il centro in periferia
di Roberta Tucci [*]
La mappa di comunità rappresenta sicuramente uno dei risultati più interessanti e più specifici dell’attività ecomuseale (de Varine 2021: 115-116, 164-167). Alla sua base vi sono due condizioni imprescindibili: la ricerca del patrimonio sul territorio e la partecipazione degli abitanti. A monte inoltre vi è sempre un progetto complessivo che si sviluppa nel tempo mettendo in campo molti diversi attori e richiedendo a tutti un impegno non indifferente in termini di tempo, di coinvolgimento, di scavo; si conclude con la produzione di un prodotto materiale, di carta o di cartoncino, di vario formato, frutto dell’elaborazione grafica dei contenuti emersi e selezionati durante la lavorazione.
Nel contesto processuale entro cui viene realizzata, appositamente indotto da un ecomuseo, la mappa può venire ripresa, rielaborata e modificata nel tempo, senza limiti, finché vi sia la volontà di farlo da parte della comunità. Le successive versioni potranno variare o integrare la prima, in seguito alla ridefinizione sociale del gruppo operativo, oppure a un ricambio generazionale che mette in campo nuovi soggetti, oppure al proseguimento dell’attività di ricerca e alla produzione di documentazioni di approfondimento. Tuttavia, nel momento in cui una mappa viene realizzata, essa rappresenta un fermo-immagine dell’autorappresentazione di una “comunità”, o meglio di un gruppo di persone che in un dato luogo e in un dato tempo si riconoscono perché in possesso di tratti comuni. La mappa coglie il punto di vista locale: mostra come un contesto umano rappresenti sé stesso, il proprio territorio, la propria storia e la propria memoria.
Già da questi pochi accenni appaiono evidenti l’unicità, l’originalità e il valore dello strumento; la sua elevata complessità richiede la definizione di un preciso metodo di lavoro da applicare di volta in volta, da adattare e da affinare con la pratica e l’esperienza. Nella produzione di una mappa di comunità le modalità di lavoro diventano centrali: in mancanza di una specifica metodologia e del necessario controllo di tutta la “filiera”, il risultato finale non riesce a essere efficace e può apparire a volte deludente o scontato.
La mappa della Parrocchia di S. Maria Maddalena, realizzata dall’Ecomuseo delle Acque del Gemonese (Tondolo 2022) fra il 2015 e il 2016 e pubblicata nel 2016, mi pare possa rappresentare un significativo esempio e un buon modello a cui fare riferimento, essendo essa giunta al culmine di una produzione di mappe avviata da tempo dall’Ecomuseo e via via perfezionata negli anni. Si riferisce a sette piccole borgate adagiate sulle pendici orientali del monte Cuarnan, in una porzione di territorio afferente in gran parte al Comune di Montenars (Ud): Flaipano, Mation, Patuocina, Frattins, Cretto di Sopra, Cretto di Sotto e Pers. Materialmente è un poster di grande formato, disegnato dall’illustratore Luigino Peressini.
In questa mappa vediamo rappresentati lo spazio e il tempo in incroci asincroni: tempi che si sovrappongono a luoghi e viceversa, secondo cronologie segmentate. La rappresentazione cartografica lineare si interseca con gli eventi storici: la storia remota dei Longobardi e la storia contemporanea del terremoto del 1976 che ha rappresentato uno spartiacque sempre presente nella vita dei friulani. Ma oltre al tempo ordinario della storia c’è anche il tempo extra-ordinario del mito, della fiaba, del racconto, delle storie di vita: motivi persistenti come memoria di memorie stratificate ma anche come attuale consuetudine espressiva.
