Humans abroad matters. Il mondo è sull’orlo di un precipizio migratorio. Stiamo per abolire il concetto di “casa” e di “radici”. La vita è un percorso: e non è più solo una metafora. L’On the road, non solo una filosofia ma una pratica da seguire il più possibilmente alla lettera.
E proprio a vederla da un punto di vista letterario, lo stesso che in qualche modo battezza e sdogana le grandi epoche della storia umana, potremmo dire che la terra si sta scuotendo. La Grande Madre Terra, entità ermafrodita nella nicchia d’universo a lei assegnata, stavolta crea cosmicità, attraverso un sussulto, uno starnuto. E i riverberi che trasmette sulla crosta terrestre inducono gli uomini e le donne al movimento.
La frontiera come fisiologia, il viandante come condizione dall’alba al tramonto. L’eterno ritorno di un uomo nato camminante e radicato solo per un breve frangente. Nel frattempo siamo passati da qualche milione a diversi miliardi. Ma questo limita il movimento? No, anzi. Forse è proprio il movimento la risposta al peso eccessivo dell’impronta umana sulla terra. Del resto, che senso ha fermare i corpi quando le idee circolano con una velocità mai sperimentata nel corso della storia? Da qui, dal regno del fremito rigenerante, chi è stanziale è il problema, ovvio. L’umanità si è sempre mossa. È forse un caso che i miti fondativi di tutte e tre le religioni predominanti hanno alla base un movimento, un esodo, un viaggio, una attraversata, una trasmigrazione? No, per niente.
Se la politica è “arretrata”, ferma, sul grado del recinto delle nazioni, proviamo a considerare che, forse, è un problema della politica. Il consenso identitario e “radicante” è una delle peggiori risposte, ma non per una scelta etica. Il consenso identitario è uno dei tanti modi per perdere tempo. Esattamente come hanno fatto tanti falsi profeti sviluppisti ed estrattivisti che hanno continuato a dire che la responsabilità del Climate change è dei singoli. Sì certo, ma la loro quota parte è del tutto ininfluente rispetto a quella delle multinazionali. Loro sì che perdono tempo. O meglio, cercano di prenderne il più possibile perché gli altri, le moltitudini, non ne abbiano più e siano riducibili nella condizione di pieno ricatto.
In questo tornare a ragionare del movimento e dei movimenti migratori, un interrogativo serio dobbiamo farcelo, innanzitutto, a proposito del Mediterraneo. Che cosa è stato e potrebbe tornare ad essere il Mediterraneo al di là della “pura espressione geografica”? Non si può negare infatti che siamo davanti a un caso più unico che raro di “topos” storico-geografico in cui gli uomini hanno potuto sperimentare forme e processi virtuosi di scambio economico e culturale il cui ciclo nel tempo ha quasi sempre evocato il movimento della sistole e della diastole, ovvero l’alternarsi di due fasi con profili meccanici opposti ma complementari. Ciclo che ha addirittura trapassato la storicità delle forme politiche e amministrative.
Il Mediterraneo è rimasto sempre sé stesso attraverso le epoche, pur attraversato da guerre e devastazioni. Specchio delle differenze armoniche la cui varietà da sola è bastata nei secoli ad assorbire addirittura qualsiasi volontà di dominio assoluto, il Mediterraneo può essere considerato alla stregua di un organo, del tutto funzionale, dell’umanità e della sua lunga storia. Le stesse istanze politiche imperialiste hanno dovuto fare i conti con una capacità di digestione del bacino terracqueo in quanto tale. C’è voluta un’aberrazione geo-morfologica come il Canale di Suez per intaccarne la virtù.
Ecco, quindi, fissiamo un primo concetto, quello delle differenze armoniche contenute dentro questo topos generoso e maestoso che era appunto il vecchio ed eterno Mediterraneo. Le nazioni sono state in grado di superare quel modello che la terra ci ha donato?
Sarà per questo costituire la convergenza di tre diversi continenti, ovvero essere riconosciuto da tutti come il finis terrae, il limite supremo invalicabile anche da sé stesso; sarà, al contempo, per funzionare come un vero e proprio hub dello scambio di tipologie di merci che nei settori interni non potevano essere reperite.
Il meccanismo salta con le guerre di religione, che non sono guerre dei popoli ma, appunto, tentativi di superare il finis terrae. In due parole, al di qua della sponda si prepara l’assalto al cielo per far trionfare non un esercito ma dio in persona. Saltato l’equilibrio, saltata la virtus. Soprattutto, addio allo scambio in nome della predazione. Insomma, la croce ha ben scavato e trovato un immenso giacimento di petrolio.
