L’ucronia, pur vantando delle origini illustri intersecate con lo sviluppo della metodologia storiografica, è uno dei sottogeneri più noti della fantascienza e della letteratura postmoderna contemporanea [1], sempre più diffuso (nelle sue varie forme) su diversi media, non solo letterari. Questa tipologia narrativa è incentrata su un jonbar point o nexus event, ossia su uno scenario in cui uno o più eventi storici si sono svolti con esiti differenti rispetto a quelli noti e assodati. Tralasciando le narrazioni incentrate sul viaggio nel tempo o sugli universi paralleli, le ucronie pure si dividono fra quelle il cui focus è la descrizione dettagliata del jonbar point (definite da Hellekson nexus stories) [2] e quelle ambientate in un mondo profondamente mutato da questa divergenza nel passato storico.
A differenza degli ambiti anglofono e francofono, che rappresentano i due corpus allostorici maggiori in Occidente, l’ucronia italiana si sviluppa con un certo ritardo, a partire da un romanzo satirico prodotto all’interno degli ambienti della destra radicale: Benito I imperatore di Marco Ramperti (1950). Successivamente, la particolare suggestione fantastorica di un fascismo sopravvissuto al conflitto diventa sicuramente lo scenario più diffuso in Italia, al di là di vari casi notevoli e isolati – fra cui il più noto romanzo del genere, Contro-passato prossimo di Guido Morselli (1973).
La principale particolarità del caso italiano consiste nel fatto che, nonostante l’esito alternativo della Seconda Guerra Mondiale sia uno dei più diffusi nella produzione ucronica degli ultimi cinquant’anni, raramente all’estero la divergenza ucronica è basata su un fascismo vittorioso, considerata come un’eventualità storica estremamente implausibile. Infatti, in quasi tutte le opere del genere, sono sempre le altre due potenze dell’Asse – Germania e Giappone – a risultare quelle egemoni, relegando l’Italia fascista in un ruolo di subalternità persino in queste prospettive allostoriche.
In secondo luogo, la singolarità italiana riguarda anche gli aspetti linguistici delle ucronie di ambientazione fascista: è noto infatti il ruolo della retorica nella costituzione di uno Stato totalitario, soprattutto nel caso di un regime fortemente mediatico come quello fascista. Le conseguenze linguistiche del fascismo non potevano perciò che ricadere, in modalità diverse, sulle ucronie italiane. Bisogna sottolineare tale aspetto come elemento di novità delle narrazioni italiane ucroniche, rispetto agli esempi anglo-americani o francesi, perché in quegli ambiti culturali la tematica di un esito alternativo alla conclusione della Seconda Guerra mondiale è affrontata dal punto di vista dei vincitori. L’originalità dei casi italiani è quindi dovuta al fatto che la linea temporale alternativa è vista dalla prospettiva dello sconfitto. Inoltre, bisogna evidenziare come in Germania non si sia sviluppata una narrativa simile, probabilmente a causa della condanna più drastica e netta, rispetto a quanto avvenuto nel nostro paese, della passata dittatura.
Di conseguenza, le principali ucronie di ambientazione nazista, essendo state scritte dai vincitori, sono tradotte, ovvero gli aspetti retorici del totalitarismo tedesco, se presenti, non possono essere rappresentati in madrelingua. Una significativa eccezione è rappresentata da The Man in the High Castle (Dick, 1962). Dick, soprattutto grazie all’influenza di Orwell (si pensi al newspeak), è molto attento agli aspetti linguistici delle sue rappresentazioni distopiche. Ad esempio, in questo romanzo, gli Stati Uniti sono divisi in due: i nazisti controllano la costa orientale e i giapponesi quella occidentale. La lingua inglese viene perciò reinventata, ibridata a Est con il tedesco e la retorica nazista, e a Ovest con il giapponese e la cultura orientale, mescolandosi con essa [3]. La particolarità delle allostorie fasciste italiane è ancora più evidente: c’era la possibilità di giocare con gli stereotipi linguistici del regime, sia con esiti mimetici che parodistici, all’interno dello stesso ambito linguistico.