L’abbinamento non lineare dello spazio con il tempo appare un tratto del tutto specifico delle mappe di comunità. Non credo vi siano altri analoghi esempi nelle cartografie ufficiali. Le carte geografiche, fisiche, stradali contengono le sole rappresentazioni spaziali. Le mappe storico-politiche restituiscono rappresentazioni spazio-temporali sincrone, mostrando come la Storia, quella ufficiale, abbia determinato e modificato nel tempo le delimitazioni dei territori geografico-amministrativi: hanno quindi tutt’altra impostazione e funzione. Per alcuni aspetti le mappe di comunità possono avvicinarsi alle carte tematiche sviluppate negli anni sessanta/settanta del Novecento, soprattutto in Francia, quale frutto sperimentale di una lettura etnografica dei territori, rimasta tuttavia allo stato embrionale: si partiva dalla ricognizione del patrimonio culturale materiale e immateriale in un dato territorio, in senso ampio, per poi collocare, su una cartografia di base, i diversi simboli grafici che rinviavano agli elementi localizzabili del patrimonio stesso. Si poteva trattare di edifici storici, o di scavi archeologici, così come di pratiche tradizionali viventi, ad esempio una produzione di tegole di legno, oppure di cesti intrecciati, oppure ancora di strumenti musicali ecc. C’era l’esigenza di valorizzare i patrimoni locali secondo accezioni ampie, in una logica inventariale. Ovviamente la realizzazione di queste carte tematiche non prevedeva una specifica partecipazione da parte delle popolazioni: il punto di vista che le orientava era quello che potremmo definire “esperto”, con una finalità di ricerca scientifica, di ricognizione etnografica, di restituzione pubblica. Le successive versioni turistiche delle carte tematiche hanno poi appiattito del tutto questo tipo di esperienza.
La mappa di comunità degli ecomusei si distingue in modo netto per essere situata su un altro piano: quello di chi vive in un territorio e ha con esso una forte intimità culturale, fatta di esperienze, abitudini, eredità, stratificazioni, che non sono sempre immediatamente evidenti al di fuori di uno stesso, particolare, contesto sociale. Proprio per tale motivo la sua applicazione riguarda di solito realtà territoriali di dimensioni piuttosto ridotte. Nella mappa la relazione libera fra lo spazio e il tempo, di cui ho sinteticamente detto, porta al superamento di ogni limite. Essa rappresenta il massimo della fantasia, della “immaginazione al potere”: ci autorappresentiamo come vogliamo e non ci interessa ancorarci a un discorso di filologia cartografica o di filologia storica. Dentro la mappa dunque la storia s’intreccia e si confonde con la memoria: memoria di ciò che è stato, di ciò che si è vissuto, di ciò che è stato raccontato. Anche la memoria in qualche modo riporta alla storia, però si tratta di una memoria sostanzialmente orale che attiene alla storia non scritta, un altro tipo di storia. Da questo punto di vista si può immaginare quanto l’attività del gruppo di lavoro che ha prodotto la mappa sia stata interessante e stimolante, anche come momento di autoriflessione.
Nella mappa della Parrocchia di S. Maria Maddalena il patrimonio culturale appare strettamente connesso al territorio: si tratta di un abbinamento centrale per le stesse attività ecomuseali. Ma di quale patrimonio parliamo se non di quello percepito come tale dalle comunità di riferimento? Così, ad esempio, in questa mappa sono evidenziati i tanti roccoli presenti nel territorio di Montenars: le strutture vegetali per la cattura degli uccelli, che non sono assimilabili a beni culturali mobili o immobili, trattandosi di “architetture” arboree effimere, conservabili solo in quanto sottoposte a una continua manutenzione da parte dei proprietari grazie anche al sostegno progettuale dell’Ecomuseo delle Acque (Petrella 2014; Englaro 2019). I roccoli costituiscono sicuramente una delle evidenze di maggiore interesse in questa area, contribuendo a caratterizzarne il paesaggio in modo forte: nella mappa sono tutti riportati e quasi tutti nominati.
Accanto a case, chiese, campanili, ponti, sorgenti, fontane, pozzi, crocifissi, cimiteri, nella mappa trovano posto anche lavori agricoli, animali selvatici e d’allevamento, eventi festivi e rituali del ciclo dell’anno, figure magiche, famiglie, contadini e contadine con i loro strumenti agricoli, cibi. Non si tratta dunque di un inventario classico di beni culturali, quanto piuttosto di una libera ricapitolazione degli elementi che rivestono significato e importanza per gli abitanti. La mappa si compone di focus selezionati, punti d’interesse attraverso cui la comunità locale ridefinisce il proprio spazio domesticato, condizione della sua stessa esistenza, e lo spazio vi è rappresentato senza alcuna separazione fra centri abitati e campagna, fra luoghi antropizzati e luoghi naturali, essendo questi ultimi anch’essi frutto di stratificazioni nel tempo, di interventi o di non-interventi umani. Si tratta di un tutto connesso, percepito nel suo insieme.