Oggi il Mediterraneo è tornato al centro di un immenso via vai di “corpi”: il diritto alla vita passa ancora da qui, evidentemente. Ed è proprio da qui che è partita la riflessione che ha ispirato un gruppo di giornalisti nel dar vita a Radio Mir [https://www.radiomir.space/ ] e al format “Il Mondo alle 7”, che è andato in onda proprio il 2 giugno nel tentativo di fare una sorta di appello simbolico degli Italiani all’Estero. Quasi dodici ore di diretta in cui a ogni collegamento con un italiano residente in uno dei Paesi via via toccati dal “Meridiano delle Sette” è stato messo in corrispondenza un migrante “straniero” in Italia. Una plastica rappresentazione, insomma, di come in realtà la migrazione ha una sola faccia. È quella che ci suggerisce proprio il Mediterraneo: l’eterno ritorno del vagare, la necessità di non perdere del tutto la radice perché il legame della lingua è in realtà il legame della conoscenza sul mondo. E chi fa esperienza di più lingue si arricchisce ed è pronto ad arricchire gli altri; segnatamente chi appartiene alla propria “radice”.
In questo primo giro di rodaggio “Il Mondo alle Sette” ha raccolto soprattutto tante storie interessanti, circa una cinquantina. Non è poco come esordio. Ne è uscito un quadro omogeneo e, per certi versi, sorprendente. Persone in carne ed ossa che scelgono di seguire un proprio percorso “fuori ed oltre” il proprio ambito storico-culturale. Il senso di questo andare è solo in parte spinto dal bisogno, o dall’urgenza. E questo vale in tutti i casi “da” e “per” l’Italia.
Non sono più viaggi della speranza come in passato. Il senso è la scelta di un futuro che stia ancora nelle proprie mani e non faccia parte di una condizione di ricatto perenne in cui la prospettiva è sempre al ribasso. E di ribasso in ribasso prima o poi si finisce all’inferno, e non solo metaforicamente. Si sceglie sempre il meglio per se stessi. È questo che dicono i migranti, tutti. C’è chi è costretto a mettere a repentaglio la propria vita pur di raggiungere il suo obiettivo. E c’è chi vive “soltanto” un brutto e forte senso di eradicazione. C’è quindi qui il tesoro di una inversione di tendenza che seppur molecolare mostra la volontà di una scelta in grado di opporsi alla forza della predazione.
Ma devono essere chiare almeno un paio di condizioni per considerarsi migrante: bisogna sapere ciò che si vuole e deve esserci un luogo abbastanza attraente. Il migrante non ha più una lingua per comunicare i propri sogni e quindi decide di andarsi a cercare le parole. Possiamo anche dirla così. Nella sua radice il desiderio non ha quasi più residenza. E quindi, attratto dall’idea di una nuova nascita in un luogo che il desiderio stesso squaderna come adeguato, ripone le sue povere cose in una sacca. Quanto basta per illudersi di lasciarsi alle spalle il passato. Non sarà così ma nel frattempo è accaduto qualcosa di importante. È accaduto che il ciclo di un possibile ritorno si è stabilito. È in questa dialettica tra vecchie e nuove radici, tra desiderio di nascita e desiderio nato che le persone acquisiscono le “maiuscole”: di Se stesse, del loro Spazio, del loro Tempo.
Da questo punto di vista il viaggio, come è sempre stato, potrebbe essere considerato una vera e propria evoluzione, per l’umanità intera. Nelle attuali condizioni economiche, esattamente al contrario della vulgata sulla globalizzazione in cui le merci valgono più degli uomini, questa opportunità rischia di essere sprecata. L’oscillare di materia umana che finalmente rompe qualsiasi confine di “Patria” e si scopre “Matria” ovvero accoglie la rigenerazione come movimento interno esattamente come fa il mare nel lento lavoro di autopulizia viene vista come una minaccia. La “minaccia” in realtà non fa altro che svelare la precarietà del castello di carte proprio dello schema di un mondo basato sul concetto di sovranità nazionale.