Nelle seguenti brevi note linguistiche è stato selezionato un corpus di testi ucronici di ambientazione fascista di varia natura e origine. Si è deciso di tralasciare il primo romanzo ucronico italiano, Benito I imperatore, poiché Ramperti è stato uno scrittore piuttosto famoso durante il Ventennio ed è, dunque, pienamente inserito in quella dimensione retorica. I casi successivi, essendo prodotti in un mondo ormai parecchio cambiato, risultano più interessanti.
Da un lato troviamo le opere prodotte da Settimo Sigillo, una casa editrice legata alla destra radicale: si tratta del filone fantafascista, inaugurato da Gianfranco de Turris con un’antologia di racconti ucronici di vari autori, preparata a partire dagli anni Novanta, ma pubblicata da Settimo Sigillo solo nel 2000, con il titolo Fantafascismo! Storie dell’Italia ucronica. La raccolta era stata preceduta da altre due opere fantafasciste edite presso Settimo Sigillo: Gli Anni dell’Aquila. Cronache dell’Ur-Fascismo 1922-2422 di Errico Passaro (1996), fortemente apologetico, e L’estate e l’inverno: un’avventura nella Repubblica fascista del Nord di Maurizio Viano (1999), un romanzo dai toni crepuscolari, pubblicato in volume assieme a un’altra ucronia di Pierfrancesco Prosperi, Supplemento d’indagine. L’antologia è importante anche perché contiene il racconto Occidente di Mario Farneti, che sarà alla base di una trilogia di romanzi: il primo, dal titolo omonimo ed edito nel 2001 per Nord, attualmente è forse il romanzo italiano allostorico più noto, dopo Contro-passato prossimo di Morselli.
Oltre a questo corpus di opere che rappresentano, in varia misura, il fascismo sotto un’ottica positiva, ne sono esaminate altre tre in cui la considerazione del regime risulta invece critica: Asse pigliatutto di Lucio Ceva, una nexus story del 1973 focalizzata sugli aspetti militari dell’eventuale vittoria fascista (la prima nel suo genere in Italia); Nero italiano di Giampietro Stocco (2003), un noir ambientato in un’Italia fascista degli anni Sessanta, in cui il regime era sopravvissuto grazie alla neutralità durante il conflitto; e L’inattesa piega degli eventi, il primo episodio dell’Epopea fantastorica italiana di Enrico Brizzi (2008), in cui un fascismo trionfatore nella Seconda Guerra Mondiale è rappresentato attraverso un punto di vista fortemente critico e apertamente postcoloniale [4].
Senza pretese di esaustività, in questa sede ci si limita a evidenziare alcuni aspetti linguistici notoriamente legati alla retorica del Ventennio, cercando di offrirne una minima casistica, a prescindere dalla loro ispirazione ideologica.
Una costante assoluta e trasversale in tutte le opere analizzate è il focus sull’ossessione fascista per il voi in luogo del lei [5]. È un tratto che viene evidenziato praticamente in tutte le narrazioni, anche se in modalità diverse. Il caso di Asse pigliatutto è notevole perché l’uso del voi (come del resto tutti gli aspetti linguistici del fascismo) viene circoscritto alle lettere ufficiali del protagonista, il generale Doriani [6], o ai suoi dialoghi con il Duce e gli altri gerarchi; invece, lui e i colleghi si danno tranquillamente del lei. Va specificato che, a differenza degli altri testi, la storia si svolge negli anni in cui il voi viene imposto [7].
