di Stefania Morreale
Le riflessioni presenti all’interno di questo breve articolo prendono l’avvio da quello che è stato il mio lavoro di tesi, per il quale ho condotto una ricerca sul campo a Torino (tra il 2013 e il 2014) e in Albania (nei mesi di luglio del 2013 e di agosto del 2014). All’interno della ricerca ho provato ad analizzare il circuito migratorio che lega l’Albania alla città di Torino utilizzando una griglia metaforica utile a inquadrare il fenomeno all’interno dell’ottica dei riti di passaggio. Ciò mi ha permesso di mettere in risalto dinamiche solitamente poco analizzate nello studio delle migrazioni più orientato verso aspetti di tipo economico e politico, e ha consentito di indagare la componente antropopoietica propria di questo fenomeno migratorio.
L’Albania di oggi si presenta come uno Stato libero e democratico, che impiega molte risorse nel cercare di migliorare la propria economia, la propria politica, la propria società. È un Paese in transizione, e come tale in continuo movimento, impegnato nella ricerca di una identità stabile e rinnovata che viene però ostacolata da un atteggiamento conservatore, proprio di una buona parte della società albanese. Lo scontro tra una spinta innovatrice, voluta fortemente dalle nuove generazioni, e l’ancoramento a vecchi schemi di potere, sembra essere destinato a durare a lungo. In questo scenario caotico, i giovani albanesi pagano il prezzo più alto, non riuscendo a trovare il proprio equilibrio all’interno della società. Troppo progressisti per la vecchia classe politica e troppo poco influenti per promuovere un cambiamento che stravolga gli assetti del potere, rimangono imprigionati in una sorta di limbo in cui non possono fare a meno di sentirsi impotenti. Questa condizione decreta la loro ‘espulsione simbolica’ dalla società adulta albanese e il fenomeno è
«all’origine dell’emigrazione e della cultura dell’esilio: i progetti migratori sorgono dalla speranza di sfuggire all’emarginazione e all’imprigionamento esistenziale vissuti quotidianamente nelle periferie desolate della metropoli. In questo senso […] l’emigrazione è in effetti un movimento politico, un’espressione di dissenso e un tentativo di emancipazione, per quanto implicito nei suoi obiettivi, per quanto amorfo nelle sue rivendicazioni e articolato come scelta prettamente individuale e familiare» (Capello 2008: 57).
L’alto tasso di disoccupazione e l’instabilità sociale privano i giovani albanesi dell’accesso alla vita adulta, relegandoli in una fase di prolungata adolescenza. Senza mezzi materiali per poter far fronte a questa situazione, molti di loro dunque decidono di seguire la strada della emigrazione (rruga për kurbet). In questo senso, questo tipo di migrazione va dunque inteso come un passo necessario per l’acquisizione dello status sociale di adulto e come tale va inserito all’interno di quello che è possibile definire come rituale di passaggio.
«È il fatto stesso di vivere che rende necessario il passaggio da una società speciale a un’ altra, da una situazione all’altra, cosicché la vita dell’individuo si svolge in una successione di tappe in cui il termine ultimo e l’inizio costituiscono degli insiemi dello stesso ordine: nascita, pubertà sociale, matrimonio, paternità, progressione di classe, specializzazione di occupazione, morte […] A ciascuno di questi insiemi corrispondono cerimonie il cui fine è identico: far passare l’individuo da una situazione determinata a un’altra anch’essa determinata» (Van Gennep 2007: 7).
Il passaggio alla vita adulta è però ostacolato, anche e soprattutto, dalla assenza di un modello sociale da seguire, dalla mancanza di una identità propria di questa nuova Albania che sia in grado di imporsi sull’informe scenario socio-culturale attuale. Lo scontro tra diverse generazioni e differenti modi di pensare, non permette all’Albania di uscire dallo status di Paese in transizione e non le consente di attuare tutte le strategie consapevoli e programmate, proprie di ogni Paese, per la costruzione di un modello di uomo valido e adatto al contesto albanese.