La pandemia poi, come un effetto moltiplicatore delle contraddizioni già insite nel sistema delle frontiere, continua a generare danni profondi, incidendo negativamente sui sistemi sanitari, sugli indici di povertà e sull’andamento dell’economia globale, venendosi a sommare alle altre grandi crisi dei nostri tempi, dai cambiamenti climatici alla lotta contro le disuguaglianze, al terrorismo o, comunque, al coinvolgimento dei civili nelle operazioni di guerra, alla fame. Tutto ciò svela purtroppo la difficoltà dei cosiddetti governi nazionali nel trovare risposte coordinate e la cogente e sempre attrattiva politica del “my country first”, che di fronte a questa complessità appare sinceramente come un meschino ripiegamento.
Dietro questo slogan, unico vero residuato del ‘900, si nasconde la putrescenza della politica, che nemmeno può più dirsi politica ma concrezione di classi dirigenti momentaneamente allocate in una posizione di privilegio e quindi in quanto “gruppo” autorizzate al corporativismo più spinto. La politica nobile così perde l’anima, dunque. E sempre attivo, invece, è lo scontro potenziale, l’emergenza come status, funzionale al consolidamento della variazione millimetrica del potere. Ora, c’è da dire che questo non avviene nemmeno più “per nome e per conto di” ma in puro vagare di interessi simbolici, ancora detentori del cosiddetto gioco democratico, immediatamente contigui a chi gli interessi materiali li fa sgorgare, ovvero i capitalisti. Il capitalismo non potendo agire “in purezza”, ovvero nella concretezza delle sue reali spinte da animal spirits deve contemperarsi nel simbolico. È lì che finge il bene comune. Questo fino a quando non verrà proclamato il primo Stato sovrano sotto forma di società per azioni.
Alcune emergenze, dal Virus al Cambiamento climatico che meglio andrebbe declinato come Perdita della biodiversità, hanno messo in campo una concretezza più reale del capitalismo ed è fin troppo chiaro che se l’impronta liberista non recede dalle sue smanie il percorso dell’umanità è pronto alla biforcazione: da una parte coloro – ristretta minoranza – che attraverso medicine e tecnologie rimangono ad arginare il virus e i disastri, dall’altra tutto il resto che soccomberà. Non soccomberanno tutti, ma a quel punto si creeranno le condizioni per una biforcazione evolutiva o, quanto meno, per un fossato antropologico difficilmente reperibile in proporzioni nella storia dell’umanità.
Cosa c’entra tutto questo con il colpo d’ali che la terra sta cercando di rimettere in campo attraverso l’attualità del viaggio e delle migrazioni? La migrazione va considerata come una pratica ecologica che innanzitutto depura l’uomo dagli egoismi e combina le condizioni della fratellanza universale. Non una fratellanza ideologica, né una semplice aspirazione, ma qualcosa di solidamente basato sull’economia possibile di una ciclicità arricchente maturata nel gradiente delle latitudini, nel cono di luce della sete di conoscenza, nell’immediatezza dello scambio.
Da ogni pratica migrante individuale viene fuori una esperienza di accoglienza e integrazione, innanzitutto. E questo valore viaggia ancora. E tornando al luogo d’origine crea un cerchio positivo; potremmo quasi definirlo un “Anello di Moebius”. E il sovrapporsi di questi cicli diventa una vera e propria evoluzione culturale e materiale per il mondo intero.
Perché non si fa uno studio attento sulle seconde e terze generazioni? Perché non si studia ciò che la loro “ibridazione” può offrire al mondo? Per esempio, il linguaggio stesso. Il linguaggio, anche quando viene artatamente difeso in nome della cosiddetta “nazionalità” è in realtà un modello insuperabile e vivente di “sistole e diastole” un andirivieni che non solo ha rafforzato il fondamento cognitivo, e quindi permette di elaborare nuovi universi conoscitivi, ma ha indotto le persone a farsi investire da nuove suggestioni emotive e quindi a guardare a nuovi universi di valori o ad interpretare quelli consolidati in modo nuovo.
Dialoghi Mediterranei, n. 50, luglio 2021
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Fabio Sebastiani, giornalista e poeta, è laureato in Filosofia nel 1988 con una tesi sulle lingue artificiali. Dal ’95 e fino al 2012 fa parte della redazione di Liberazione occupandosi del settore sindacale. Ha al suo attivo diverse iniziative giornalistiche come la creazione e la conduzione di alcune web radio come Radio Rete Edicole, Radio Iafue, Radio Mir e Radio Anmil Network. Come poeta ha pubblicato un libro di aforismi e una raccolta di poesie dal titolo Molecole semplici per rivoluzioni complesse. Ha curato insieme ad altri due poeti due poemi collettivi, Gabbia no e Amicizia Virale.
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