di Sergio Todesco [*]
La figura del narratore girovago è presente in ogni in ogni tempo e sotto ogni latitudine; le sue origini mitologiche stanno probabilmente a significare – gli studi di Anita Seppilli ce lo indicano – il suo ruolo nella nascita della parola e della poesia.
Il cantastorie come noi lo conosciamo è un cantore popolare che va girando nei paesi e, accompagnato dalla chitarra, canta e narra storie reali o leggendarie, lontane nel tempo o contemporanee avvalendosi del supporto visivo di un cartellone che sintetizza gli episodi della storia in riquadri (gli scacchi).
Caratteristica che mi pare saliente dell’attività dei cantastorie è la loro straordinaria capacità di proporsi come cantori e narratori di storie la cui destinazione a un’utenza inizialmente anonima e indifferenziata non si configura mai come atto di “captatio benevolentiae”; detto in altri termini, i cantastorie non elaborano le proprie produzioni tarandone le caratteristiche sui gusti di un pubblico che essi intendono raggiungere e conquistare (come avviene per la maggior parte delle forme di comunicazione di massa), ma viceversa aspirano a plasmare l’ideologia della propria utenza rendendola sempre più recettiva e capace, attraverso il progressivo raggiungimento di una sempre maggiore sintonia, di percepire “eticamente” e non solo “emicamente” la somma di messaggi proposti. Insomma, il cantastorie non si trasforma in ciò che il proprio pubblico vuole, ma elabora messaggi tali da formare un pubblico che ne condivida l’impianto ideologico generale.
Tale “pedagogia” caratterizza l’attività di numerosi altri soggetti operanti nell’ambito di quella che viene definita “arte popolare”, tra i quali occorre per lo meno ricordare in questa sede i pincisanti (produttori di immagini sacre, dipinti su vetro, ex voto e simili), i pittori di cartelloni e fondali dell’Opra dei Pupi, i pittori degli scacchi dei cantastorie, i pittori di carretto.
Le iconografie narrative ed epico cavalleresche nella cultura tradizionale siciliana si articolano in numerose forme espressive. Non è raro pertanto trovare la raffigurazione di “storie” riprodotte su collari bovini, barilotti pastorali, bicchieri di corno, bastoni intagliati, ex voto, fogli volanti di cantastorie, sponde, chiavi e casc’i fusu di carretti, stampi per mostarda (W Savoia), pupaccena o pupi di zucchero, quadri ricamati e svariati altri manufatti che rientrano nell’ambito dell’arte popolare.
Molti dei manufatti provenienti dall’ambito artistico popolare, e in particolare dalla pittura dei carretti, mostrano come i protagonisti siano stati ben presto assunti ed assorbiti nei quadri di riferimento mitologici e simbolici dei ceti subalterni siciliani, finendo con lo svolgere la medesima funzione svolta in passato dagli eroi dell’Opra.
Tra i corpora iconografici maggiormente rappresentativi per lo studio e la conoscenza della cultura tradizionale siciliana sono anche da annoverare le stampe devozionali, la cui circolazione a partire dal XVI secolo ha interessato l’intera Isola.
Benché Giuseppe Cocchiara sostenesse di tali documenti che «… comunque creati si possono considerare popolari per l’uso cui essi sono destinati» (in ciò riprendendo le considerazioni svolte un decennio prima da P. Bogatyrëv e R. Jakobson), è indubbio che la loro origine sia tutt’altro che popolare e che il loro bacino d’utenza, nell’arco dei secoli che ne registrarono l’affermazione e la diffusione, abbia riguardato un amplissimo spettro dell’intero corpo sociale.
È altresì evidente che un excursus storico sull’iconografia popolare in Sicilia non potrà concernere solo gli esempi prodotti in Sicilia ma anche quelli fruiti nell’Isola; in ordine all’individuazione della “popolarità” dei prodotti che rappresentano personaggi ed eventi storici o figure mitologiche, vanno infatti dati per acquisiti in via definitiva gli esiti della lezione gramsciana, in base alla quale la popolarità di un bene si definisce per posizione più che per natura: secondo Gramsci infatti «ciò che contraddistingue il canto popolare (ma la notazione può essere agevolmente estesa a qualunque altro fenomeno di natura folklorica n.d.c.) … non è il fatto artistico, né l’origine storica, ma il suo modo di concepire il mondo e la vita, in contrasto colla società ufficiale; in ciò è da ricercare la “collettività” del canto popolare, e del popolo stesso». La configurazione popolare di una determinata realtà inoltre, quale che ne sia l’origine, inizia a circolare e sopravvivere, consolidandosi in elemento stabile di cultura, solo allorché essa viene accettata e fatta propria da determinate fasce sociali, per ciò riconosciuta da queste come sintonica alla loro concezione del mondo, attraverso quella che Pëtr Bogatyrëv e Roman Jakobson avevano chiamato «censura preventiva della comunità».