Nelle narrazioni fantafasciste della Settimo Sigillo, invece, da un lato si ha l’esempio del rigido “fascismo eterno” di Passaro, in cui l’uso persiste persino dopo cinquecento anni di regime [8], dall’altro gli esempi di Viano [9], o del racconto di Prosperi in cui certamente sopravvive [10], ma con una nota meno enfatica, quasi volta a evidenziare il carattere irrimediabilmente arcaico di questo uso sia nella Repubblica fascista del Nord descritta da Viano, sia nell’Italia “franchista” governata da Ciano in Prosperi. In questi due casi, l’uso è circoscritto alle occasioni ufficiali: una cerimonia di premiazione nel romanzo di Viano e una conferenza stampa nel racconto di Prosperi. Va segnalato come nell’impero fascista della saga di Occidente l’uso sia praticamente scomparso [11]. mentre nei cicli ucronici di Stocco e Brizzi (per niente apologetici o nostalgici del Ventennio) l’alternanza fra il voi e il lei sia adoperata per rimarcare l’inevitabile modernizzazione del regime fascista negli anni Sessanta. In Stocco, l’uso del voi è apertamente ridicolizzato anche dai gerarchi più (apparentemente) progressisti [12], mentre se in Brizzi permane come forma di cortesia principale, tanto che Lorenzo Pellegrini, il protagonista, si stupisce quando viene apostrofato con il lei (peraltro da un simpatizzante dell’antifascismo) [13], la società immaginaria dell’Epopea è sufficientemente informale da consentire un larghissimo uso del tu.
Tratti stilistici e linguistici
Il discorso sugli altri tratti tipici della retorica fascista risulta un po’ più complesso e polifocale. Un caso limite è rappresentato proprio dalla prima narrazione fantafascista (escludendo il caso singolare di Asse pigliatutto), cioè Gli anni dell’aquila di Errico Passaro (1996): una parte consistente dello stile complessivo dell’opera è davvero vicino alla retorica fascista. Se in certi casi, questa tendenza può sembrare giustificata dal contesto narrativo (come le pagine fittizie del diario di Evola), lungo l’intero corso dell’opera non risulta sempre necessario, appesantendone lo stile in modo forse eccessivo. Infatti, è sufficiente sfogliare il testo per trovare diverse occorrenze tipiche del linguaggio e della retorica del Ventennio: aggettivazione invertita per conferire una sfumatura enfatica (comune Patria, pag. 19, ineffabile fiducia, pag. 89), aggettivazione sovrabbondante (forme algide, drastiche, disadorne, pag. 124, baratri senza echi, paradossali, sinistri, eleganti, metaforici, lucidi, integri, pag. 148), lessico legato ai campi semantici tipici [14] (volontà d’acciaio, pag. 19, vigoreggiando, pag. 83, atteggiamento attendista, pag. 99), e quindi abbondanza di lemmi ampollosio arcaizzanti (vaniloquio, pag. 39, prestidigitatore, pag. 56, prosieguo, pag. 83, luminiscenza, pag. 140), infine figure retoriche adoperate per precise sfumature ritmico-foniche, come soprattutto l’anafora (Avrebbe voluto festeggiare… avrebbe voluto profondità e silenzio, pag. 124).
Oltre questo esempio estremo, gli altri testi del filone fantafascista usano elementi della retorica del regime per ragioni precise e circoscritte, adoperando in generale uno stile più piano e meno enfatico. In L’estate e l’inverno (Viano, 1999), ad esempio, simili elementi sono condensati soprattutto durante la cerimonia ufficiale in chiusura del romanzo a cui abbiamo già accennato (alfine, debbo chiedermi, costui,comune agricoltore, pag. 129). Anche negli altri testi, la mimesi del linguaggio fascista è concentrata sugli episodi formali in cui è richiesta dal contesto una simile sfumatura retorica; si pensi, ad esempio, alle lettere di Doriani in Asse pigliatutto: «Il ritmo sempre più veloce che nel Vostro inesauribile dinamismo Voi imponete agli eventi richiede un costante adeguamento tra evoluzione e preparazione militare. / È noto, e non vale la pena di insistervi, che il voler essere pronti dappertutto e per tutte le evenienze conduce inevitabilmente al non essere mai pronti a nulla e ha come corollario una politica di rinuncia e di assenteismo incompatibile con il costume fascista. / L’unica cosa seria è quindi quella di prefigurarsi una, al massimo due, ipotesi di possibile guerra e di adeguare ad esse l’indirizzo della preparazione militare pur mantenendo lo spirito vigile ed elasticamente orientato alle modificazioni o anche ai capovolgimenti che tali ipotesi possono nella realtà subire» [15].
