di Nuccio Zicari
Premessa prima. Chi scrive non è un giurista né un giurato, ma un uomo libero con un grande rispetto della Legge, fondamento essenziale della società civile.
Premessa seconda. Chi scrive crede fortemente che la società degli uomini faccia parte di un sistema più ampio e complesso, il sistema Natura, caratterizzato dall’assenza di leggi create per regolamentarlo, eppure perfettamente organizzato e operante secondo un solo principio, quello della sopravvivenza.
Se l’obiettivo di questo scritto fosse di rendere dotti in materia, ammetto avrei già fallito. Ma il mio intento è molto meno alto, invero quello di suscitare un moto di riflessione nel lettore. Uomini di legge, pertanto non me ne vogliate se troverete inesattezze o velleità non riconducibili a codici. Se è troppo o troppo poco, passate oltre.
È necessario dare un nome alle cose. Legalità e Giustizia non sono la stessa cosa. La Legalità è la capacità di uno Stato di darsi delle regole, delle leggi scritte e di rispettarle. La legalità è lo strumento della Giustizia, non suo sinonimo. La Giustizia è un valore, un equilibrio morale nei rapporti tra gli uomini e tra essi e la natura. Perché è doveroso questo chiarimento?
La storia dell’uomo è costellata da tanti interventi di legalità che hanno rischiato o sono stati ingiusti, da iniziative di giustizia mosse perfino al di fuori della legalità. A partire dalla fine del XVII secolo in molte delle tredici colonie e successivamente in buona parte degli Stati federati degli Stati Uniti d’America, vennero emanate le Leggi Anti-miscegenazione, una serie di atti legislativi contro la mescolanza razziale volti all’imposizione della segregazione razziale a livello matrimoniale o di rapporti intimi, con la penalizzazione del matrimonio interrazziale e talvolta anche dello stesso rapporto sessuale tra i membri di diverse razze, estese poi a tutto gli ambiti della vita civile. Solo grazie all’impegno civile e alle battaglie guidate dal movimento di Martin Luther King, dal presidente John F. Kennedy e poi dal successore Lindon B. Johnson con l’appoggio decisivo di Bob Kennedy, si ottenne l’approvazione del Civil Rights Act del 1964 che abrogò la discriminazione razziale in America. Esse rimasero comunque in vigore fino al 1967 quando, con il caso “Loving contro Virginia”, la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America le ritenne incostituzionali.
Nel 1935 il Partito Nazionalsocialista tedesco in Germania emana le Leggi di Norimberga: la legge per la protezione del sangue e dell’onore tedesco; la legge sulla cittadinanza del Reich; la legge sulla bandiera del Reich. Queste tre leggi che rappresentano l’ossatura su cui verrà fondato lo Stato nazista di Hitler, autorizzarono lo sterminio di 6 milioni di ebrei, 3.5-4 milioni tra polacchi-ucraini-bielorussi, 3 milioni di sovietici, 1.5-2 milioni di politici, 340-375 mila serbi-sloveni, 196-300 mila rom, 250-270 mila disabili, 5-15 mila tra omosessuali-testimoni di Geova-afroeuropei. Saranno annullate solo il 20 settembre 1945 dalla Legge n.1 della Commissione alleata di controllo.
Dal 1936-38 fino alla seconda metà degli anni trenta è il periodo delle Grandi Purghe di Stalin in URSS (ex Unione Sovietica). Il grande terrore (большой терро, o ежовщин), fu un insieme di processi basati sull’articolo 58 del Codice penale della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa volti a considerare reati e reprimere con procedimenti giudiziari sommari tutti i dissidenti del Partito Comunista. Tale articolo, suddiviso in quattordici commi, prevedeva la pena di morte per diverse fattispecie, la cui formulazione, volutamente generica, era concepita al fine di favorire l’accusa; gli imputati vennero costretti a confessare colpe non commesse, dopo aver subito pressioni psicologiche e torture fisiche. Secondo gli archivi della NKVD nel 1936 vennero condannate a morte 1.118 persone, nel 1937 e nel 1938 circa 190 mila. Per l’intero periodo 1921-53 i condannati a morte per controrivoluzione furono circa 340 mila, di cui circa 225 mila durante il periodo delle purghe staliniane 1936-1939.
