Premessa
Nel novembre del 2016, pubblicai con Navarra Editore un libro, dal titolo Le parole del tempo perduto, ritrovate tra le pagine di Camilleri, Sciascia, Consolo e molti altri. Ottavio Navarra accolse con interesse il manoscritto che gli avevo sottoposto durante l’estate e che era stato sviluppato e “ripensato” a partire da un “prototipo” ultimato nell’autunno del 2015. Entrambi i manoscritti, quello accettato e pubblicato da Navarra e il suo prototipo, si fondavano su un presupposto molto semplice: fare un censimento di una specifica tipologia di parole dialettali usate dagli autori plurilingui siciliani, raccontarne la storia, mostrarne l’uso all’interno delle loro opere.
Per sondare l’interesse per un tale progetto da parte dell’editoria “continentale”, nella primavera del 2016 inviai il “prototipo” a diverse case editrici tra le quali Skira, che anni prima aveva pubblicato La moneta di Akragas di Camilleri. Pochissimi giorni dopo ricevetti una risposta con la quale mi veniva comunicato che il libro, pur se “affascinante”, non poteva essere pubblicato perché il marchio Skira era noto nel campo dell’arte e perciò poco propenso ad accogliere proposte di libri fuori da quell’ambito. Considerai piuttosto irrituale che una casa editrice rispondesse a un autore per manifestare il proprio “non interesse” per una proposta; trovai ancora più irrituale che chi scriveva mi comunicasse che la settimana successiva avrebbe incontrato Andrea Camilleri e la sua assistente/agente Valentina Alferj chiedendomi l’autorizzazione a consegnare a loro il mio manoscritto. Colsi comunque la palla al balzo domandando alla gentile mittente di aggiungere un ulteriore file, perché Camilleri e Alferj potessero eventualmente cogliere il “background” del manoscritto proposto: si trattava del saggio intitolato A caccia di “autoctonismi” nella scrittura di Andrea Camilleri. La letteratura come accianza di sopravvivenza per le parole altrimenti dimenticate in cui provavo a “mettere ordine” nel lessico dialettale camilleriano. Così glielo inviai con preghiera di stamparlo e consegnarlo assieme al “prototipo”. Non so, non ho mai saputo, se Camilleri o Alferj ebbero mai modo di leggere quei due scritti. Ho continuato, però, a interrogarmi su quale ragione avesse spinto Skira a mostrare tanta inaspettata gentilezza nei confronti di un autore “rifiutato”. Ho poi trovato una risposta, che tuttavia resta solo ipotetica e suggestiva: per una mera questione di omonimia, venni verosimilmente scambiato per un altro Roberto Sottile, validissimo e dinamicissimo critico d’arte e conservatore cosentino.
Partirò, allora, da quel saggio del 2016 (A caccia di “autoctonismi”…) per tentare di cogliere alcuni aspetti della lingua dello scrittore siciliano recentemente scomparso, la cui straordinaria popolarità si deve, certamente, anche alle sue scelte linguistiche, effettuate nel segno, per dirla con Marina Castiglione, di «un fitto e continuo code-mixing, in cui sembrano non esserci confini prestabiliti tra l’italiano e il dialetto, codici caratterizzati da un interscambio simmetrico, aventi come unico comun denominatore il registro dell’informalità» (Castiglione 2014: 66). Una «commistione di registri che Camilleri dissemina nei romanzi, ibridando varietà di italiano e dialetto e norme diverse di realizzazione dello stesso codice» (Valenti 2014: 244) producendo una scrittura in cui «tutti i livelli linguistici (fonetico, lessicale, sintagmatico, morfologico, sintattico) e molte parti del discorso (articoli, sostantivi, aggettivi, congiunzioni, avverbi, verbi) sono oggetto dell’ibridazione» (Castiglione 2014: 63) [1]. Ma la singolare lingua di Camilleri ci spinge anche a (ri)considerare – semmai ce ne fosse bisogno – che la scrittura letteraria è fatta di parole e qualche appunto sulle parole può certo aiutare a cogliere i meccanismi del plurilinguismo letterario e, nel caso di Camilleri, le ragioni di un grandissimo successo editoriale e di una straordinaria popolarità.
