Nel panorama dell’editoria dedicata al fenomeno mafioso – invero negli ultimi anni abbastanza connotata da una presenza di pubblicazioni di non sempre adeguata qualità scientifica e di utilità nella divulgazione – ha suscitato un notevole interesse l’uscita recente, per la collana “Linea di Difesa” dell’editore trapanese Di Girolamo, del libro del giovane comunicatore ed insegnante Andrea Meccia dal titolo eloquente: Mediamafia. Cosa nostra tra cinema e TV.
Volendo inserire questa “fatica” del giovane studioso in un contesto molto più ampio, si può dire che la previsione che le attività relative all’informazione e alla comunicazione avrebbero avuto uno sviluppo esponenziale, in termini di applicativi tecnologici e di occupazione, è da lungo tempo una sorta di mantra che si ripete non solo negli ambienti dei professionisti del settore – giornalisti in testa – ma anche in tutti gli ambiti di analisi della società.
In questo senso, la banale considerazione che si può sempre opporre ai tanti che scoprono, in ogni dove e con una sospetta regolarità, novità assolute e fatti mai conosciuti prima, è che da sempre l’umanità ha avuto il problema di comunicare la realtà, magari spesso con la tentazione di raccontarla secondo una propria visione e con un’oggettività discutibile per definizione.
Quindi, la comunicazione che per l’umanità è insieme una necessità ed una vocazione, è facile immaginare che è anche una componente essenziale del potere, comunque si strutturi e qualunque siano i tipi e le forme di legittimazione sui quali può contare. La comunicazione era, per esempio, essenzialmente propaganda con la quale i regimi supportavano il loro consenso, spesso ottenuto sul campo con mezzi meno edificanti di quelli contrabbandati come verità oggettive, rese ancora più credibili dall’uso addomesticato dei primi media a importante contenuto tecnologico. Quindi, i media, strumenti di straordinaria diffusione delle informazioni, con grandi vantaggi in tutti i campi, sono da sempre anche elementi capaci di diffondere una narrazione di episodi e, più in generale, del contesto sociale, non sempre aderente alla realtà, ma più propensa a dimostrare tesi precostituite.
A questo punto, spostando il nostro punto di osservazione sul come è stata raccontato un potere criminale come la mafia, soprattutto quella di più rilevante tradizione mediatica come Cosa Nostra siciliana con le storiche interazioni con la criminalità organizzata attiva nel continente nordamericano, noteremo che questa organizzazione, ha mostrato, da sempre e più che altre, una connotazione dai forti elementi sistemici, sul piano politico-culturale e socio-economico.
Il viaggio di Meccia è condotto ad ampio spettro d’analisi, nonostante concentri la sua osservazione ai “reperti” presentati da cinema e televisione, analizzando con molta cura film, fiction e eventi ad essi riconducibili che raccontano la mafia. Con questo metodo riesce a dimostrare il fondamento della sua critica ai tanti stereotipi affermatisi, anche in una filmografia moderna, ma senza trascurare alcuni contenuti lungimiranti e motivazioni artistiche, spesso nate da una sincera volontà di impegno civile, che hanno trovato una più realistica ed efficace trattazione in alcuni film di particolare qualità, capaci di evidenziare il contesto sistemico delle vicende raccontate.
Attenta e puntuale è l’analisi di Andrea Meccia su tutta una produzione – sia cinematografica che televisiva – ispirata ad una sorta di agiografia fuorviante della mafia e, in questo senso, il giudizio non è solo legato al valore di espressione artistica del film stesso, ma ad una considerazione più ampia circa gli effetti prodotti nella società. Solo per fare un esempio particolarmente noto, il celebre film Il Padrino di Francis Ford Coppola contiene sicuramente apprezzabili contenuti tecnico-artistici che armonizza, anche magistralmente, in una storia credibile, offrendo una prova assolutamente straordinaria di eccezionale sapienza e sensibilità registica e fotografica. Inoltre, il film esprime un’efficacissima capacità di narrazione con grandissimi attori e una sceneggiatura che, per risultare accattivante e coinvolgente, non richiede quei ritmi particolarmente stringenti che spesso sembrano l’unica risorsa per fare accettare prodotti di scarsa qualità.
Tutti questi meriti non escludono – come opportunamente fa notare l’autore di Mediomafia – che il film e la successiva saga di Coppola sulla famiglia siciliana emigrata da Corleone siano altamente apologetici e fuorvianti rispetto ad una lettura della natura e della caratterizzazione e degli effetti che i fenomeni di mafia e corruzione socio-politica ed istituzionale hanno avuto nelle società degli Stati Uniti e della Sicilia, teatri incrociati della storia, tratta dal fortunato libro di Mario Puzo.