Se in Stocco – e in altri esempi di ucronia su un fascismo vittorioso sonnolento e “franchista” – le caratteristiche del linguaggio e dello stile della dittatura appaiono sfumate in una società ormai distante dalla rigidità degli anni Trenta (e similmente accade anche in Occidente), in Brizzi invece le forme retoriche del fascismo sono adoperate, al di fuori delle occasioni ufficiali, solo da personaggi anacronistici e legati ai fasti del passato, come Federico Quaglia. L’estrazione popolare di Quaglia consente infatti a Brizzi di costruire la parlata del personaggio su una versione sociolinguisticamente bassa della retorica fascista, in contrappunto con quella più elevata di Venturi, un ricco imprenditore suo datore di lavoro.
Al di là di altre occorrenze, appare interessante una breve considerazione sull’imitazione parodistica del linguaggio giornalistico del Ventennio in due testi in particolare: La morte del Duce, un racconto di Pier Carpi, e un brano del romanzo di Brizzi, L’inattesa piega degli eventi. Il primo è un testo inizialmente pubblicato nell’antologia Fanta-Italia. Sedici mappe del nostro futuro (1972), fortemente contestato all’epoca per l’ispirazione ideologica di destra e successivamente inserito da de Turris in Fantafascismo!: è un articolo fittizio del Corriere della Sera in cui vengono descritti i funerali di Mussolini negli anni Sessanta. Nel secondo caso si tratta di un inserto didattico-divulgativo della rivista Futuro che capita per le mani del protagonista: attraverso questo testo, Brizzi fa conoscere al lettore le modalità con cui è avvenuta la divergenza nel suo universo alternativo, quindi è un brano piuttosto importante.
Il racconto di Carpi è un’imitazione umoristica (da destra) dello stile giornalistico fascista, sia dei quotidiani sia dei cinegiornali LUCE: «Corriere della Sera – Roma, 19 settembre 1971, XLIX E.F. / È entrato nella terra, nella Sua terra. Ma la Sua terra siamo noi, come Lui tante volte ci ha ricordato, come noi abbiamo capito e sentito. Per questo ci appartiene ora soprattutto; è più che mai nostro, immortale. È difficile aggiungere parole a quelle già dette in questi giorni da uomini di pensiero, statisti, scrittori di ogni parte del mondo. […] / In piedi. È meglio vivere un giorno da leoni. Egli è anche morto da leone, dopo averci insegnato a vivere, dopo averci offerto il riscatto, l’esempio diuturno, la realtà della nostra Patria così come Lui solo poteva costruirla. Molto ci ha dato, nulla ci ha chiesto. Non ci ha chiesto nemmeno di piangerlo, perché nessuno ha mai pianto per gli dei, come ha scritto, nella terza pagina di questo giornale, ieri, il collega Indro Montanelli» [16].