Fra 1938 e il primo quinquennio degli anni quaranta in Italia, inizialmente il Regime Fascista e poi la Repubblica Sociale Italiana, emanano le Leggi Razziali Fasciste. Leggi basate sul Manifesto della Razza, volte prevalentemente a privare di ogni diritto le persone ebree. A seguito della loro entrata in vigore circa 7.500 ebrei italiani persero la vita (13% dei cittadini italiani di “razza ebraica”) dopo i primi rastrellamenti tedeschi, circa 10 mila i deportati politici italiani, 40-50 mila internati militari italiani perirono nei campi di lavoro e di concentramento nazisti. Furono abrogate con i Regi decreti-legge n. 25 e 26 del 20 gennaio 1944.
Il 17 settembre 1942 la Repubblica di San Marino emana la legge n. 33, Legge Razziale Sammarinese, contenente provvedimenti in materia matrimoniale e in difesa della razza. Poneva limitazioni alla facoltà di contrarre nozze in presenza di fattori legati alla razza degli sposi e alle rispettive nazionalità. Viene abrogata con Decreto del 12 agosto 1946 n. 44.
Nel 1948 la politica di segregazione razziale istituita dal governo di etnia bianca del Partito Nazionale del Sudafrica, rappresentato dal primo ministro Daniel François Malan, emanò le Leggi sull’Apartheid. 3,5 milioni di uomini e donne di colore ed etnia bantu furono sfrattati con la forza dalle loro case e deportati nei bantustan (territori del Sudafrica e della Namibia assegnati alle etnie nere dal governo sudafricano). Furono privati di ogni diritto politico e civile, e poterono frequentare per acquisire un’istruzione esclusivamente in scuole agricole e commerciali speciali. I negozi erano obbligati a servire tutti i clienti di etnia bianca prima di quelli di etnia nera. Questi ultimi, inoltre, dovevano avere speciali passaporti interni per muoversi nelle zone riservate alle etnie bianche, pena l’arresto. Bisogna attendere le lotte di Stephen Biko, la liberazione e la successiva elezione a capo dello Stato di Nelson Mandela per decretare la fine di questo drammatico periodo e l’inizio di una nuova era.
È notizia di qualche giorno fa, l’istaurazione del nuovo governo talebano subentrato al ritiro delle truppe statunitensi in Afghanistan. Dopo il crollo del governo filoamericano di Kabul, il nuovo primo ministro e leader religioso Mullah Hibatullah Akhundzada ha annunciato la nuova linea governativa secondo la concezione della sharia, la Legge Islamica, declinata in urf, dowd e deen (costumi, tradizione e fede) del Pashtun Wali (il Codice tribale). Tale legge oltre a prevedere una sola etnia, quella pashtun, proclama un unico gruppo di potere che annovera alcuni dei più pericolosi ricercati nelle liste di terroristi dell’Onu, Cia e Fbi. La principale forma di legale discriminazione prevista colpisce le donne afghane, escluse dalla vita politica, private di ogni libertà, dal divieto di indossare scarpe bianche e tacchi (considerati accessori appariscenti ed erotici), al divieto di ascoltare musica, praticare sport, all’obbligo di frequentare scuole e luoghi di lavoro separate dagli uomini; fino alla prigione corporale di coprire ogni centimetro del loro corpo lasciando esposti solo gli occhi. Quanto agli uomini è fatto divieto di indossare jeans e abiti occidentali, di radere la barba, di suonare strumenti musicali, di praticare qualunque attività culturale al di fuori della sharia. Questi esempi storici e contemporanei sono leggi, la cui osservanza rientra nel rispetto della legalità, la mancata osservanza nella pena. Allora viene da chiedersi dove sia finita la Giustizia.
