elemento di identità individuale e collettiva, veicolo di trasmissione di cultura ed espressione della dimensione relazionale della personalità umana.
La Consulta con la sentenza ha ribadito
«il “principio fondamentale” della tutela delle minoranze linguistiche (art. 6 Cost.), la lingua quale elemento fondamentale di identità culturale e mezzo primario di trasmissione dei relativi valori, ovvero elemento di identità individuale e collettiva di importanza basilare. Ciò vale del pari per l’unica lingua ufficiale del sistema costituzionale – la lingua italiana – la cui qualificazione, ricavabile per implicito dall’art. 6 Cost. ed espressamente ribadita nell’art. 1, comma 1, della legge n. 482 del 1999 (in materia di tutela delle minoranze linguistiche e storiche), oltre che nell’art. 99 dello Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige, non ha evidentemente solo una funzione formale, ma funge da criterio interpretativo generale, teso a evitare che altre lingue possano essere intese come alternative alla lingua italiana o comunque tali da porre quest’ultima in posizione marginale. (Precedenti citati: sentenza n. 88 del 2011, sulla tutela delle minoranze linguistiche come “principio fondamentale”; sentenze n. 62 del 1992, n. 15 del 1996, sul valore identitario della lingua; sentenza n. 28 del 1982, sull’italiano come “unica lingua ufficiale del sistema costituzionale”; sentenza n. 159 del 2009, sul primato della lingua italiana e sul rapporto con essa delle lingue minoritarie protette)»
Una sintesi della giurisprudenza costituzionale sulla libertà religiosa
In sintesi il costante orientamento giurisprudenziale costituzionale ha evidenziato il principio per il quale la libertà religiosa rappresenta un requisito essenziale per il credo religioso, non può essere subordinata alla realizzazione di accordi con le altre confessioni religiose (C.f.r. sentenza 52 e 63 del 2016).
Il libero esercizio del culto rappresenta un elemento importante della libertà religiosa (art. 19 Cost.) riconosciuta equamente a tutti e a tutte le confessioni religiose (art. 8, commi primo e secondo, Cost.), a prescindere dalla stipulazione di un’intesa con lo Stato. L’apertura di luoghi di culto rientra nella tutela statuita dall’art. 19 Cost., che riconosce a tutti il diritto di professare la propria fede religiosa, in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitare in privato o in pubblico il culto, con il solo limite dei riti contrari al buon costume.
Il principio di laicità deve essere inteso come tutela del pluralismo religioso, attraverso il criterio della imparzialità, con la possibilità dello Stato di disciplinare i rapporti con le altre confessioni religiose come stabilito agli artt.7 e 8 della Costituzione.
Nella relazione dell’anno giudiziario della Corte Costituzionale del 2017 si legge che:
«per il soddisfacimento di esigenze specifiche, ovvero per concedere particolari vantaggi o imporre particolari limitazioni, o ancora per dare rilevanza, nell’ordinamento dello Stato, a specifici atti propri della confessione religiosa (da ultimo, sentenze n. 52 e n. 63 del 2016). Ciò che al legislatore (nazionale e regionale) non è consentito è “operare discriminazioni tra confessioni religiose in base alla sola circostanza che esse abbiano o non abbiamo regolato i loro rapporti con lo Stato tramite accordi o intese”. Come questa Corte ha recentemente affermato, “altro è la libertà religiosa, garantita a tutti senza distinzioni, altro è il regime pattizio” (sentenza n. 63 del 2016, con richiamo alla sentenza n. 52 del 2016). Altresì consolidato è il principio per cui la disponibilità di spazi adeguati ove “rendere concretamente possibile, o comunque [...] facilitare, le attività di culto” (sentenza n. 195 del 1993) rientra nella tutela di cui all’art. 19 Cost., il quale riconosce a tutti il diritto di professare la propria fede religiosa, in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitare in pubblico o in privato il culto, con il solo limite dei riti contrari al buon costume (sentenza n. 63 del 2016)». Così la sentenza n. 67.
La Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità parziale di alcune disposizioni della legge della Regione Lombardia sia in relazione alla questione dell’utilizzo del parametro dell’intesa per differenziare i percorsi previsti per le diverse confessioni sia con riferimento agli aspetti dei controlli preventivi e, più in generale, del progressivo arretramento dell’operatività del limite dell’ordine pubblico [4].
Dall’esame dell’evoluzione della giurisprudenza costituzionale si evince dunque un’ampia tutela della libertà di non scegliere alcuna religione. In particolare, dagli artt. 3 e 19 Cost. risulta che i cittadini siano discriminati per motivi di religione e che il pluralismo religioso limiti la libertà negativa di non professare alcuna religione. Le decisioni della Corte costituzionale dalla s. n. 117/1979 si fondano sul principio di eguaglianza, sia dei singoli che delle formazioni sociali in cui si svolge la loro personalità.
Il legislatore deve dunque tenere conto della neutralità e dell’imparzialità dello Stato davanti alle diverse confessioni religiose, alla sua incompetenza a sindacare il merito delle professioni di fede, o all’autonomia statutaria e organizzativa delle confessioni stesse.
La libertà religiosa è pietra angolare di una visione generale della libertà, come della dignità della persona umana: ed essa va vista oggi come risorsa preziosa per garantire ed estendere le possibilità di pace, dialogo e collaborazione internazionale, nonché, in ogni Paese democratico, di arricchimento e rinnovamento della vita sociale e della politica sul piano spirituale e morale: così ha sottolineato l’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in un intervento effettuato al Senato il 5 maggio 2016 [5].
Conclusioni: l’importanza dei principio di libertà religiosa in una società multietnica
L’Italia, da diversi anni ha superato i cinque milioni di residenti stranieri, è sicuramente un Paese multietnico e anche multireligioso, in una maniera quantitativamente più rilevante rispetto al periodo della grande immigrazione degli ultimi trent’anni.
Giustamente la Corte Costituzionale ha osservato che i principi vanno garantiti anche quando riguardano un ristretto numero di persone appartenenti a determinate comunità religiose: a maggior ragione ciò deve avvenire quando è elevato è il numero delle persone che non seguono la religione cattolica, di gran lunga prevalente in Italia,
Purtroppo, quando si parla della gestione dell’attuale fase migratoria, raramente si parla dei principi evidenziati dalla Corte e più di quote da ammettere, norme per l’insediamento, condizioni per la permanenza, espulsioni, tutela dell’ordine pubblico.
In questo modo sfugge che l’ordine pubblico e la pacifica convivenza si tutelano innanzi tutto con il rispetto del principio della laicità dello Stato e quello del pluralismo religioso. Questo cammino, iniziato con la riforma di Lutero (e qualche prodromo negli autori del Rinascimento), si è consolidato dopo le lunghe e sanguinose guerre di religione del XVII secolo, con l’Illuminismo del XVIII secolo e la Rivoluzione francese. Inoltre ha trovato fecondi spunti di approfondimento nei movimenti socio-culturali-giuridici successivi, interrotto nella sua traiettoria dalle ideologie totalitarie della prima metà del XX secolo (comunismo, fascismo, nazismo). Infine ha ripreso vigore nel dopoguerra con un riconoscimento formale da parte delle Nazioni Unite nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e, finalmente (dopo l’oscuro periodo del Medioevo) con un apporto straordinario della Chiesa cattolica che nel 1962-1965 ha celebrato il Concilio Vaticano) così ricco di valide impostazioni anche sul tema della libertà religiosa.
Tutto questo per sottolineare che la convivenza sociale è basata su solidi principi, una consapevolezza che viene spesso a mancare e potrebbe in tal modo causare molti effetti negativi. Le sentenze della Corte costituzionale sulla materia, qui sommariamente riportate, ci ricordano questa grande lezione.