di Rosario Lentini
Nel primo tomo del Vocabolario siciliano etimologico dellʼabate Michele Pasqualino, pubblicato nel 1785, alla voce Cintimulu (centimolo), si precisa: «strumento che serve per macinare il grano e si gira con giumenti»; dal latino “cinctum” (legato) e “mulus” (mulo) [1]. Fino a tutto il XVIII secolo ‒ e buona parte del successivo ‒ i cintimuli e, in generale, i mulini erano azionati da animali (buoi, cavalli, muli), dallʼacqua o dal vento e non ancora da caldaie a vapore. Dagli anni Quaranta dellʼOttocento, invece, comincerà a registrarsi in Sicilia ‒ seppur con un certo ritardo rispetto ad altre aree economico-produttive di alcuni Stati preunitari ‒ lʼapplicazione di questa nuova fonte di energia, generata dalla combustione del carbone, nella cantieristica navale con i primi battelli a vapore, nella filatura enella tessitura.
Una delle prime caldaie a vapore installate nellʼIsola, per azionare una macina da molino per cereali, fu certamente quella dellʼingegnere meccanico inglese Joseph Gill, che amministrava a Marsala lo stabilimento del connazionale Thomas Corlett, per la produzione del vino che avrebbe reso celebre nel mondo il nome di quella città, di cui dà notizia Francesco Ferrara nellʼestate del 1845 [2].
Tuttavia, la diffusione delle caldaie nellʼindustria molitoria siciliana avvenne in lenta progressione; secondo i dati ufficiali disponibili, tra gli anni Ottanta e Novanta dellʼOttocento, su un totale di 555, solo 172 (31%) erano quelle censite in questo comparto specifico, 40 delle quali nella sola provincia di Trapani, che ne contava il maggior numero [3]. Inoltre, sempre nel trapanese, appare ancor più significativa lʼincidenza dellʼinnovazione rispetto agli altri settori (47,6% di caldaie utilizzate nellʼindustria molitoria su un totale di 84) e a questa rilevanza quantitativa si aggiungeva anche lʼeffettiva modernità degli impianti e il dinamismo dei borghesi-imprenditori del territorio. Per citarne alcuni: nello stabilimento trapanese della ditta “Domenico Aula e C.”, nel 1882, con potenti motori a vapore, si macinavano 500 quintali di frumento al giorno; a Marsala erano attivi 13 molini a vapore, 3 ad Alcamo, 2 a Salemi, 1 rispettivamente a Castellammare, Castelvetrano, Santa Ninfa, Vita. A Mazara, nei due stabilimenti di “Andrea Bonacasa” e di “Liborio Salvo” erano installate complessivamente quattro caldaie [4].
Sostanzialmente, quindi, fino alla prima metà dellʼOttocento, la macinazione dei cereali era stata praticata con tecnologia arcaica, che aveva subìto ben poche innovazioni nel corso dei secoli e che, di conseguenza, aveva determinato la creazione di una rete capillare di molini piccoli o grandi, in rapporto al fabbisogno della popolazione di riferimento.
Come sottolinea Antonino Giuffrida per i secoli XV-XVI: «Lʼeconomia siciliana è indebolita dallʼinsufficienza delle fonti energetiche che non siano quelle rappresentate dal motore umano ed animale» [5] e lo squilibrio tra la disponibilità di energia e le esigenze del sistema produttivo rimase per secoli costante, anche perché la possibilità di sfruttare i torrenti o i salti dʼacqua, per azionare le pale, riguardava una limitata percentuale di contesti morfologicamente idonei allo scopo. Non a caso, la maggiore concentrazione di mulini ad acqua, fin dal 1080, è rilevabile soprattutto nel Valdemone e assai meno nel Val di Mazara: «Trapani, Monte San Giuliano (Erice), Mazara, Marsala e Agrigento ‒ scrive lo storico francese Henri Bresc ‒ sono quasi del tutto sprovviste di acque; nel Quattrocento ci sono solo due salti dʼacqua a Mazara» e riguardano i mulini di Jufo Macanone (Giuffo Maccagnone) e Salvador Blanca [6], situati probabilmente lungo il fiume Mazaro, nel suo percorso tortuoso dellʼentroterra, dalle alture di Salemi fino al mare.