«L’idea di giustizia sempre splende nella decantazione di vendicativi pensieri» [1]. Sono parole di Leonardo Sciascia, un uomo che di Legalità e Giustizia ha fatto larga parte del proprio libero pensiero, fino a pagarne anche le conseguenze. Davanti ad un fatto che ci nuoce è consuetudine comune usare esclamazioni come – È un’ingiustizia! – Ho fame e sete di giustizia! – Se non ci penserà qualcuno, mi farò giustizia da me. Fin da tempi atavici gli uomini hanno cercato di farsi giustizia da soli, spesso mossi da un sentimento di vendetta per un torto subito. Questo agire, cane contro cane, poteva essere compreso in assenza di un sistema di leggi e di pene, di un organismo volto a farle rispettare. Eppure anche questi comportamenti, che possono sembrare barbarie, sono stati codificati già in età antica con la Legge del Taglione, un principio di diritto che consiste nella possibilità riconosciuta a una persona che avesse ricevuto intenzionalmente un danno causato da un’altra persona, di infliggere a quest’ultima un danno, uguale all’offesa ricevuta. Già nel Codice di Hammurabi (XVIII sec a.C.); poi ripreso nelle dodici tavole del Diritto Romano Arcaico (753-450 a.C), nel Diritto Germanico; perfino nel Levitico dell’Antico Testamento si trova la locuzione Occhio per occhio, dente per dente; per non parlare del Fiqh del Diritto Islamico, vigente fin dai tempi di Maometto e ancora oggi applicato in talune regioni.
Per tornare a Sciascia, nel suo controverso articolo I professionisti dell’antimafia [2], comparso il 10 gennaio 1987 sulla terza pagina del Corriere della Sera, l’autore non lesina di fare il nome di Paolo Borsellino tra questi. Quello che per molti fu preso come un attacco verso i pilastri del pool antimafia, in riletture più recenti sarebbe da rintracciare in un intento più alto dell’autore. Da Le Parrocchie di Regalpetra [3] a Gli zii di Sicilia, da Il giorno della Civetta [4] fino all’intervista del 1970 con Giampaolo Pansa sulla linea della palma, Sciascia non disattende mai il suo intento di verità, di disvelo del sistema mafioso, di condanna della mafia. Profetico sì, ma anche eretico lo definisce Felice Cavallaro [5] nel suo ultimo libro, e quindi pronto a denunciare tutto e tutti, a pagarne anche le conseguenze, pur di lasciare intatto quel cordone ombelicale che lo lega a stretto giro al rispetto assoluto della legalità.
«Tante cose si fanno per il bene degli altri che diventano il male degli altri e il proprio» [6]. Pochi giorni fa è stato condannato in primo grado a 13 anni e 2 mesi l’ex sindaco di Riace, Mimmo Lucano, nell’ambito del processo Xenia. Pena, la cui sproporzione difficilmente confutabile, assimila Lucano ad un criminale mafioso o ad uno stupratore seriale.
Non entrerò, vox populi, nel merito della presunta strumentalizzazione politica del processo. Un processo è un processo. Se la politica diventa processo, allora chi processerà la politica? Ad essere condannate sono state le modalità con le quali si è costruito il cosiddetto Modello Riace. Un sistema di accoglienza che consiste in diverse azioni intraprese nel corso degli anni: dall’adesione al sistema SPRAR, all’ottenimento di fondi regionali e mutui per la ristrutturazione di case dismesse; collaborazioni con realtà associative per dare accoglienza e ospitalità ai rifugiati e ai richiedenti asilo affinché potessero lavorare nel comune attraverso laboratori artigiani di tessitura, lavorazione del vetro, confettura; fino alla creazione di una moneta locale, l’euro di Riace, una sorta di bonus di spesa del taglio di 1, 2, 10, 20, 50 e 100 euro utilizzabile anche dai turisti. Nel 2017, il modello coinvolgeva 550 migranti ospitati a Riace, ma dalla cittadina ne erano passati almeno 6000.
A fronte del successo di tale sistema, nel 2010 Mimmo Riace viene premiato al terzo posto nella World Mayor (migliori sindaci al mondo). Perfino la celebre rivista Fortune nel 2016 lo annovera al quarantesimo posto tra i leader più influenti al mondo. Allora perché Mimmo Lucano è stato condannato? Perché ha infranto la legge. Per realizzare questo modello virtuoso di solidarietà, riconosciuto in tutto il mondo, ha commesso dei reati, almeno secondo la sentenza in primo grado (in attesa dei successivi gradi di giudizio).
