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La presenza italiana in Marocco tra l’800 e la prima metà del 900

Italiani in Marocco, La famiglia  (Archivio privato Milone)

Italiani in Marocco, La famiglia Moretti, 1918 (Archivio privato Milone)

di  Nabil Zaher

La presenza degli italiani in Marocco a lungo sottovalutata resta un tema poco studiato sino ad oggi. Infatti, ben poco si sa degli italiani emigrati in Marocco. Questo saggio intende offrire una descrizione panoramica della comunità italiana trapiantatasi in Marocco tra l’Ottocento e la prima metà del Novecento. Prove tangibili della presenza italiana in Marocco si trovano, a partire già dalla fine del XIX secolo, nelle grandi opere sia pubbliche che private realizzate dalle imprese italiane insediatesi nel Paese maghrebino, come quelle di trasporto e il servizio di posta fra Mazagan e Marrachese: «Italiane sono […] varie imprese di trasporto, a proposito delle quali fu […] un certo Bianchi, l’iniziatore del primo servizio pubblico marocchino. […] Italiano fu anche il primo regolare servizio di posta tra Mazagan e Marrachese» [1] .

La copiosa presenza italiana è pure testimoniata dai cimiteri di Casablanca: «in quello di El Hank riposano quasi mille italiani, deceduti tra il 1912 e il 1955; il cimitero di Ben M’Sick ne accoglie altrettanti, deceduti dal 1933 a oggi» [2] .

La presenza dei primi italiani in Marocco risale all’Ottocento. Una comunità italiana stabile si formò solo alla fine del 1800, in seguito all’unificazione dell’Italia e l’apertura nel 1868 di una rappresentanza istituzionale italiana a Tangeri della quale fu responsabile il diplomatico Stefano Scovasso sino al 1887 [3]. Nel 1825, sotto l’era del sultano Mulay Abderrahman, si continuò nella politica delle buone relazioni con gli europei. Il 30 giugno 1825, venne stipulato un trattato di commercio e di navigazione dal Regno di Sardegna con il sovrano marocchino in seguito all’insediamento a Tangeri di un Consolato indipendente di Sardegna. Fu firmato a Fez da Mulay Abderrahman e dal console Girolamo Ermirio [4]. La stipulazione di questo trattato col Marocco, diede la possibilità per lo più a commercianti genovesi di insediarsi a Tangeri, a Mazagan, a Casablanca e a Mogador [5].

Inoltre, il trattato sopraccitato permise lo scambio dei « prodotti marocchini più ricercati […] con merci e prodotti europei »[6]. Questo scambio fu agevolato «dalla clausola della nazione più favorita di cui godeva il Regno sardo»[7]. Lo studioso Vittorio Briani collocò nel 1825 i primi legami regolari con l’impero sceriffiano: «risale infatti a quell’anno un trattato del Regno di Sardegna grazie al quale genovesi e sardi hanno la possibilità di approdare e sostare a Tangeri, a Casablanca e negli altri centri costieri, favorendo così un florido commercio. Dallo stesso Regno di Napoli […] sopraggiungono altri italiani che intessono con le popolazioni locali rapporti commerciali» [8]. Col tempo, molti divennero benestanti, se non ricchi. Infatti, i terreni acquisiti a prezzi irrisori, aumentarono immensamente di valore [9].

Stefano Scovasso, ministro plenipotenziario d'Italia in Marocco

Stefano Scovasso, ministro plenipotenziario d’Italia in Marocco

I mestieri che esercitarono preferibilmente furono quelli di muratore e di falegname; in tutti e due i casi alcuni di essi pieni di forza e di vita giunti in Marocco solo come proletari si trasformarono in proprietari. Partendo da modesti inizi, con il senso di onestà e di economia innato nel lavoratore italiano, con l’attività perspicace e diuturna, riuscirono a primeggiare, a trasformarsi in abili imprenditori di lavori e, in conseguenza, a costituirsi robuste e invidiate posizioni economiche. Con il trattato di amicizia e di commercio sopraccitato, il Regno di Sardegna si pose fra le Potenze che godettero di maggiori privilegi: « l’invio di un Console sardo al Marocco, la giurisdizione consolare da applicare ai sudditi sardi, il commercio e la navigazione tra i due Paesi, la sicurezza dei rispettivi sudditi in caso di ostilità. Le parti si garantivano reciprocamente la libertà di commercio e si accordavano il trattamento della nazione più favorita»[10].