Leonardo Bonanno, nella sua guida al paesaggio mazarese, pubblicata nel 1937, ne segnalava proprio due: «Si va a Miragliano costeggiando un breve sentiero ai margini del fiume per circa un chilometro e mezzo ed anche due, fin oltre il vecchio mulino dove il fiume staccava un suo piccolo braccio per servire di forza motrice a un primitivo servizio di macinazione» [7];e alcune pagine più avanti: «Dal punto in cui hanno termine le grotte, tra due alte ripe rocciose, si diparte in una lunga linea di circa trecento metri lʼultimo tratto navigabile del Mazaro, che va a finire in un roccione dirimpetto ad uno abbandonato molino ad acqua, presso il cosidetto passo di Annibale» [8].
La macinazione del grano, qualunque fosse la forza motrice che alimentava le macine, rappresentava il punto di approdo del ciclo produttivo della cerealicoltura, dalla cui floridezza dipendeva il pieno soddisfacimento dei bisogni alimentari della popolazione, la rendita della nobiltà, che ancora deteneva vasti territori vocati alle colture estensive, il reddito degli affittuari e conduttori dei fondi, nonché la stabilità sociale nei paesi e nei comuni dellʼIsola. Non a caso, il susseguirsi di cattive annate di raccolto e di carestie era spesso allʼorigine di rivolte popolari contro le autorità comunale e viceregia, accusate di non avere assicurato rifornimenti da «fuori regno», né di avere impedito ai feudatari di esportare grano ‒ con licenza o furtivamente ‒ o di averne occultato parte, per farne crescere il prezzo. Proteste e tumulti violenti, come quelli del 1647-48, che sconvolsero Palermo e altri centri dellʼIsola, ebbero origine proprio dal mancato rispetto delle norme della cosiddetta “economia morale” in forza delle quali «tutto il grano presente in paese e nel suo territorio ‒ come scrive Daniele Palermo ‒ avrebbe dovuto essere disponibile per il consumo degli stessi abitanti al pubblico mercato o attraverso distribuzione dei giurati; senza lasciare spazio, dunque, allʼazione di venditori, mediatori e acquirenti che sottraevano il grano alla popolazione» [9].
Nella terra di Cerere, è sul grano che, per secoli, si sono strutturati e sviluppati rapporti e/o conflitti di potere tra monarchia e baroni, tra città demaniali e feudatari, tra proprietari e mercanti di extraregno, tra lʼaristocrazia terriera e i gabelloti e tra questi e chi la terra lavorava duramente, spesso in condizioni di servaggio [10]. Lʼautorità regia si inseriva in questa rete di relazioni e di transazioni per imporre i propri balzelli e per finanziare le entrate erariali, ma non sempre con successo e nella misura prevista. La via più agevole per rimpinguare le casse regie rimaneva ancora quella delle imposizioni indirette sui beni di consumo e la tassa sul macino fu certamente tra le più applicate e, al contempo, tra le più odiate dalla popolazione.
Il Parlamento siciliano, per la prima volta, approverà lʼintroduzione di un dazio sul macino nel 1564; un tarì e quattro grani da pagarsi sopra ogni tummino [11] di frumento da consumare o macinare «in ogni città, terra, et loco del detto regno et loro territorij»; i cereali destinati allʼesportazione erano, invece, soggetti al pagamento di una licenza autorizzativa, la «tratta». Cinquantʼanni dopo, il dazio venne aumentato a 5 tarì e 4 grani, rimanendo stabile per quasi due secoli. Nel 1810 ‒ nel vivo delle guerre napoleoniche ‒ lʼimporto fu raddoppiato; nel 1815 portato a 12 tarì e 16 grani; nel 1817 ulteriormente elevato a 13 tarì e 12 grani; dal 1839 ridotto a 9 tarì e grani 12.