Le parole dialettali nell’opera di Camilleri
Ci si è sempre domandati come sia stato possibile che le opere di Camilleri così piene e pregne di lessico dialettale possano avere avuto il grande successo di pubblico che tutti conosciamo. Sembrerebbe una contraddizione: un autore – come un politico – raggiunge uno straordinario numero di “seguaci” (oggi si direbbe follower, ieri fan) quanto più sappia usare la loro lingua (e il loro linguaggio). Con Camilleri abbiamo il caso inverso: un autore diventa popolarissimo scrivendo in una lingua tutta sua. Ma è veramente così? Che cosa emergerebbe da una radiografia approfondita della lingua e delle parole camilleriane? Camilleri usa il siciliano? E se lo usa, di che siciliano si tratta?
Certamente il creatore del Commissario Montalbano poggia il suo stile e la sua lingua letteraria sul lessico dialettale, ma occorre anche considerare che sarebbe del tutto errato generalizzare ammettendo che ogni parola che non coincide con l’italiano letterario sia indifferenziatamente una parola dialettale. A ben pensarci, le parole del dialetto, quello dell’uso – reale o presunto che oggi esso sia –, possono farsi rientrare in (almeno) tre categorie:
1) Parole autoctone/autoctonismi (parole con basi diverse rispetto alle corrispondenti italiane, per es. naca contrapposta a italiano culla; taliar-e/-i contrapposta a italiano guardare ecc.);
2) Parole di origine italiana che, nel tempo, e in maniera massiccia nel ’900, hanno scalzato quelle tradizionali (italianismi contro arcaismi: italiano culla – a culla – che sostituisce il dialettale naca – a naca);
3) Parole che, in virtù della storia parzialmente comune del siciliano e del toscano, sono da sempre patrimonialmente presenti nell’italiano e nel dialetto (parole dialettali con basi comuni a quelle dell’italiano: chiazza, cchiù, firmari, turnari sono parole praticamente analoghe per forma e significato a italiano piazza, più, fermare, tornare).
Nel valutare la componente dialettale del lessico camilleriano, le voci sub 2) non fanno testo, in quanto parole italiane; restano, invece, di grande interesse le voci sub 3) (le “più facili”) e le voci sub 1) (le “più difficili”). D’altra parte se le parole camilleriane sub 1) e sub 3) sono parole effettivamente dialettali (più meno italianizzate: per il gruppo 1, taliari è parola dialettale, taliare è parola dialettale italianizzata nella morfologia finale; per il gruppo 3, turnari è parola dialettale, tornari è parola dialettale italianizzata nella morfologia interna), occorre considerare che nella scrittura camilleriana esiste un ulteriore cospicuo gruppo di “parole pseudodialettali”, parole cioè non precisamente dialettali ma rese tali mediante la sicilianizzazione delle corrispondenti voci italiane: friscura e dovivano, per esempio, altro non sono che italiano frescura e dovevano verniciate a spruzzo di fonetica siciliana (la e di italiano frescura passa a i¸ottenendo il “più dialettale” friscura, così come la e di italiano dovevano passa a i, ottenendo il “più dialettale” dovivano).
Dunque, l’intero lessico dialettale della scrittura camilleriana può essere distinto, in fin dei conti, in tre comparti:
1) Autoctonismi: parole con basi diverse rispetto alle corrispondenti italiane (naca contrapposta a italiano culla; taliar-e/-i contrapposta a italiano guardare ecc.);
2) Parole dialettali con basi comuni a quelle dell’italiano (chiazza, cchiù, firmari, turnari “stessa cosa” di italiano piazza, più, fermari, tornare);
3) Parole pseudodialettali ovvero parole italiane “dialettalizzate/sicilianizzate” (friscura da italiano frescura; dovivano da italiano dovevano, sirata da italiano serata).
La distinzione appena proposta può essere colta qui sotto, prendendo a esempio la pagina iniziale di L’altro capo del filo, romanzo della saga di Montalbano pubblicato nel 2016:
Si nni stavano assittati nel balconcino di Boccadasse, mutangheri, a godirisi la friscura della sirata.