Quello di Brizzi è invece una satira (da sinistra) del linguaggio dei testi didattici del regime, che risulta ulteriormente grottesca se si considera che, nell’universo narrativo, è un testo scritto nel 1960: «Era un’Italia umile e operosa, quella dei nostri padri, un mondo semplice e bello dove la Rivoluzione fascista si andava compiendo giorno dopo giorno, nell’agro come nelle officine, ma ancor prima nel cuore del Duce e della sua Gioventù. Nel 1939 l’urgenza maggiore era rap- presentata dalla necessità di arginare con gli strumenti della diplomazia la volontà di potenza della Germania, e ricucire con pazienza i rapporti con l’Inghilterra: i Britannici ormai si erano resi conto che ad ogni embargo promosso contro di noi avremmo risposto con latina fermezza, e che era meglio non averci come nemici» [17]. Casualmente, il romanzo di Brizzi esordisce, inoltre, con una nota personale del protagonista in cui si descrivono i funerali di Mussolini: non vi sono sufficienti elementi per affermarlo con certezza, ma certe suggestioni sembrano quasi derivate dal racconto di Carpi. A titolo esemplificato, per consentire un primo confronto, riportiamo un estratto: «L’uomo che aveva restituito all’Italia prestigio e prosperità chiuse gli occhi nel proprio letto all’alba del 5 maggio 1960. / Un destino ingrato aveva deciso che quella data ritenuta doppiamente fausta, anniversario della presa di Addis Abeba nel ’36 e della capitolazione germanica nove anni più tardi, si tingesse di presagi funesti per la Nazione. / Furono proclamati cinque giorni di lutto nazionale, nel corso dei quali il Tricolore venne abbrunato dalle Dolomiti alle oasi del Fezzan, dalle isole dell’Egeo alle rive del Nilo Azzurro, e ovunque il genio italico avesse portato il suo messaggio di pace, giustizia e civiltà» [18].
Dalla casistica esaminata, quindi,si evince quanto sia importante l’interesse degli ucronisti italiani per gli aspetti retorici del regime fascista: un aspetto che, va rimarcato, risulta un grande elemento di originalità, rispetto alle opere di simile ambientazione scritte all’estero. Inoltre, a differenza di Dick – il caso più notevole di ricerca sulla lingua dei totalitarismi applicata alla narrazione allostorica – l’utilizzo di queste strutture risulta ancora più variegato, se si considera la gamma delle diverse occasioni d’uso: parodia stilistica, dettagli sullo scenario storico e la sua evoluzione alternativa, indizisulla psicologia dei personaggi e persino – nel caso di Passaro – uno stile narrativo costruito in gran parte sulle abitudini retoriche del regime.
Dialoghi Mediterranei, n.25, maggio 2017
Note
[1] Cfr. Wessling, 1991: 100-5.
[2] Cfr. Hellekson, 2013: 20-1.
[3] A questo proposito, cfr. «Il linguaggio stilizzato e formalistico attraverso cui essa è descritta – il linguaggio nippo-americano che è una delle più abili trovate stilistiche di Dick – è evidentemente inadeguato di fronte alla caotica vitalità dell’«altra» S. Francisco. La comunicazione si spezza. Il vincitore, attraverso l’improvvisa frattura nella comunicazione e nella percezione del reale, si è trasformato in vinto.» Pagetti, 1989: 136. Cfr. anche Frasca, 2007: 44-5 «La fusione fra la cultura americanae quella tedesca sembrerebbe essere avvenuta, date queste premesse, senza alcuna difficoltà, persino a livello linguistico, come mostrano i germanismi copiosamente presenti nel romanzo, a partire dall’appellativo stesso con cui si designa il presidente degli USEA, der Alte…».
[4] In merito al carattere postcoloniale dell’ucronia di Brizzi, cfr. Brioni, 2015: 305-321.