La corretta applicazione e riscossione di questo dazio [12] richiedeva la piena collaborazione del mugnaio, quasi in veste di agente fiscale, il quale doveva assicurare la fedele corrispondenza tra le quantità di grano conferite nel suo mulino e le farine prodotte. Ovviamente nei comuni al centro di vasti territori, le possibilità di frodi erano elevate, perché i proprietari terrieri o i loro gabelloti potevano accordarsi con i mugnai, dichiarando e annotando quantitativi minimi e le farine potevano essere occultate con maggiore facilità e poi vendute di contrabbando. A nulla valendo lʼinasprimento delle pene o lʼerogazione di forti sanzioni pecuniarie, durante lʼOttocento borbonico si istituì la figura del «custode pesatore», nominato dallʼautorità locale e da questa dipendente, proprio per vigilare sullʼattività dei mugnai.
Inizialmente, i risultati del nuovo sistema di controlli diedero i loro frutti in termini di maggiore gettito tributario, ma ben presto si dovette constatare che le frodi erano tornate a crescere come e più che nel passato. Il ministro delle Finanze del futuro regno dʼItalia, Quintino Sella, così avrebbe commentato: «Il custode pesatore, sostituito al mugnaio come agente del fisco, sarebbe stato una eccellente riforma finché si fosse circoscritta a pochi molini; ma quando si ebbe a cercare migliaia di custodi, lʼamministrazione si trovò nella dura necessità di raccattarli fra gli ultimi ordini sociali; ed uomini che per miseria, per educazione, per abitudini, non potevano meritare la più lieve fiducia, furono soventi coloro alle cui mani si trovò raccomandata la riscossione, quelli la cui firma, il cui silenzio, bastava per assicurare lʼimpunità del contrabbando» [13].
Il decreto borbonico del 27 luglio 1842 e le relative istruzioni miravano ad essere ancora più stringenti ed efficaci, prevedendo anche altre misure, oltre allʼistituzione del custode: i molini non potevano essere costruiti accanto ad altri edifici o case di abitazione; dovevano avere una sola porta e finestre con grate di ferro; dovevano essere soggetti a ispezioni da parte degli incaricati della percezione del dazio; dovevano essere provvisti di recinto; non si poteva macinare dopo il tramonto a meno che il mugnaio non fosse disposto a rimanere da solo chiuso allʼinterno del mulino, al pari di un carcerato.
Fu pure istituito il ruolo di «ispettore verificatore distrettuale» il quale avrebbe dovuto visitare i molini almeno due volte al mese, senza alcun preavviso, esaminare i registri dei custodi pesatori, esaminare i registri di cassa dei ricevitori, «scoprire le frodi e [di] sorprendere le macchine ed istrumenti atti a macinare, proibiti dalle leggi pel macino» [14]. Va, pure, sottolineato che lo stesso decreto interveniva in modo incisivo sulla struttura della tassazione, unificando le due imposizioni ‒ dazio regio e dazio civico entrambi applicati, fino a quel momento, sul macino dei cereali ‒ che avevano generato storture e differenziazioni da comune a comune. Pertanto, dal 1° gennaio 1843, la tassa unica veniva fissata nella misura di 5 tarì «per ogni cantaio lordo siciliano di frumento, orzo e granone» [15].
Come noto, da lì a qualche anno, in Sicilia per prima e in diversi Stati italiani ed europei subito dopo, divamparono moti rivoluzionari che scossero dalle fondamenta le monarchie europee. Il Comitato generale rivoluzionario, formatosi a Palermo nel gennaio del 1848, oltre a dichiarare decaduto il governo borbonico, convocò il Parlamento dellʼIsola per avviare il processo di indipendenza della stessa e per dar vita ad un proprio governo. Nelle sedute dellʼaprile di quello stesso anno, presiedute dal marchese di Torrearsa, si avviò un intenso dibattito sulla situazione finanziaria e, quindi, anche sulla possibilità di sopprimere la tassazione sul macino, ma evidenti ragioni di forza maggiore e la necessità di reperire mezzi finanziari, per far fronte al fabbisogno del nascente Stato e, in particolare, della difesa militare, imposero solo una manovra correttiva: «Essendo urgente che il potere esecutivo si abbia i mezzi di continuare a provvedere ai bisogni dello Stato, finché non sarà approvato il nuovo stato discusso [bilancio], il Parlamento decreta quanto segue: Art. 1. È autorizzata provvisoriamente la riscossione della imposta fondiaria e di quella sul macino […]. Art. 9. Il dazio sul macino sarà ridotto a metà e riscosso sulla misura alla ragione di tarì 6 e grana 8 per ogni salma legale»[16].