Livia era stata tutto il jorno d’umori malo, le capitava sempre accussì quanno Montalbano era ’n partenza per tornari a Vigàta.
Tutto ’nzemmula lei, che era scàvusa, dissi:
«Mi vai a prendere le pantofole? Ho freddo ai piedi. Si vede che comincio a invecchiare».
Il commissario la taliò ’mparpagliato.
«Perché mi guardi così?».
«Tu cominci ad invecchiare dai piedi?».
«Perché, è proibito?».
«No, ma pensavo che per primo cominciasse a invecchiare qualche altro organo».
«Non accomenzari a diri vastasate» fici Livia.
Il commissario strammò.
«Ma come parli?». «Parlo come mi pare. Va bene?».
«Non volevo diri vastasate. Gli organi ai quali mi riferivo erano che so, la vista, l’udito…».
«Me le vuoi andare a prendere queste pantofole, sì o no?».
«Dove sono?».
«Dove vuoi che siano. Accanto al letto. Quelle a forma di gatto».
Montalbano si susì e s’avviò verso la càmmara di dormiri.
Quelle pantofole dovivano tiniri i pedi càvudi ma gli stavano ’ntipatiche perché erano precise ’ntifiche a dù gatti bianchi e pilusi con la cuda nìvura. Naturalmenti non erano a vista.
Di sicuro s’attrovavano sutta al letto.
Applicando la tripartizione proposta poco sopra, il lessico dialettale di questo brano sarebbe così distinguibile (cfr. anche Castiglione 2014: 64):
Fig. 1: Tripartizione del lessico dialettale camilleriano
Se si osserva la tabella, a volerci ben pensare, le parole “strettamente dialettali” sono soltanto quelle della prima colonna: voci solo dialettali, che costituiscono la parte più “specifica” del patrimonio lessicale siciliano; sono parole che non esistono nell’italiano o, se sono anche dell’italiano, vi sono giunte dal dialetto, ovvero voci che pur esistendo nella lingua hanno lì un significato diverso da quello riscontrabile nel dialetto. Buona parte di queste voci prettamente dialettali (che abbiamo chiamato “autoctonismi” o “parole autoctone”) sono oggi “arcaismi” in quanto fanno riferimento a un mondo, quello della cultura tradizionale/dialettale, sempre più in declino a causa dei rapidi mutamenti sociali che nella seconda metà del Novecento hanno sfaldato quasi del tutto la struttura sociale tradizionale. Si tratta dunque, in molti casi, di parole usate (o conosciute) per lo più da parlanti anziani, o utilizzate ormai raramente in Sicilia o perché sostituite dalle corrispondenti voci italiane o perché scomparse assieme ai rispettivi referenti. Sono, infine, parole che, a causa della loro distanza formale e (talvolta) semantica dall’italiano, risultano effettivamente di difficile comprensione per i lettori; le altre (quelle della seconda e della terza colonna della tabella riportata sopra) sono, tutto sommato, parole dialettali o pseudodialettali abbastanza intellegibili.
Si consideri d’altra parte che la tipologia di parole autoctone (quelle della prima colonna) non supera mai il 20% dei lessemi di qualunque opera camilleriana, costituendosi, dunque, come una quantità significativa ma non particolarmente invasiva. Il grafico qui sotto mostra, a campione, il rapporto tra le parole della prima colonna in Fig. 1 (autoctonismi) e le altre voci dialettali dei libri di Camilleri:
Fig. 2: Rapporto quantitativo tra parole genericamente dialettali e parole dialettali “autoctone” in due opere di Camilleri
È pur vero, però, che, a prescindere dalla loro rilevanza quantitativa, gli autoctonismi sono parole formalmente distanti dalla lingua letteraria e devono perciò trovare in qualche modo “il favore dei lettori”. Attraverso quali meccanismi, allora, Camilleri rende “accettabili” e “ricevibili”, per il largo pubblico, le (difficili) parole dialettali autoctone?