Dopo il crollo del regime comunista, seguito dal collasso delle piramidi finanziarie e dallo scoppio della guerra civile, che ha avuto come esito l’avvio della grande migrazione, l’Albania di oggi sta cercando il proprio posto all’interno di importanti scenari internazionali e lo sta facendo a partire proprio dagli insegnamenti e dalle influenze provenienti da chi ha intrapreso la rruga për kurbet. La direzione percorsa guarda con ottimismo e fiducia all’Europa e al mondo capitalista e globalizzato in generale. Nessuno sa con certezza se sia proprio questa la strada giusta da seguire, quello che è certo è che l’Albania sta vivendo un periodo di grandi trasformazioni, volte soprattutto a conformarsi con gli altri Stati dell’Europa. Il processo migratorio, in Albania così come in tutti i Paesi coinvolti in «traffici culturali», dà vita a un processo di transnazionalizzazione della cultura, all’interno del quale è impossibile da trascurare la dinamica della trasmissione culturale che, nel caso della migrimit shqipëtar (migrazione albanese), è attivata mediante un processo mimetico che consiste in «manifestazioni di adeguamento e imitazione simbolica e pratica, da parte dei componenti di una cultura, nei confronti dei simboli e delle pratiche degli appartenenti a una cultura altra» (Fabietti 2012: 182). In questo senso il circuito migratorio albanese di questi anni è sintomo di qualcosa che va ben oltre la conquista dello status di adulto.
Il migrante (mërgimtar), che torna in patria dopo aver vissuto in realtà differenti da quella autoctona, si fa promotore di un processo di profondo rinnovamento e cambiamento per l’Albania, accettando inconsapevolmente di adempiere al ruolo di demiurgo che gli viene attribuito e contribuendo all’ inevitabile processo antropopoietico (Remotti 2013), influenzato da una cultura occidentale e globalizzata, penetrata all’interno della società albanese odierna. In questo senso i migranti diventano più o meno involontari portatori di modelli di umanità, i quali appaiono nuovi per gli albanesi ma simili a quelli europei. Questo percorso di mimesi’ portato avanti in primis dai migranti di ritorno non va considerato come un processo di mera soggettivazione passiva e totale nei confronti dei grandi modelli occidentali. Piuttosto è insita nel progetto albanese la volontà di creare un modello ispirato a quelli europei ma fatto su misura per l’Albania. La costruzione di un modello definito, particolare, unico è un processo lento e difficile che mette in moto dinamiche complesse e problematiche.
«[…] le società non possono sottrarsi ai processi formativi mediante cui costruiscono di volta in volta, nei più vari contesti e nelle più diverse maniere, gli esseri umani. Il dramma consiste nella reperibilità dei modelli antropologici, o meglio nella difficoltà di reperire modelli che guidino validamente i processi formativi o a cui ispirarsi nei procedimenti antropo-poietici. Dove tali modelli si possono reperire? […] Ogni qualvolta si debba porre mano alla costruzione dell’umanità, i dubbi e le perplessità insorgono, condannati – come siamo – a “pro-gettarci” continuamente verso un futuro per il quale il passato ci è solo molto limitatamente d’aiuto» (Remotti 2013: 212,214)
Nonostante la struttura culturale albanese non sia stata in grado di inserire e codificare al suo interno il fenomeno della migrazione e quello del ritorno dei migranti, e abbia lasciato allo sbando un Paese che da anni tenta di ricostruire una qualche forma di unità socio-culturale, ha comunque offerto degli strumenti validi affinché il processo di costruzione di modelli antropo-poietici possa avere inizio. L’importanza dell’acquisizione dello status di adulto, la centralità del sentimento patriottico e l’antico affetto per l’Europa sono elementi che, presi in prestito dalla tradizione albanese (tradita shqipëtar), sono stati adattati e rielaborati alla luce di quanto è avvenuto recentemente in Albania e possono servire come base per la costruzione di nuovi modelli di umanità.
Dialoghi Mediterranei, n.14, luglio 2015
Riferimenti bibliografici
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Stefania Morreale, ha conseguito il Diploma di Laurea di Primo Livello in Comunicazione Interculturale presso l’Università degli Studi di Torino (2012) e, nella stessa sede, il Diploma di Laurea Magistrale in Antropologia culturale ed Etnologia (2015). È vice-presidente dell’Associazione Italo-Albanese, impegnata a promuovere politiche di cooperazione e scambi culturali tra Italia e Albania. È redattrice di Magazine Mediazione Interculturale.
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Davvero interessante!
Spero di leggere altre pubblicazioni in futuro.
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