Purtroppo, le vicende seguirono un corso ben diverso da quanto immaginato e voluto dai patrioti siciliani e quella del regno indipendente dalla monarchia dei Borbone si concluse nel maggio del 1849, con il ripristino dellʼautorità e della legislazione antecedente e con lʼesilio dei promotori e dei capi politici della rivoluzione. Naturalmente, anche il dazio sul macino tornò ad essere applicato con le modalità del passato. Bisognerà attendere il 19 maggio 1860 per potere leggere in un atto ufficiale ‒ dopo 296 anni dal 1564 ‒ che finalmente, in Sicilia, lʼodiata tassa veniva soppressa. Il Dittatore Giuseppe Garibaldi ‒ con buona pace degli odierni neo-borbonici ‒, emanava ad Alcamo il decreto n. 5 che stabiliva allʼarticolo 2: «Lʼimposta sul macino e qualunque imposta decretata dallʼautorità borbonica dopo il 15 maggio 1849 sono abolite» [17]. Sarebbe stata reintrodotta nel regno unitario dal governo di Federico Luigi Menabrea (alle Finanze, Luigi Guglielmo Cambray-Digny), a decorrere dal 1° gennaio 1869 [18].
Il ritrovamento di un documento inedito, redatto il 7 settembre 1859 dalla Direzione generale dei Dazi Indiretti e del Macino, contenente lʼelenco completo di 1971 molini, suddivisi per provincia, consente di disporre della più completa visione e consistenza numerica dellʼindustria molitoria siciliana, alla vigilia della fine del regno delle Due Sicilie e dellʼunificazione nazionale [19]. È senza alcun dubbio una fonte archivistica di notevole interesse per la storia della preindustria del comparto cerealicolo, ‒ che tale deve definirsi, per le ragioni anzi ricordate sul ritardo tecnologico ‒ e per lo studio dei territori interessati, sotto il profilo storico-economico.
Quasi certamente la maggior parte di questi mulini è ormai inesistente o se ne potranno individuare solo i ruderi; sarebbe, comunque, importante accertarne lʼesatta dislocazione anche con lʼausilio della cartografia storica. Lʼelenco non rispondeva solo a esigenze di statistica nazionale, ma serviva allʼufficio finanziario che ne curava la redazione, per stimare il possibile gettito fiscale annuo. Si consideri che proprio nel 1859 la tassa sul macino applicata in Sicilia generò entrate per 1.193.764 onze [20] (pari a 15.220.491 lire italiane del 1861; corrispondenti oggi a circa 73.332.325 di euro), a fronte di circa il 12% di spese sostenute per tale riscossione. Nellʼappendice che segue sono elencati soltanto i 98 mulini della provincia di Trapani. In verità, in questa sezione dellʼelenco, il numero complessivo indicato è di 99 ma, per errore del compilatore o per altra ragione, nella riga di uno dei sette attribuiti al territorio del comune di Trapani, non vi è alcuna indicazione. Inoltre, con specifico riferimento ai quattro molini mazaresi, nelle note a margine si legge quanto segue: «I centimoli moliscono la notte, i mugnaj vi pernottano chiusi dalla parte esterna e glʼimpiegati pernottano nelle Caserme. Nei molini n. 2, 3 e 4 idraulici [cioè Solana, Solana di mezzo e Piana], si molisce la notte e glʼimpiegati dopo chiusi i mugnaj dalla parte esterna, pernottano in Mazzara a causa che mancano le Caserme».
Gli studiosi e i ricercatori interessati potranno facilmente consultare il documento integrale presso lʼArchivio di Stato di Palermo, utilizzando la segnatura indicata nella nota sottostante.
Dialoghi Mediterranei, n. 50, luglio 2021
Note
[1] M. Pasqualino, Vocabolario siciliano etimologico italiano e latino, Reale Stamperia, Palermo 1785, tomo I: 322.