Il connubio rassicurante tra un presunto equilibrio dei boss più autorevoli, derivante dai valori di una tradizione fatta di principi in grado di assicurare una funzione regolatrice della società che, insieme, si sostituisce e si integra a quella formalmente detenuta dalla Stato, rischiano di tramandare la “mostruosa favola” di una mafia “buona” e necessaria.
Più netta appare l’evidenza di un rischio di mistificazione presente nella fiction televisiva, che usa i suoi codici attualizzati ai gusti recenti per confezionare prodotti – quasi mai meritata la denominazione di opera – di inferiore qualità intrinseca e, spesso, perfino di grossa approssimazione storica. Nel libro viene affrontata, riportandone le diverse voci, la polemica sulla fiction televisiva sul Capo dei capi che attirò molte ed aspre critiche da parte di coloro che denunciavano la celebrazione di un criminale particolarmente sanguinario come Totò Riina. Questa protesta sulla costruzione del personaggio protagonista, ancorché motivata, forse ridimensionava le critiche, probabilmente più meritate, riguardanti l’intero progetto sul quale uno degli sceneggiatori, Claudio Fava, forse si attardava in una difesa piuttosto improvvida, scomodando perfino categorie psicologiche, francamente improprie, per difendere un progetto ed una realizzazione decisamente mal riusciti in tutte le sue componenti tecnico-artistiche e culturali.
Ma all’autore, evidentemente, non interessava schierarsi in un dibattito, inevitabilmente influenzato da difese precostituite di “tifosi ultras” di entrambi i campi e, quindi, mantiene un’osservazione esterna, quella che più interessa l’ambito ampio di una società. Infatti, allo studioso dei fenomeni di massa, della fiction de “il capo dei capi”– del quale è intuibile che Andrea Meccia non è un estimatore – interessano di più gli elementi rivelatori dell’umore di un evento di forte impatto mediatico che «fotografa con ferocia la nudità ideologica e intellettuale in cui il Paese, un corpo litigioso e allo stesso tempo inconcludente, sembra essere sprofondato.(…). il dibattito su uno sceneggiato televisivo appare il sintomo di una società malata e rissosa».
Ma il testo non si ferma solo ad analizzare acutamente i prodotti che affrontano direttamente lo specifico mafioso, ma anche quelli che lo utilizzano per finalità commerciali, segnando, per esempio, un richiamo positivo ad eroi dell’antimafia come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Un fatto, questo, certo significativo che, però, d’altra parte, ha determinato l’utilizzo dell’immagine dei due magistrati palermitani, per ricostruire attorno ad un marchio commerciale una storia di successi che identificava un’azienda con un’intera società, ma senza entrare nella complessità di un rapporto del genere – comprese le responsabilità sociali – di una grande intrapresa economica in un Paese in cui è stata parte importante e riconosciuta.
In questo senso, potrebbe costituire un brano di notevole valore didattico la ricostruzione realizzata in Mediamafia della importante campagna pubblicitaria realizzata dalla Fiat di Marchionne sulla nuova 500 che, con la collaborazione di un esperto di comunicazione socialmente sensibile come Gramellini, doveva “saldare” la Fiat tra passato e futuro dell’Italia. Per la verità, adesso sembra che tra la casa automobilistica – ormai molto relativamente italiana e, forse, ancor meno torinese – le cose stiano andando diversamente da come preconizzava quella imponente campagna pubblicitaria. Magari Meccia, con lo sguardo dell’autore “di razza” che per innato acume intellettuale va sempre oltre il suo specifico, ha visto bene anche in questo caso e, comunque, queste pagine dedicate all’utilizzo da parte della Fiat dell’immagine di Falcone e Borsellino – come di altre di eroi positivi, ma non così tragici – come si dice nell’immediato ed efficacissimo gergo calcistico delle prodezze degli autori, da sole valgono il prezzo del biglietto, anzi del libro, e forse meriterebbero un posto anche in manuali didattici sulla comunicazione
È, infatti, per un libro utile e ben riuscito – almeno come ritiene Mediamafia di Meccia chi segna queste modeste note – vocazione inevitabile, talvolta perfino sconosciuta alle intenzioni dell’autore, tracciare percorsi in cui la materia osservata rivela tutto quello che le è stato intorno e, quindi, finisce per intrecciare percorsi in cui la cronaca – più o meno recente – si collega a quella che è già Storia. Il lavoro di Media, se non è il semplice richiamo ad un folklorismo del tutto insensato e pur sempre declinabile in tempi e modalità diverse, è in grado di raccontare la vera essenza delle forme dei sistemi mafiosi. Proprio sistemi, ossia aggregati complessi, collegati ed organizzati concretamente per realizzare un’occupazione dei settori vitali della società e delle istituzioni, finalizzata al controllo di interi territori per la maggiore accumulazione economica possibile, attraverso l’affermazione di un potere criminale e antidemocratico per definizione.