Dunque il patrimonio culturale qui rappresentato coincide solo in minima parte con ciò che potrebbe interessare a una Soprintendenza statale impegnata nelle sue funzioni di tutela dei beni culturali secondo il sistema pubblico di norme giuridiche, di procedure amministrative, di riconoscimenti e di attribuzioni di valore sulla base di criteri tecnico-scientifici. Ovviamente la presenza di beni culturali ufficialmente accertati nel proprio territorio non è affatto disconosciuta dalle popolazioni locali, per le quali, tuttavia, il patrimonio inteso in senso ecomuseale è fatto anche di tanto altro: nella mappa lo vediamo e vediamo come gli elementi che lo compongono assumano significato nei loro contesti e nelle loro relazioni. C’è anche molto patrimonio immateriale: feste, riti, credenze, letteratura orale formalizzata e non. In tutta evidenza la distinzione fra patrimonio materiale e patrimonio immateriale, che oggi si tende a mettere in rilievo, qui non ha rilevanza: la mappa punta a interconnettere i vari elementi rappresentati, non a esaminarli separatamente, e l’obiettivo è piuttosto quello di far emergere gli aspetti più “nascosti”, più interni del patrimonio condiviso attraverso l’evidenziazione di dettagli significativi.
Nella mappa, accanto al tema centrale della memoria, troviamo anche modalità di fare, di operare concretamente. Vi sono, ad esempio, una quantità di miniature di contadine e di contadini che lavorano, espongono gesti, posture; forse anche loro sono ormai in parte memoria, ma si tratta pur sempre di una memoria di pratiche e non di una memoria fatta di sole memorie. La mappa riflette e consolida anche il tempo presente, il modo di vivere della gente, con le sue precise caratteristiche che magari non sempre appaiono in modo chiaro, ma c’è uno stile locale che si percepisce e che permane. Lo stesso ciclo dell’anno sintetizzato nella mappa rinvia a un “eterno presente” in cui ogni elemento calendariale si ripresenta e ha termine, lasciando una memoria che non è un unicum ma si rinnova l’anno successivo, quando l’evento viene riattivato: così la festa di S. Maria Maddalena che si tiene annualmente a Flaipano il 22 luglio, richiamata nella mappa, è un evento nel momento in cui avviene e subito dopo diventa memoria, ma l’anno successivo sarà di nuovo un evento e così via.
Per la loro natura iconica le mappe di comunità sono dotate di intrinseche capacità comunicative, anche se le tipologie della comunicazione possono essere estremamente differenziate. La capacità comunicativa di una mappa dipende da tanti fattori: i risultati della ricerca effettuata, la profondità dello scavo, la progettazione da parte del gruppo di lavoro, la capacità del disegnatore, la tipologia del disegno, della colorazione. Ovviamente la grafica ha un buon peso nel determinare il potenziale comunicativo di una mappa, ma il solo aspetto estetico resta comunque limitato perché il contenuto della rappresentazione può venire colto a pieno solo dalla comunità che l’ha ideata e che è in grado di decodificarla integralmente e intimamente. Per chi la guarda da fuori molti elementi possono restare del tutto o in parte indecifrabili e questo, lungi dall’essere un difetto, è invece un punto di forza, perché sta a significare che la mappa ha raggiunto il suo obiettivo di essere uno strumento “personalizzato”, per certi versi “parziale” e “radicale” di lettura del territorio: un’autolettura, che non è orientata da fini divulgativi o turistici, perlomeno come fini principali.
Per poter condividere e socializzare la mappa anche al di fuori della sua comunità di riferimento è buona regola affiancarvi una pubblicazione che aiuti a decodificare i vari contenuti attraverso testi, immagini, liste di fonti, integrazioni, aggiornamenti dei dati di ricerca, ecc., in modo da conferire alla rappresentazione cartografica delle chiavi di accesso alla lettura. Si tratta di una pratica che ovviamente fa lievitare costi e tempi, a cui comunque l’Ecomuseo delle Acque cerca di attenersi il più possibile: anche in questo caso è prevista una pubblicazione di accompagnamento, attualmente in lavorazione.