«Non è il fine che giustifica i mezzi, sono i mezzi a giustificare il fine». Appena una settimana prima della notizia di Lucano, mi trovavo nel soggiorno di casa con Giuseppe Grillo, Peppe, un caro amico penalista, un fratello per me, quando pronuncia questa frase. Come spesso accade in questi incontri, si inizia a parlare di un fatto di vita per poi estenderlo ai massimi sistemi. La sera prima avevo partecipato ad una interessante serata in cui il giudice Leonardo Guarnotta, membro del pool antimafia del Maxiprocesso di Palermo, presentava il suo libro C’era una volta il pool antimafia [7]. Ammetto che in un primo momento quella frase mi suonò tanto affascinante quanto ostile, poi capii. In quella rilettura sprezzante di Machiavelli, compresi quanto metodico e puntuale debba essere l’insieme di meccanismi innescati nella mente di un uomo di legge, un insieme di ingranaggi ben oleati ognuno al proprio posto; quanto essenziale sia che un processo si chiami processo, un procedere di passaggi, uno dopo l’altro, che non deve ammettere salti né anticipazioni, nel rispetto delle regole vigenti e delle parti coinvolte. Solo adoperando questi mezzi e non altri si deve raggiungere il fine. Il rischio che si correrebbe a non seguire le leggi, indipendentemente da un fine nobile o miserevole, sarebbe quello di creare un precedente illegittimo. Il processo è un presidio della legge insomma. Penso sarebbe stato d’accordo Sciascia.
Mimmo Lucano, consapevole o no, è stato più machiavellico. In nome del suo fine umanitario, solidale, non sembra aver badato troppo ai mezzi, avrebbe agito più per giustezza che per giustizia. Quindi questo ne farebbe un colpevole.
«Fa una bella differenza, insomma, capire se si addebitano ingiustamente a Lucano fatti da costui mai commessi, o se invece, pacifici essendo i fatti, si discute se condotte obiettivamente e dolosamente violative della legge meritino di essere giustificate da superiori motivazioni etiche e di solidarietà sociale, e perciò non punite. C’è un mondo valoriale nel perseguimento del quale si è unilateralmente persuasi che non sia lecito opporre il vincolo del rispetto della legalità. Una postulazione schiettamente ideologica, condivisibile o meno ma certamente estranea alle tematiche del diritto e del processo. E questo spiega con chiarezza la ragione per la quale le persone che la hanno così vibratamente espressa sono le stesse – fatta salva qualche eccezione – che non hanno detto una parola, per esempio, dopo la recente sentenza di assoluzione nel processo sulla Trattativa Stato-Mafia…non una sola parola di solidarietà nei confronti del Generale Mori, vittima – insieme ai Mannino, ai Di Donno e a tanti altri – di decenni del più insensato accanimento giudiziario e mediatico andato in scena nelle aule di giustizia del nostro Paese» [8].
Così scrive Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione delle Camere Penali italiane, nella sua analisi sulla condanna inflitta all’ex sindaco di Riace. La giustizia non può, non vuole, non deve mettersi a fare i conti di tutti. Se giustizia e legalità così sovente non vanno a braccetto, come si possono conciliare allora queste due esigenze?
La legalità è la stretta e fredda osservanza delle leggi scritte, per quanto indispensabile essa sia per assicurare il mantenimento dell’equilibrio di una società, di uno Stato, dalla minaccia del caos anarchico dei singoli, forse non basta. Non basta perché anche l’osservanza di tutte le leggi scritte di questo mondo non rende i poveri meno poveri, gli esclusi più inclusi, gli emarginati più accettati. La presenza di un sistema di leggi rappresenta di certo un terreno fertile per crescere in tutela dei diritti di tutte le categorie ma non è ancora sufficiente, ci vuole qualcosa di più che avvicini la legalità alla giustizia; questo qualcosa di più è da rintracciarsi nell’impegno civile per una società più equa, affinché si creino pari opportunità per tutti.