In questo senso anche i media – soprattutto quando guidati in modo accorto ed intelligente – raccontano fenomeni complessi e rilevanti come quelli riconducibili alle organizzazioni e ai loro territori di riferimento e, quindi, fanno Storia, ma nel senso che introducono in essa. Non si fa mai la Storia, nel senso completo del termine, solo attraverso alcuni punti di osservazione, per quanto ampi e significativi, negando una complessità ancora più ampia di quello di un qualsiasi fenomeno umano, anche straordinariamente complesso come la mafia che, come ricordava Giovanni Falcone, con il suo genio normale e mai idealizzato, «è un fenomeno umano è come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine».
Il percorso di indagine e di elaborazione che porta avanti Meccia nel suo Mediamafia è in grado di raccontare – e quando è il caso, di disvelare – l’apporto dei media, con i suoi prodotti più rilevanti indagati senza particolari valutazioni di merito, ma solo per il loro significato assunto nell’ambito vasto della comunicazione. Ma lo stesso percorso è in grado di aprire squarci nell’innata capacità delle mafie di comunicare con il proprio territorio, mostrando ad un tessuto sociale, culturalmente consenziente, significati che raccontano una realtà, di fatto determinata e dominata dai propri codici e dal proprio potere. Una mafia che racconta e contrabbanda l’ineluttabilità della propria esistenza dominante e, quindi, l’impossibilità che possa esistere una prospettiva diversa in cui i sistemi sociali non si sviluppino per assicurare poteri dispotici di pochi e, all’occorrenza, violenti.
Questo è lo scenario in cui la mafia mette a regime vantaggioso, per la sua organizzazione e per il suo riconoscimento, una delle tante apparenti contraddizioni che le hanno consentito di adattarsi ai cambiamenti socio-economici, anche profondi, che la società ha imposto nel tempo. La mafia – così com’è stata capace di essere insieme arcaica e innovativa nel suo codice culturale e nelle sue forme organizzative e relazionali – è stata sempre altrettanto capace di imporre una comunicazione efficace e vincente a diversi livelli, nonostante l’aurea di mistero che veniva alimentata artatamente.
In realtà, la capacità di comunicazione della mafia è stata e continua ad essere efficacemente realizzata attraverso l’uso spregiudicatamente attento e diffuso del suo potere, sempre ben riconoscibile, con il quale riusciva a rendere la segretezza – oltre che canonica secondo tradizione – folkloristica nell’immaginario collettivo di chi non la viveva da vicino.
Quella dell’organizzazione mafiosa era segretezza realizzata come un fatto assolutamente tecnico, magari da utilizzare per i giudizi civili che in qualche caso bisognava pure affrontare, ma con buona probabilità di vincerli per portare avanti la propria capacità di influenza nella società attraverso un’idea di invincibilità che stava dentro le cose e, potenzialmente, dentro ogni persona. La segretezza della mafia è da sempre interpretabile come una forma evoluta di strategia comunicativa. Per questo risulta addirittura geniale l’incipit della premessa al suo libro, quando Meccia richiama le parole di un uomo come Beppe Viola, dotato di una intelligenza ed una sensibilità che gli impedivano di rimanere dentro i confini di una professione, fosse quella di giornalista sportivo o di cronaca, oppure quella dell’autore, insieme struggente e scanzonato, di testi di canzoni e monologhi di strada. Quelle perle di passione, spesso semplicemente surreale come spesso è la vita, cantate e recitate da un altro grande come Enzo Jannacci, anche lui impossibile da incasellare, tra cardiochirurgia e canzone d’autore, perché anche lui, come altri di quella “scuola”, era incapace di stare sulla terra e dentro la vita perché aveva sempre l’anelito di andare oltre, sempre oltre e di più.
L’autore esplicita, senza alcun ritegno, che non considera ispiratori del suo lavoro i tanti testi sacri della comunicazione sociale, che pure governa con professionale maestria, acuta erudizione e sensibilità culturale. Andrea Meccia scrive all’inizio della sua prefazione, «Quelli che…la mafia non ci risulta», proprio il verso di Beppe Viola cantato da Enzo Jannacci, per poi dichiarare, con la spregiudicata onestà dei grandi autori, che «alla base di questo libro ci sono queste poche parole, apparentemente banali, realmente ironiche, profondamente amare». Un verso, quello di Viola, che descrive la comunicazione e la capacità della mafia di stare nella società, con molta più verità di tanti trattati di mafiologia e interviste a presunti personaggi illuminanti la letteratura sulla mafia.
Sicuramente Andrea Meccia con il suo Mediamafia è riuscito a dimostrare di non avere scritto di mafia perché “è un argomento che tira”, ma solo perché aveva delle cose da dire sull’argomento e anche abbastanza utili ed importanti.
Dialoghi Mediterranei, n.12, marzo 2015
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