Tornando agli aspetti comunicativi, la mappa di comunità della Parrocchia di S. Maria Maddalena si avvale di una realizzazione grafica veramente accattivante, grazie al già citato disegno di Luigino Peressini a cui si aggiunge il colore di Elena Ganis. Rispetto alle precedenti mappe prodotte dall’Ecomuseo delle Acque qui c’è maggiore complessità, ci sono maggiori elementi e c’è un maggiore intreccio. La rappresentazione è fortemente analitica e ricapitolativa. Se torniamo a vedere la prima mappa prodotta dall’Ecomuseo, quella di Godo, frazione di Gemona (2010), troviamo un modello completamente diverso: una mappa impiantata sull’evento di frattura, il prima e il dopo terremoto, costituita da pochissimi elementi, estremamente sintetica e anche in un certo senso “misteriosa”, basata su un sentimento del luogo che solo gli abitanti possono cogliere. Nella mappa della Parrocchia di S. Maria Maddalena, al contrario, c’è una sovrabbondanza di contenuti visivi e scritti, molto colore, un tratto fumettistico. Si percepisce che è il risultato di un’attività ecomuseale che ha raccolto, gestito e coordinato una gran mole di contenuti, ma è anche il risultato della visione del disegnatore che ha saputo cogliere, secondo il suo stile grafico e la sua idea di composizione, i tanti tasselli spazio-temporali emersi. La mappa è molto dettagliata, con rappresentazioni di diversa scala: la sua lettura richiede di indossare ogni volta occhiali di gradazioni differenti per poter abbracciare, oltre alla visione d’insieme, sia le immagini in primo piano che i numerosi particolari, le miniature di cose, uomini, animali, attività, paesaggi. Tanta è la concentrazione degli elementi del patrimonio, affiancati, affastellati, che si ha l’impressione di avere a che fare con una comunità numericamente grande, mentre in realtà le popolazioni di quel territorio sono e sono sempre state di scarsa entità.
La mappa contiene una quantità di dati documentali di notevole interesse. Uno di questi riguarda sicuramente la restituzione toponomastica, anch’essa molto particolareggiata, restituita nella locale parlata di origine slava – ma tutta la mappa è in quella lingua. Riguarda i territori di campagna, di collina, di montagna ed è in effetti una micro-toponomastica, difficilmente presente, con un tale livello di dettaglio, nelle cartografie ufficiali, comprese le “tavolette” dell’Istituto Geografico Militare. Si tratta di una toponomastica di trasmissione prevalentemente orale: nomi di luoghi che le persone nate e vissute qui conoscono per averli appresi dalle generazioni precedenti, ma anche per un’abituale, contemporanea, frequentazione del territorio. I toponimi degli spazi aperti, in modo più complesso di quelli urbani, implicano la conoscenza non solo dei nomi, ma anche dei confini che delimitano quegli stessi luoghi: si tratta di saperi tramandati soprattutto attraverso l’esperienza, difficilmente accessibili in altro modo.
I nomi dei luoghi, i confini, sono importanti per i contesti umani, per definire le identità locali: qui ci siamo noi, lì ci sono gli altri. I luoghi nominati sono luoghi conosciuti, domesticati: una volta che li abbiamo nominati, li conosciamo e li governiamo con sicurezza, perché li abbiamo inseriti in sistemi linguistici e in sistemi di regole, in altri termini li abbiamo resi elementi del nostro patrimonio culturale.
Come si è visto, la mappa di comunità è un prodotto materiale, tangibile: si può appendere a una parete di casa, di un bar, di uno spazio pubblico; la si può avvolgere, conservare e tornare a guardarla infinite volte. Rappresenta un “oggetto di affezione” e un punto di riferimento per gli abitanti che vi si riconoscono. Può tuttavia essere anche vista come uno strumento a partire dal quale progettare ulteriori attività ecomuseali a essa connesse, secondo varie direzioni: soprattutto approfondimenti e riflessioni.