I cartelloni dell’Opera dei Pupi rappresentano nel loro insieme uno dei più preziosi corpora iconografici che la cultura popolare siciliana, collassatasi a seguito della grave mutazione antropologica cui è andato incontro nell’ultimo mezzo secolo il nostro Paese, sia riuscita in qualche modo a trasmetterci. In quanto media privilegiati della comunicazione popolare di massa, è indubbio che i cartelloni dell’Opra – al pari di altri consimili prodotti iconici quali le decorazioni delle sponde dei carretti, gli ex voto dipinti e i cartelloni dei cantastorie – siano stati per lo più utilizzati come vettori di messaggi che tendevano a proporre ai destinatari tutti gli elementi valevoli a una decodifica del reale. Essendo caratteristica costante di ogni cultura il perseguire un rafforzamento pedagogico dei valori, delle convenzioni, dei quadri dominanti, è normale che la cultura popolare siciliana non si sia sottratta a tale tendenza. Attraverso una serie di esempi iconici della lotta tra bene e male, della strenua difesa dell’onore e della specificità etnica, del conflitto tra dovere e passione etc., i cartelloni erano dunque chiamati a porre in essere serie interminabili di psicodrammi figurati, che sollecitavano a gran voce l’identificazione da parte dei propri fruitori, e nei quali si veniva affermando l’esigenza di ridisegnare il reale dotandolo di senso.
Come ogni altra procedura narrativa i cartelloni dei pupari agivano proponendo schemi iterativi di comportamento che veicolavano messaggi ridondanti, in cui nulla di nuovo veniva detto ad onta delle apparenti trasformazioni, novità, colpi di scena che caratterizzavano le vicende teatralmente rappresentate; mentre quella che in effetti operava era una strategia di rafforzamento, arricchimento, puntualizzazione di tipi e motivi che erano, per così dire, già dati sin dall’inizio. I personaggi dei cartelloni, nella loro apparentemente variegata e inesauribile fenomenologia, costituiscono in realtà una serie ben circoscritta di «guardaroba della personalità» (Michel Leiris) chiamata a fornire orizzonti limitati di operatività. L’universo dei paladini è insomma un universo chiuso, prevedibile, il suo fascino è determinato non già dall’ignoto bensì da una sistematica, ancorché occultata, riproposizione del conosciuto. Eppure tale “fedeltà” mitologica ha forse consentito che la cultura popolare della nostra Isola abbia potuto attraversare la storia, e il divenire che essa comporta, come protetta in una “campana di palombaro” (Karoly Kerenyi) e sia in tal modo riuscita a giungere fino a noi – qui e ora – a testimoniare la propria sofferta identità.
Ma vado all’argomento principale del mio intervento. In Sicilia c’è una donna, Nerina Chiarenza, ancora operante – a dispetto della non più tenera età – nell’arte del dipingere i carretti in tutte le loro parti, tavulazzu, casciata, purteddu, barruna, masciddara, chiavi e casci ’i fusu, roti etc..
Figlia di un costruttore di carri, Nerina Chiarenza, nata nel 1936, già da bambina vive direttamente il clima della bottega paterna, nella quale si avvicendano le diverse figure artigianali deputate alla realizzazione di ciascuna delle parti di cui si compone il carretto. Partecipa inoltre con la famiglia a numerose fiere e feste del comprensorio etneo (ad es. la festa di Sant’Alfio a Trecastagni) nelle quali ha occasione di assistere all’esibizione di cantastorie come Orazio Strano e di pupari, nonché a osservare le opere pittoriche di pincisanti etnei specializzati in ex voto, dipinti su vetro, immagini devote. Il suo paese, Aci Sant’Antonio, è rinomato per la produzione di carretti, e tra le figure artigianali impegnate in tale attività sono presenti anche i pittori Giuseppe Maugeri, Vincenzo Di Mauro, Antonio Pappalardo, Raimondo Russo, i numerosi componenti la famiglia Zappalà, Antonio Torrisi, Salvatore e Antonio Puglisi e il più famoso tra essi Domenico Di Mauro.