[2] F. Ferrara, Marsala, «Giornale del Commercio», n. 21, 23-6-1845: 2-3.
[3] Annali di Statistica. Condizioni economiche della Provincia di Trapani, Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, 1896: 21.
[4] Ivi: 36-37.
[5] A. Giuffrida, Fonti di energia nella Sicilia rinascimentale. Motori umani, animali, a vento e idraulici, in H. Bresc, P. Di Salvo, Mulini ad acqua in Sicilia, LʼEpos, Palermo 2001: 11.
[6] H. Bresc, Mulini e paratori nel medioevo siciliano, in H. Bresc, P. Di Salvo, Mulini cit.: 32.
[7] L. Bonanno, Cose belle di Mazara. Guida panoramica, Tip. Grillo, Mazara del Vallo 1937: 38.
[8] Ivi: 42.
[9] D. Palermo, Le rivolte siciliane del 1647: il caso degli stati del principe di Paternò, in «Mediterranea – Ricerche storiche», anno IV, dicembre 2007, n. 11: 470.
[10] O. Cancila, La terra di Cerere, Salvatore Sciascia, Caltanissetta-Roma 2001: 35 e sgg; S.R. Epstein, Potere e mercanti in Sicilia. Secoli XIII-XVI, Einaudi, Torino 1996 (Cambridge University Press 1992): 274 e sgg.
[11] Il termine dialettale tumminu sta per tumolo che, nel caso specifico,era unità di misura di peso degli aridi, corrispondente a 1/16 della salma (pari a 2,75 ettolitri, circa Kg 220); quindi, un tumminu equivaleva a circa 0,172 ettolitri di grano (Kg 13,75).
[12] Il termine dazio era allora utilizzato in modo indifferenziato, per indicare qualsiasi tributo, non soltanto i diritti doganali.
[13] Progetto di legge presentato dal ministro delle Finanze (Sella) nella tornata del 13 dicembre 1865. Dazio sulla macinazione dei cereali, in Raccolta dei Documenti stampati per ordine della Camera, Legislatura IX – Sessione 1865-66, Firenze 1866, vol. II, dal n. 28 al n. 31: 38.
[14] Decreto ed istruzione con cui si stabilisce il reggime [sic] del macino in Sicilia, Napoli, 27 luglio 1842, art. XIII.
[15] Il cantaio o cantaro siciliano equivaleva a Kg 79,342.
[16] Decreto per la riscossione dei dazi di fondiaria e macino, Palermo, 3 maggio 1848, a firma del presidente della Camera dei Pari, duca di Serradifalco, e dal presidente della Camera dei Comuni, marchese di Torrearsa.
[17] Raccolta degli Atti del Governo dittatoriale e prodittatoriale in Sicilia (1860), Tip. F. Lao, Palermo 1861: 10.
[18] G. Marongiu, La tassa sul macinato: un nome vecchio per unʼimposta nuova, in «Rivista di storia dellʼagricoltura»,
[19] Archivio di Stato di Palermo, Prefettura – Archivio generale, b. 217, “Stato di tutti li Molini e Recinti dellʼIsola colle notizie della pernottazione che ha luogo dentro gli stessi”, Palermo, 7-9-1859.
[20] Prospetto delle entrate e delle spese per lʼamministrazione del macino in Sicilia dal 1843 al 1859, in Raccolta dei Documenti stampati cit., allegato, n. X: 352; gli importi sono espressi in ducati (moneta di conto napoletana). Il totale delle entrate era pari a ducati 3.581.292 (un ducato equivaleva a 1/3 dellʼonza siciliana).