Gli autoctonismi dialettali: “parole difficili” con cui familiarizzare
Si è detto più volte che Vigàta non è soltanto una comunità sociale dove avvengono migliaia di delitti e dove si muove il Commissario più famoso d’Italia; Vigàta è anche una comunità linguistica e mentre il lettore si fa detective assieme a Salvo Montalbano per risolvere il giallo di volta in volta proposto, egli si fa, allo stesso tempo, detective della lingua, con il compito di scoprire il significato di parole che essendo strettamente dialettali non sono immediatamente comprensibili (ai lettori siciliani e non siciliani). Da parte sua, l’autore aiuta il lettore a scoprire il giallo delle parole mediante la tecnica della ricorsività e della ripetitività: una certa parola dialettale (di non immediata comprensione – una parola autoctona) compare diverse decine di volte dentro lo stesso libro e dentro i diversi libri di Camilleri, assicurando al lettore la possibilità di familiarizzare con essa.
Si veda, in proposito, questo schema relativo al romanzo La caccia al tesoro (2010):
Fig. 3: Voci dialettali autoctone di alta frequenza in La caccia al tesoro
Dunque, lo schema mostra la specifica tipologia di parole che non hanno corrispondenti formali nell’italiano (autoctonismi), tra le quali, se si considera, per esempio, la parola trasiri ‘entrare’, ci si accorge che essa compare ben 67 volte nel romanzo considerato. Sarà interessante notare – sempre esemplarmente – che l’alta frequenza di questa parola è riscontrabile anche in numerose altre opere. Si osservi questa tabella:
Fig. 4: Numero di occorrenze della voce trasiri/trasire in 20 opere di Camilleri
La parole dialettali camilleriane che si presentano come le più distanti dalle corrispondenti italiane vengono dunque rese amichevoli e familiari mediante la loro costante ripetizione, come se venissero generate da un algoritmo. E infatti, se si guarda alla loro distribuzione all’interno delle diverse opere di Camilleri, si riscontrano una quarantina di voci (quasi sempre una quarantina e quasi sempre le stesse) che costituiscono il pilastro della sua (reale) dialettalità letteraria.
Se si riconsiderano le parole in Fig. 3, relative a La caccia al tesoro, e si confrontano con quelle di un’altra opera come L’età del dubbio (2008), si noterà con interesse che non solo si riscontra pressappoco lo stesso numero di autoctonismi, ma, cosa più importante, queste parole ad alta frequenza molto spesso coincidono nelle due diverse opere. E, cosa ancora più importante, il numero di occorrenze, in molti casi, è simile e qualche volta perfettamente identico, come si mostra sotto, in Fig. 5:
Fig. 5: Autoctonismi di alta frequenza in due opere di Camilleri
La dialettalità di Camilleri (e di altri autori siciliani) tra autoctonismi di alta frequenza e autoctonismi di bassa frequenza
Molte delle parole di ampia diffusione, che si riscontrano nelle due opere considerate sopra, ricorrono con altrettanta frequenza anche nell’intero corpus camilleriano e inoltre è interessante che in alcuni casi esse compaiono anche negli autori pre-camilleriani, mentre sono sempre ricorrenti in uno o più autori post-camilleriani (cfr. anche Sottile 2017) [2]:
Fig. 6: Autoctonismi camilleriani di alta frequenza e loro uso negli altri autori siciliani
Queste voci, dunque, possono essere viste come lo zoccolo di un “plurilinguese” isolano (un plurilinguese ben stabile, riscontrabile, soprattutto, negli scrittori di nuova generazione, contemporanei del nostro autore). Il loro uso in Camilleri si configura, quindi, come impiego di parole civetta immediatamente riconoscibili da tutti i lettori in ragione della loro ampia circolazione tanto nell’intero corpus camilleriano quanto nella narrativa siciliana, pur trattandosi di parole formalmente distanti se non diverse dalle corrispondenti parole italiane.