Nel 1950 a seguito di una fuitina Nerina si sposa e diventa madre. Proprio per aiutare uno dei figli, Giuseppe Lanzafame, giovanissimo scultore di figure di carabinieri per turisti, nella metà degli anni ’60 scopre la sua vocazione di decoratrice e pittrice, ben presto trasferita dalle sculture alle sponde dei carretti, dei quali il marito fa commercio rifornendo ad Aci Sant’Antonio il pittore Domenico Di Mauro. Costui, anche se in forma non continuativa, la segue agli inizi dell’attività fornendole una sorta di apprendistato e trasferendo alla giovane artista i primi rudimenti tecnici della pittura a olio su legno.
Nerina Chiarenza si afferma in breve tempo – unica donna – come uno dei migliori pittori di carretti in Sicilia, a tal punto che il marito abbandona la sua bottega per diventare imprenditore della moglie, accompagnandola col suo camion in giro per l’Italia a vendere i suoi pezzi in occasione di fiere e mostre, e soprattutto nei bazar annuali delle Basi Nato (Comiso, Napoli, Parma, Venezia, Aviano etc.) in cui Nerina acquista fama quale autorevole creatrice di oggetti di genuino folklore siciliano.
Nel frattempo ricorrono a lei carradori, venditori ambulanti, camionisti, per decorare i propri mezzi di trasporto, camion e motoApe. Nerina realizza saltuariamente anche cartelloni per cantastorie e vende regolarmente i suoi prodotti a mercanti e antiquari, come Giovanni Panarello a Taormina. L’incontro con un messinese, Gaetano Rizzo Nervo, gestore di una Galleria d’Arte in via Margutta a Roma, le apre un mercato composto da gente dello spettacolo, artisti “colti” e letterati, che apprezzano la sua naïveté e contribuiscono a farla conoscere anche presso le fasce alto-borghesi. Nel corso degli ultimi decenni Nerina riceve committenze da banche, aziende, enti come l’Assemblea Regionale Siciliana, che richiedono pezzi da lei prodotti o immagini dei suoi manufatti da utilizzare per brochure pubblicitarie incentrate sulla valorizzazione identitaria della Sicilia. Negli anni ’70 si realizza anche un film che incontra un discreto successo, Turi e i paladini, in cui Nerina realizza gran parte delle scenografie.
Per impulso di Rizzo Nervo e dietro espressa richiesta del senatore a vita Ferruccio Parri, Nerina realizza negli anni ’70 anche una nutrita serie di pannelli dedicati alla Resistenza, con scene di vita partigiana ed episodi drammatici come i massacri di Marzabotto e delle Fosse Ardeatine. Nel 2014 le arriva, da parte del Dipartimento Regionale dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana, il riconoscimento quale “Tesoro Umano Vivente” e la conseguente iscrizione nel Registro delle Eredità Immateriali della Regione Sicilia.
Il panorama iconografico offerto da Nerina Chiarenza è innanzitutto quello proveniente dal ciclo carolingio e dai poemi cavallereschi, assorbito da stampe antiche (es. Gustavo Dorè) ma soprattutto dalla traduzione pittorica resane da pittori di carretto e di cartelloni dell’Opra. Sono però presenti anche temi mitologici (il ciclo di Troia e di Enea in specie) e soggetti di genere biblico e agiografico, probabilmente desunti da pitture sotto vetro settecentesche ma spesso mutuati dall’arte colta (da Pieter Paul Rubens a Luca Giordano), e temi legati alle opere liriche ottocentesche, la Cavalleria Rusticana innanzitutto ma anche la Tosca, la Traviata e la Carmen. Nonostante questi numerosi imprestiti Nerina rimane però fedele alla tradizione nell’utilizzo dei colori e nell’organizzazione complessiva degli scenari, privilegiando nei pezzi destinati ai turisti le scene più “fantastiche” dell’Opra, quelle in cui compaiono draghi e diavoli. Tale fedeltà viene garantita dal continuo dialogo con un valente puparo di Aci Sant’Antonio, Turi Pulvirenti, che la ragguaglia sulle storie e sui personaggi.