La mappa della Parrocchia di S. Maria Maddalena contiene molti elementi suscettibili di approfondimento. Un primo approfondimento si potrebbe collocare sulla scia dell’attività sinora effettuata e concerne la prosecuzione dello scavo archivistico e della ricerca etnografica a livello locale, con la produzione di ulteriori documentazioni scritte e audiovisive. In parte ciò è già avvenuto con la Carta della toponomastica di Flaipano, Frattins, Cretto di Sopra, Cretto di Sotto e Pers (2017), sviluppata da Romeo Crapiz, a integrazione del patrimonio toponomastico precedentemente rilevato (https://grandistoriedipiccoliborghi.blogspot.com/2017/09/la-carta-della-toponomastica-di.html). Ma si potrebbe proseguire continuando a lavorare sulla contemporaneità, non solo sulla memoria. Forme, stili, modalità di comportamento, e così via, distinguono concretamente un territorio da un altro e lo rendono particolare. Gli abitanti possiedono una familiarità con i luoghi e con i contesti umani in cui sono immersi che non è acquisibile in modo estemporaneo da parte di chi non condivide la stessa esperienza, perché è il frutto stratificato di un’eredità culturale acquisita, vissuta nella quotidianità e stabilmente incorporata. Quello che agli abitanti può sembrare la normale quotidianità è invece già patrimonio vivente: un patrimonio che sicuramente la ricerca etnografica può contribuire rendere (più) visibile.
Un secondo indirizzo di approfondimento, che potrebbe integrare le chiavi di lettura locali, riguarda l’utilizzo delle fonti demologiche in senso comparativo. Il territorio di Montenars è stato agricolo e contadino, almeno fino al terremoto del 1976 in seguito al quale l’assetto si è modificato rapidamente. La mappa lo testimonia con chiarezza. Come ho già accennato, vi compaiono abitazioni rurali, lavori agricoli, allevamento di bestiame, famiglie, feste, riti, religiosità popolare, fiabe, filastrocche, cibi, musica, ballo: tutti elementi largamente presenti negli studi italiani di folklore e di demologia, almeno dalla fine dell’Ottocento. Un modo “comparativo” di utilizzare le fonti demologiche consentirebbe di mettere a confronto i modelli rappresentati nella mappa (ad esempio il ciclo dell’anno, le figure magiche, il cibo) con analoghi modelli rilevati in quegli stessi o in altri territori, in analoghi contesti di tradizione agro-pastorale. Si scoprirebbero, da parte degli abitanti, inaspettate similarità e coincidenze e si acquisirebbe una conoscenza extra-locale che potrebbe aggiungersi al punto di vista locale, senza che l’una escluda l’altro: al contrario, la consapevolezza del valore anche “nazionale” di determinate eredità culturali locali, interconnesse con le diversità culturali presenti sul territorio italiano, rafforzerebbe la propria appartenenza e suggerirebbe di assumere un atteggiamento più prudente circa le attribuzioni di valore identitario.
Un terzo percorso di approfondimento potrebbe riguardare l’oralità, a cui ho già fatto molti accenni. Non si tratta evidentemente di un’oralità primaria, ma piuttosto di una modalità attraverso cui gli stili individuali si conformano a modelli tramandati, socialmente condivisi e incorporati, mantenendo una buona possibilità di variazione, o di micro-variazione, all’interno di ciascun modello. Come esempio di questo tipo di meccanismo creativo si potrebbero prendere in considerazione le pratiche di preparazione di determinati cibi che compaiono nella mappa e che sono parte di modelli alimentari diffusi localmente sulla base di tradizioni areali e familiari: ocìcana, mòsnec, gramperèssa sono tutte varianti del modello “polenta”, come testimonia la raccolta di preparazioni alimentari rilevate durante il lavoro di ricerca che ha accompagnato la realizzazione della mappa (Crapiz e Tondolo 2019). In un approccio ravvicinato a tali pratiche alimentari viventi si nota come una stessa preparazione raramente venga eseguita secondo modalità identiche da una casa all’altra, anche in un perimetro circoscritto: al contrario, le modalità variano, magari anche di pochissimo, mentre resta sempre riconoscibile l’esistenza del sottostante e unificante modello che nel fare viene costantemente sottoposto a interpolazione.
Il meccanismo “orale” comporta una notevole dinamica culturale e genera forme di creatività che vanno colte nel dettaglio: è proprio il dettaglio che diventa l’elemento rivelatore di diversità e di specificità. Il mantenimento in vita di questo meccanismo è un antidoto al conformismo: essere proiettati nel mondo globale può anche andare bene, purché si mantenga la consapevolezza e la pratica della propria distinzione locale, in modo da conferire senso al vivere in un determinato luogo.