Art. 3
«Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
In questa direzione, l’art. 3 della Costituzione italiana, da diritto inteso come cristallizzazione della condizione esistente e degli equilibri di potere consolidati, assume una funzione dinamica, traccia un percorso scolpito nella Carta costituzionale che ha come obiettivo la giustizia, la crescita nell’uguaglianza, la solidarietà di tutti i cittadini in quanto esseri umani. Auspica una democrazia emancipata ed emancipante, che garantisca una vita decorosa per tutti, per gli anziani, per i malati, per i tossicodipendenti, per gli immigrati onesti che vogliono onestamente vivere nel nostro Paese, per i giovani e per il loro futuro.
Se è vero che la legalità va con le regole e la giustizia va con i valori, è altrettanto vero che in quanto valore essa necessita di continui aggiornamenti nelle sue modalità espressive, perché la società stessa è in continua evoluzione, cambiano i rapporti, si conoscono nuove conquiste tecnologiche, si aprono nuovi scenari, si sperimentano nuovi lavori; pertanto la giustizia andrebbe rimodulata nei suoi strumenti, è una conquista quotidiana la sua conservazione. Seguendo questa via forse la legalità potrebbe finalmente ridurre il suo scarto rispetto alla giustizia.
La storia ci insegna che può esistere una dittatura nel pieno rispetto della legalità, parimenti è condannato l’agire etico illegale. Allora se è utopico pensare ad una società nella quale legalità, giustizia ed etica coesistano, non sarebbe perfino meglio vivere in un mondo naturale privo di leggi basato solo sull’istinto a sopravvivere? Come le piante e gli animali.
Dialoghi Mediterranei, n. 52, novembre 2021
Note
[1] Leonardo Sciascia, Gli zii di Sicilia, Einaudi, Torino, 1958: 241
[2] https://www.archivioantimafia.org/sciascia.php
[3] Leonardo Sciascia, Le parrocchie di Regalpetra, Laterza, Bari-Roma, 1956
[4] Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta, Einaudi, Torino, 1961
[5] Felice Cavallaro, Sciascia l’eretico, Solferino, Milano, 2019
[6] Leonardo Sciascia, Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia, Einaudi, Torino, 1977: 108
[7] Leonardo Guarnotta e Attilio Bolzoni, C’era una volta il pool antimafia, Zolfo editore, Milano, 2020
[8] L’analisi del presidente dell’Unione delle Camere Penali italiane Gian Domenico Caiazza sulla condanna inflitta all’ex sindaco di Riace (https://www.ildubbio.news/2021/10/06/viva- leresia-di-lucano-ma-la-giurisdizione-e-il-giudizio-sui-fatti-e-non-la-lista-di-buoni-e-cattivi/)
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Nuccio Zicari, si laurea in ambito medico per poi diplomarsi all’Accademia Internazionale di Fotografia John Kaverdash di Milano. Il suo principale interesse è l’aspetto documentario, antropologico, sociale e umanitario della fotografia, sia nel racconto di storie intime che nei progetti a lungo termine di interesse collettivo. Nel 2017 il suo lavoro HUMANITY WITHOUT BORDERS, frutto di tre anni di reportage sulle migrazioni nel Mediterraneo, viene inserito all’interno della Italian Collection del Premio Voglino, piattaforma che celebra ogni anno le più importanti storie fotografiche degli autori italiani. Nello stesso anno partecipa ad una missione umanitaria con la Nyumba Yetu Onlus in Tanzania, dalla quale nasce il libro HADITHI racconti d’Africa. Al momento sta lavorando ad un progetto sperimentale di documentazione fotografica e multimediale della crisi socio-sanitaria da coronavirus in corso, dal nome C-DIARY, avvalendosi dell’uso del social network Instagram I suoi lavori sono stati esposti in Italia e all’estero e pubblicati su riviste nazionali, internazionali e su testi universitari. Dal 2019 scrive articoli per riviste di approfondimento culturale.
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