La tecnica utilizzata da Nerina è quella tradizionale dello spolvero. Sul supporto ligneo da dipingere viene steso uno strato di cementite, sul quale successivamente, utilizzando delle vilìne bucherellate, si riportano a matita i tratti delle figure da dipingere. Con l’ausilio di una canna poggiata di traverso alla tavola per consentire la stabilità della mano che impugna il pennello consentendone la stabilità, inizia quindi la stesura dei colori, tutti ad olio (sostiene Nerina: “Con l’olio ci gioco, cumannu iò cu l’ogghiu! Con la tempera, cumanna idda, e iò non ci haiu fiducia”). Segue la stesura finale di una vernice protettiva.
Nerina dipinge di tutto, oltre che le diverse parti del carretto siciliano, anche ex voto, pitture su vetro, sportelli di Lape e camion, tamburelli, tavoli, manufatti che rinviano a un’immagine della Sicilia rurale e tradizionale. Donna acculturata e di grande vitalità, ella rimane ancora oggi un punto di riferimento per chiunque si occupi di arte popolare in Sicilia.
Come ha recentemente dimostrato Rosario Perricone, i confini tra oralità e scrittura sono estremamente labili. Altrettanto indefiniti sono quelli tra oralità e universo delle immagini. Perricone, riprendendo un percorso ermeneutico di Carlo Severi, ci ha infatti parlato di «tradizioni iconografiche fondate sull’uso della memoria rituale». E cos’altro sarebbe questa “memoria rituale” se non quella che si sedimenta attraverso la pratica dell’oralità, del rito, delle svariate messe in forma che la cultura popolare ha adottato per dare senso al proprio mondo? Lo stesso Perricone ci propone un’etnografia visuale che sia «una ricerca sulla memoria che [le] immagini veicolano attraverso il loro peregrinare nei diversi orizzonti di senso».
Nel caso di Nerina Chiarenza tali orizzonti sono costituiti da una robusta tradizione al contempo orale e iconografica, quella dei pittori di cartelloni dell’Opra, degli scacchi dei cantastorie, dei pincisanti, dei pittori di carretto, il cui più immediato referente, sotto il profilo iconografico, è quello stile basato sul “realismo magico” proprio del patrimonio pittorico votivo.
I dipinti di Chiarenza raccontano “storie”; e poco importa che tali storie siano calate in una dimensione mitica o riconducibili a un Epos, ovvero a segmenti concreti di histoire événementielle, come nel caso dei pannelli dedicati al ciclo della Resistenza. Tutte queste forme di rappresentazione sono in ogni caso inserite in un tempo sospeso, esemplare, quello che Mircea Eliade chiama “illud tempus”, un tempo delle origini, aurorale, fondante e garante della storia reale. Il mito si fa qui “storia vera”.
Le storie epico-cavalleresche di Nerina Chiarenza, immediatamente riconoscibili per la bellezza delle figure e la brillantezza dei colori, si inseriscono con assoluta originalità e a pieno titolo nel variegato panorama della narrativa popolare siciliana, in cui la dimensione orale e quella iconografica appaiono strettamente e inscindibilmente embricate.
Dialoghi Mediterranei, n. 40, novembre 2019
[*] Intervento svolto al Convegno “Nella fucina dei poeti cantastorie” (Università di Messina, 17-19 ottobre 2019).
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Sergio Todesco, laureato in Filosofia, si è poi dedicato agli studi antropologici. Ha diretto la Sezione Antropologica della Soprintendenza di Messina, il Museo Regionale “Giuseppe Cocchiara”, il Parco Archeologico dei Nebrodi Occidentali, la Biblioteca Regionale di Messina. Ha svolto attività di docenza universitaria nelle discipline demo-etno-antropologiche e museografiche. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni, tra le quali Teatro mobile. Le feste di Mezz’agosto a Messina, 1991; Atlante dei Beni Etno-antropologici eoliani, 1995; Iconae Messanenses – Edicole votive nella città di Messina, 1997; Angelino Patti fotografo in Tusa, 1999; In forma di festa. Le ragioni del sacro in provincia di Messina, 2003; Miracoli. Il patrimonio votivo popolare della provincia di Messina, 2007; Vet-ri-flessi. Un pincisanti del XXI secolo, 2011; Matrimoniu. Nozze tradizionali di Sicilia, 2014; Castel di Tusa nelle immagini e nelle trame orali di un secolo, 2016.
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