Ma a questo stock costante di voci “ben riconoscibili”, in quanto frequentissime in tutte le opere di Camilleri e diffusissime tra i plurilingui isolani, si oppone un core di voci con un’occorrenza sporadica (cfr. la colonna 4 della tabella riportata sotto, in Fig. 7 [3]) che, rispetto agli altri autori siciliani, si configurano come lessemi di uso quasi esclusivo di Camilleri (cfr. anche Sottile 2016b):
Fig. 7: Autoctonismi camilleriani di bassa frequenza e loro uso negli altri autori siciliani
Queste voci assieme ad altre sembrerebbero costituire, come si accennava, il lessico di un idioletto camilleriano, un personale pluringuese opposto al pan-plurilinguese isolano (quello costituito dagli autoctonismi di alta frequenza). Nella loro qualità di forme idiolettali, queste parole (questi autoctonismi) di bassa frequenza farebbero quindi parte del personale bagaglio lessicale dell’autore in quanto parlante dialettofono, formatosi linguisticamente negli anni Trenta del Novecento. A riprova di ciò, si consideri che spesso esse appaiono diatopicamente marcate, ricorrendo nell’insieme dell’opera camilleriana secondo il modello dialettale agrigentino. Così tambasiare, come timbulata (entrambe voci dialettali autoctone di bassa frequenza) tradiscono il tratto fonetico agrigentino, che risale anche nell’italiano, consistente nella sonorizzazione di occlusiva dopo nasale. A questo tratto fa da pendant l’uso di ngiarmari, con la sonorizzazione dell’affricata dopo nasale. Si noti anche l’uso della forma assammarari, preferita alla “concorrente” (e assai diffusa) sciammar(i)ari, e scrafazzare contro scafazzare.
Questi lessemi si costituirebbero, dunque, come una sorta di “camillerese”, in grado di svelare che una parte del dialetto (più autentico) dell’autore, è, al pari del suo plurilinguismo, «ontologico-esperienziale e non stilistico» (cfr. Castiglione 2013: 339). Inoltre, proprio questo carattere «esperenziale» fa sì che quando tali parole compaiono in autori post-camilleriani resta forte il dubbio che esse non siano altro che il risultato di un mero esercizio stilistico consistente nell’“imitazione” dell’autore empedoclino. Altrimenti non si spiegherebbe per quale ragione la palermitana Giuseppina Torregrossa dovrebbe utilizzare la forma scrafazzare, quando a Palermo la variante dialettale “attesa” sarebbe scafazzare: “Finirò scrafazzata come quei gusci che mi scricchiolavano sotto ai piedi a Santa Rosalia, pensò sconsolata” (Panza e prisenza, Mondadori, 2012: 129).
La lingua di Camilleri tra dialetto siciliano, “plurilinguese isolano” e dialettalità «ontologico-esperenziale»
Tra autoctonismi di alta frequenza e parole autoctone di bassa frequenza, i libri di Camilleri mostrano quindi una certa (ma non spropositata) quantità di lessico “prettamente dialettale” (pari a circa il 20% delle parole che non coincidono con quelle dell’italiano). Ma mentre una parte di questo lessico autoctono, quella delle voci a bassa frequenza, permette di riconoscere un alto grado di autenticità e “originalità” della lingua di Camilleri – non foss’altro perché connessa alla sua esperienza di parlante dialettofono –, un’altra parte, quella delle voci autoctone di alta frequenza, resta in definitiva identificabile con il lessico della tradizione plurilingue isolana (cfr. anche Sottile 2018). Questa condizione, aggiunta a un meccanismo di impiego connesso alla costante ripetitività e ricorsività, fa sì che esse siano intellegibili al grande pubblico nonostante la loro significativa distanza formale dalle corrispondenti parole dell’italiano. Le voci appartenenti a questa seconda tipologia occorrono pressappoco nella stessa quantità in ciascuna opera, come se esse fossero “amministrate” matematicamente, come se la loro quantità e ricorsività risultasse da un “calcolatore”. Così la dialettalità «ontologico-esperenziale» di Camilleri finisce per restare sullo sfondo, quale nuance disseminata e dispersa all’interno di un lessico certamente dalla forte impronta dialettale, ma, allo stesso tempo, simile all’italiano o derivato dall’italiano (nel caso delle parole con basi corripondenti a quelle della lingua e nel caso delle parole “pseudodialettali”), o altrimenti assai ricorsivo e pertanto ben riconoscibile e “comune” (nel caso degli autoctonismi di alta frequenza).
Dialoghi Mediterranei, n. 39, settembre 2019
Note
[1] Cfr. anche Sulis (2010).