APPENDICE
N. |
DENOMINAZIONE |
LOCALITA’ |
N. |
DENOMINAZIONE |
LOCALITA’ |
1 |
S. Pietro |
TRAPANI |
47 |
Paratore |
CALATAFIMI |
2 |
S. Anna |
48 |
Parisi |
||
3 |
Molino a Vento |
49 |
Gilferraro |
||
4 |
S. Liberale |
50 |
Carrubba |
||
5 |
Molino Staiti |
51 |
Arancio |
||
6 |
Racansile |
52 |
Arciprete |
||
7 |
Recinto |
VITA |
53 |
Guadagnino |
|
8 |
Spirito S. Balio |
MONTE (S. GIULIANO) |
54 |
Nuovo |
|
9 |
S. Marco |
55 |
Rocca |
||
10 |
Vapore |
56 |
Celso |
||
11 |
Ballata |
57 |
Celsi |
||
12 |
Buseto |
58 |
Grande |
||
13 |
Ciarotto |
PACECO |
59 |
Leone |
GIBELLINA |
14 |
Eolo (Talo) |
60 |
Stabile |
||
15 |
Ballotta |
61 |
Calatrasi |
||
16 |
Fontana Salsa |
62 |
Nuovo |
SALAPARUTA |
|
17 |
Xitta |
63 |
Vecchio |
||
18 |
Carmelo |
MARSALA |
64 |
Di Giovanna |
|
19 |
S. Agostino |
65 |
Ruvacato |
||
20 |
Salinella |
66 |
Donna 1° |
POGGIOREALE |
|
21 |
S. Carlo |
67 |
Donna 2° |
||
22 |
Terranova |
68 |
Donna 3° |
||
23 |
Matarocco |
69 |
Piano Castello |
MAZZARA |
|
24 |
Dara |
70 |
Solana |
||
25 |
Infersa |
71 |
Idem di Mezzo
|
||
26 |
S. Pantaleo |
72 |
Piana |
||
27 |
Lazzarella |
73 |
Staglio |
CASTELVETRANO |
|
28 |
Ponticello |
74 |
Gurghi |
||
29 |
Addolorata |
75 |
Miserandino |
||
30 |
n. i. (ruderi)
|
S. VITO |
76 |
Mezzo |
|
31 |
n. i. (ruderi)
|
77 |
S. Nicolò |
||
32 |
n. i. (ruderi)
|
78 |
Nuovo |
||
33 |
S. Vito |
79 |
Paratore |
||
34 |
Piana Alastri |
80 |
Manzogna |
||
35 |
Bonagia |
81 |
Frescante |
||
36 |
Orlando |
ALCAMO |
82 |
Davanti |
PARTANNA |
37 |
Maccione |
83 |
Di Mezzo |
||
38 |
Gorga |
84 |
Cartera |
||
39 |
Camporeale – Calatrasi |
85 |
Paratore |
||
40 |
Carollo |
CASTELLAMMARE DEL GOLFO |
86 |
Pirollo |
|
41 |
Bagni |
87 |
Nuovo |
||
42 |
Scopello |
88 |
Molinello |
S. NINFA |
|
43 |
Baida |
89 |
Gorgo |
SALEMI |
|
44 |
Biricci 1° |
90 |
Mezzoralia |
||
45 |
Biricci 2° |
91 |
Molinello |
||
46 |
Biricci 3° |
92 |
S. Clemente |
||
|
93 |
Nuovo |
|||
94 |
Puleo |
||||
95 |
Torre |
||||
96 |
Paratore |
||||
97 |
Serrabue |
||||
98 |
Passo Partanna |
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Rosario Lentini, studioso di storia economica siciliana dell’età moderna e contemporanea. I suoi interessi di ricerca riguardano diverse aree tematiche: le attività imprenditoriali della famiglia Florio e dei mercanti-banchieri stranieri; problemi creditizi e finanziari; viticoltura ed enologia, in particolare, nell’area di produzione del marsala; pesca e tonnare; commercio e dogane. Ha presentato relazioni a convegni in Italia e all’estero e ha curato e organizzato alcune mostre documentarie per conto di istituzioni culturali e Fondazioni. È autore di numerosi saggi pubblicati anche su riviste straniere. Tra le sue pubblicazioni più recenti si segnalano: La rivoluzione di latta. Breve storia della pesca e dell’industria del tonno nella Favignana dei Florio (Torri del vento 2013); L’invasione silenziosa. Storia della Fillossera nella Sicilia dell’800 (Torri del vento 2015); Sicilia del vino nell’800 (Palermo University Press 2019).
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