Ulteriori possibilità di approfondimento a partire dalla mappa potrebbero andare in una direzione prettamente politica, affrontando il problema dello spopolamento dei piccoli insediamenti periferici secondo il concetto di “restanza” sviluppato da Vito Teti (2022), vale a dire, «un fenomeno del presente che riguarda la necessità, il desiderio, la volontà di generare un nuovo senso dei luoghi»: un nuovo senso dei luoghi che ne renda possibile l’abitabilità, che sia radicato nel patrimonio di conoscenze, di pratiche, di etiche sedimentato in lunghe durate e inestricabilmente relazionato con i contesti naturali di cui gli stessi luoghi sono parte. La mappa offre diversi spunti per immaginare la possibilità di sviluppi economici di piccola scala, compatibili con quei contesti umani e con quell’ambiente, in continuità con alcuni elementi del passato, non da ripetere pedissequamente ma di cui mantenere il senso profondo di un equilibrio ecologico, di un uso rinnovabile della terra, dei boschi, delle acque, degli animali, cogliendo, come suggerisce Mauro Varotto, un processo in divenire secondo cui: «luoghi apparentemente perdenti sono tornati al centro di movimenti di “nuova resistenza” ai modelli dominanti di standardizzazione, specializzazione e intensificazione produttiva» (Varotto 2020).
In questo senso il patrimonio, che la mappa rappresenta secondo l’ampia accezione di cui ho detto, può diventare il perno intorno a cui far ruotare l’utopia concreta di uno sviluppo “su misura”: una sfida non da poco per un ecomuseo.
Dialoghi Mediterranei, n. 59, gennaio 2023
[*] Si ringrazia l’Ecomuseo delle Acque del Gemonese (https://www.ecomuseodelleacque.it/) per avere consentito la pubblicazione in anteprima di questo testo che è in via di pubblicazione nel notiziario Isaura.
Riferimenti bibliografici
Crapiz R. – Tondolo M. (a cura di), 2019, Jesti ti dan bot/ Mangiare come una volta, Gemona del Friuli, Ecomuseo delle Acque.
De Varine H., 2021, L’ecomuseo singolare e plurale. Una testimonianza su cinquant’anni di museologia comunitaria nel mondo, Gemona del Friuli, Utopie Concrete.
Englaro M. (a cura di), 2019, La verde attrazione. Guida alle architetture del verde: uccellande storiche in Friuli, testi di M. Tondolo, Roma, Gangemi.
Petrella A., 2014, I roccoli di Montenars. Storie di uomini, donne, alberi e uccelli, Gemona del Friuli, Ecomuseo delle Acque.
Teti V., 2022, La restanza, Torino, Einaudi.
Tondolo M., 2022, “L’Ecomuseo delle Acque del Gemonese, un’agenzia per lo sviluppo sostenibile del territorio”, in Dialoghi Mediterranei, 54.
Varotto M., 2020, Montagne di mezzo. Una nuova geografia, Torino, Einaudi.
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Roberta Tucci, docente della Scuola di Specializzazione in Beni demoetnoantropologici di “Sapienza” Università di Roma, ha effettuato ricerche di interesse etnomusicologico ed etno-oganologico in Calabria e in altre regioni centro-meridionali. Si è occupata di catalogazione dei beni culturali demoetnoantropologici presso il Centro Regionale di Documentazione della Regione Lazio e presso l’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione del Ministero della cultura. Dal 2016 è membro del Comitato tecnico-scientifico dell’Ecomuseo delle Acque del Gemonese. Tra le sue pubblicazioni: Le voci, le opere e le cose. La catalogazione dei beni culturali demoetnoantropologici, Roma, ICCD, 2018; “Ricerca e catalogazione della cultura popolare”: una sperimentazione consapevole, in L’eredità rivisitata, a cura di A. Ricci, Roma, CISU, 2019; Rievocazioni storiche, feste tradizionali, beni demoetnoantropologici: qualche considerazione, in Feste tradizionali e rievocazioni storiche, a cura di F. Trovò, Saonara, Il Prato, 2020; I beni culturali etnografici nella Commissione Franceschini: una presenza marginale, in “Il capitale culturale”, 23, 2021; I beni culturali DEA nel Ministero della Cultura fra oblii, riconoscimenti, apparentamenti, marginalità, in “Dialoghi Mediterranei”, 58, 2022.
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