[5] «Quando il 15 gennaio 1938 Bruno Cicognani, romanziere, riempì la sua parte di terza pagina su “Il Corriere della Sera”, prendendosela con l’uso del lei (pronome contorto e svirilizzato, ridicolo e stomachevole, contrario alla migliore tradizione letteraria italiana, alla sintassi corretta, alla dignità civile e allo spirito della razza) contava di bruciare il suo fuocherello di paglia – commenta O. del Buono, Eia, Eia, Eia, Alalà!, cit. p.362 –, riscuotere il compenso e basta. Non si sarebbe certo immaginato gli effetti del suo elzeviro. Il regime scatenò – nell’anno delle vergognose leggi razziali – contro quel pronome, residuo del servilismo italiano verso gli invasori stranieri ed espressione di snobismo borghese, una campagna che combinava elementi di altre già attuate o in corso: quella per la romanità, quella “antiborghese”, per l’“uomo nuovo”, quella xenofoba. […] Ma l’abolizione, che dubitiamo incise molto sull’uso corrente, si estese anche all’esercito, agli istituti scolastici e […] agli uffici privati e alla buona società». F. Foresti, Proposte interpretative e di ricerca sul fascismo, in Credere, obbedire, combattere: il regime linguistico nel Ventennio, 2003, a cura di F. Foresti, Pendragon, Bologna: 40-1 (nota).
[6] «Il ritmo sempre più veloce che nel Vostro inesauribile dinamismo Voi imponete agli eventi richiede un costante adeguamento tra evoluzione politica e preparazione militare». Ceva, 2009: 23.
[7] «Nella nostra stesura introducemmo una sola variante del tutto innocente. A quell’epoca ognuno aveva ancora sulla bocca il “lei”, le nuove disposizioni essendo recentissime. Fummo Pistorio ed io a cambiare tutti i “lei” in “voi”». Ceva, 2009:39.
[8] In una scena ambientata in un fantascientifico futuro regime fascista, ne riscontriamo ancora l’uso: «Siete stato facile profeta, Maestà» Passaro, 1996: 161.
[9] «Spero verrete presto a trovarci» Viano, 1999: 128.
[10] «E, voi lo sapete, la legge su questo è chiara. Il Regime non si tocca. E ora, se volete scusarmi…» Pierfrancesco Prosperi, Italia mondiale, in Fantafascismo! Storie dell’Italia ucronica, 2000, a cura di G. de Turris, Settimo Sigillo, Roma: 94.
[11] «Anche l’obbligo di dare del voi era caduto in disuso e le nuove generazioni, nate dopo la Terza Guerra Mondiale, erano tornate decisamente al lei, se non addirittura al tu. Un recente decreto del Governo aveva liberalizzato l’uso del lei, mentre il voi rimaneva obbligatorio solo nel linguaggio burocratico e quando ci si rivolgeva a Mussolini». Farneti, 2001: 60.
[12] «“Volete dire, ministro, che vi è piaciuto?”. “Adesso non mi deluda, Diletti, il ’voi’ è preistoria del fascismo. Lei non ha bisogno di ingraziarsi nessuno. Ancora felicitazioni e buon lavoro!”» Stocco, 2003: 46.
[13] «Dal «voi» era passato al «lei», e scuoteva la testa alla ricerca di qualcosa che non si mostrava» Brizzi, 2008: 84.
[14] Cfr. G. Lazzari, Linguaggio, ideologia, politica culturale del fascismo, in Parlare fascista: lingua del fascismo, politica linguistica del fascismo, 1984, Centro ligure di storia sociale, Genova: 49-56.
[15] L. Ceva, 2009:24. Corsivi miei.
[16] P. Carpi, La morte del Duce, in Fantafascismo! Storie dell’Italia ucronica, 2000, a cura di G. de Turris, Settimo Sigillo, Roma: 61. Corsivi miei.
[17] E. Brizzi, 2008: 107. Corsivo originale
[18] Ibidem: 11. Corsivo originale.
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Emiliano Marra, docente di Lettere negli istituti d’istruzione secondaria di primo grado, ha conseguito il dottorato di ricerca presso la Scuola Dottorale in Scienze Umanistiche dell’Università di Trieste, specializzandosi in Italianistica. Si è occupato di narrazioni ucroniche italiane: sull’argomento ha pubblicato nel 2014 un articolo per Between e ha partecipato ad alcuni convegni internazionali.
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