[2] Un autore è qui considerato “pre-camilleriano” o “post-camilleriano” non (solo) su base anagrafica, ma (anche) in relazione alla data di uscita di uno specifico libro di Camilleri nel quale un certo lessema preso in esame compare per la prima volta. Il linea di principio gli autori “post-camilleriani” sono gli scrittori contemporanei di Camilleri. Questi, però, possono in qualche caso diventare “pre-camilleriani”, se una loro opera contenente una specifica parola considerata è stata pubblicata prima di quella di Camilleri nella quale la stessa parola appare per la prima volta. Così, in relazione a scrafazzare, Silvana Grasso diventa “pre-camilleriana” in quanto il lessema compare ne Il bastardo di Mautana che, essendo del 1994, precede di un anno Il birraio di Preston, romanzo in cui la voce compare per la prima volta all’interno del corpus camilleriano.
[3] Nella colonna, queste voci vengono classificate come lessemi a B/MF (bassa o media frequenza) intendendo con ciò che le voci ricorrono al massimo in un insieme di opere comprese tra le 10 (o anche meno) e le 20. È importante sottolineare che, nei casi migliori, queste voci non si registrano in più di una ventina di titoli e, inoltre, all’interno di ciascun lavoro, le occorrenze restano di norma piuttosto sporadiche e comunque non paragonabili a quelle delle parole di alta frequenza.
Riferimenti bibliografici
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Castiglione, Marina, 2013, «Dal plurilinguismo domestico al plurilinguismo letterario. Casi di studio in Sicilia», in The Italianist, 32, 2012/iii, Maney Publishing: 321-344.
Castiglione, Marina, 2014, «Meccanismi del cambio linguistico in autori plurilingui siciliani», in InVerbis 2014 : 59-72.
InVerbis, 2014, Lingue letterature culture, I confini del testo letterario plurilingue, IV, I, Carocci.
Sottile, Roberto 2016a, Le parole del tempo perduto. Ritrovate tra le pagine di Camilleri, Sciascia, Consolo e molti altri, Palermo, Navarra Editore.
Sottile, Roberto, 2016b, «A caccia di ‘autoctonismi’ nella scrittura di Andrea Camilleri. La letteratura come accianza di sopravvivenza per le parole altrimenti dimenticate», in La linguistica in campo. Scritti per Mari D’Agostino, a cura del Gruppo di ricerca dell’Atlante Linguistico della Sicilia, Alessandria, Edizioni dell’Orso: 195-212.
Sottile, Roberto, 2017, «Dialetto e dialettalità nella scrittura di Andrea Camilleri. L’incidenza delle parole ‘autoctone’», in Dialetto. Uno nessuno centomila, a cura di Gianna Marcato, Padova, Cleup: 329-340
Sottile, Roberto, 2018, «Le parole e l’ordito. Lessico e cultura dialettale nella scrittura di Leonardo Sciascia», in Il Giannone, 29-34: 271-300.
Sulis, Gigliola, 2010, «Alle radici dell’idioletto camilleriano. Sulle varianti de Il corso delle cose (1978, 1998)», in Quaderni della Facoltà di Lingue e Letterature straniere dell’Università di Cagliari/ 12. Il reale e il fantastico, Roma, Aracne: 249-78.
Valenti, Iride, 2014,«Aspetti dell’inventività linguistica: Stefano D’Arrigo, Fosco Maraini, Andrea Camilleri», in InVerbis 2014 : 223-245.
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Roberto Sottile, insegna Linguistica italiana nel Dipartimento di Scienze umanistiche dell’Università di Palermo. Con il Gruppo di ricerca dell’Atlante Linguistico della Sicilia (ALS) ha pubblicato il Vocabolario-atlante della cultura dialettale. Articoli di saggio (CSFLS, Palermo 2009) e il “Lessico della cultura dialettale delle Madonie. 1. L’alimentazione, 2. Voci di saggio” (CSFLS, Palermo 2010-2011). Ha anche dedicato una particolare attenzione al rapporto tra dialetto e letteratura e tra dialetto e mondo giovanile. Recentemente ha pubblicato il libro intitolato Dialetto e canzone. Uno sguardo sulla Sicilia di oggi (Cesati, Firenze 2018).
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