Già nel 1832, gli armatori liguri Antonio Montanaro e Salvatore Morteo si stabilirono a Mazagan. Un’altra famiglia ligure, i Guagnino, si stabilì a Larache [11]. Su 521 bastimenti approdati nel Marocco, 71 erano sardi nel 1848. A questo sviluppo dei traffici non fece seguito però, durante l’Ottocento, la formazione di una comunità italiana considerevole, paragonabile a quelle osservate negli altri Paesi appartenenti alla sponda africana mediterranea come la Tunisia. In merito ai suoi rapporti con i Paesi arabi del Mediterraneo, l’Italia mantenne intatta la posizione privilegiata che si era creata in Marocco ereditando i privilegi che il Governo di Torino riuscì a conseguire dai Sovrani del Marocco e delle Reggenze barbaresche: nei riguardi dell’Impero sceriffiano, al nuovo Regno si applicarono le clausole del trattato sardo-marocchino del 1856, estese automaticamente al Piemonte nel 1857 grazie «alla vigile diplomazia dei Consoli Sardi, continuatori della politica che le Repubbliche marinare e gli Stati italiani del secolo XVIII avevano svolto nei riguardi dei Sultani del Marocco, il Regno d’Italia doveva quella solida posizione tra le Potenze più in vista alla Corte sceriffiana» [12] .

Nello stesso anno, si seguì una politica attiva mirante a sollevare gli ostacoli che si opposero ad un aumento dei traffici fra l’Italia e il Marocco ed incrementare il prestigio del Regio Governo: «Nel 1861, il Console italiano De Martino riuscì a fare abolire la privativa sultaniale sul commercio dello zolfo, che ostacolava le importazioni dell’Italia, dimostrando a Sidi Muhammed come essa incoraggiasse il contrabbando senza recare nessun profitto al Maghzen»[13]. Fra il 1869 e il 1887, si ricordò l’impegno di Stefano Scovasso, responsabile di due missioni consolari italiane sino al 1887 [14]. Questo diplomatico attivo e intraprendente fu il primo Console Generale a Tangeri dell’Italia unificata, e nel corso del suo mandato in Marocco, la politica italiana nell’Impero sceriffiano diventò più efficace attuando progetti di cooperazione con il Paese maghrebino: «i rapporti tra Scovasso e il sultano Mulay Hassan sfociano in una proficua collaborazione tra i due Paesi» [15].

In quel periodo, l’Italia cercò nuovi spazi per rafforzare la sua posizione mediterranea e il Marocco apparì un’opzione valida e suscettibile di interessanti sviluppi: «Il Regno d’Italia […] tenta continuamente di tessere stretti legami diplomatici con l’Impero sceriffiano, sia per interesse economico che nella speranza di esercitare un’influenza politica»[16]. Interessanti e sostanziosi furono i rapporti commerciali ed economici che presero il via in quegli anni. Mulay Al Hassan mirò a consolidare la posizione internazionale del suo Paese e a renderlo anche più forte militarmente. Egli manifestò pertanto al Rappresentante italiano l’intenzione di installare a Fez una fabbrica di armi bianche con l’assistenza dell’Italia, e di acquistare una nave da guerra al fine di migliorare la difesa costiera [17]. Il progetto della fabbrica di armi bianche prese corpo. Si trovò a  Fez Djedid, annessa al palazzo del Sultano e costruita nel recinto stesso della dimora sceriffiana [18]. La sua installazione fu un evento che fece scalpore fra gli abitanti di Fez: «Tutto intorno brulica di vita» [19]. Questi ultimi presero la consuetudine di designare lo stabilimento con il nome italiano di Makina cioè «macchina»: «nel 1893, la fabbrica viene terminata e prende il nome di Makina»[20].

La fabbrica partita in gran trionfo per divenire un fiore all’occhiello che dia lustro all’Italia, paga successivamente lo scotto di una cattiva gestione scandita dai diverbi interni e dalle difficoltà degli italiani a rapportarsi alle amministrazioni locali e finì per trascinarsi pian piano a limitare la sua attività, nel 1902, alla riparazione di fucili vari, biciclette ed impianti elettrici e all’esecuzione dei più svariati lavori per il palazzo del sultano Mulay Abdel Aziz, il successore di Mulay Hassan [21]. Nel 1916, la Makina passò direttamente nelle mani dell’amministrazione francese, che negli anni Venti la convertì in una fabbrica di tappeti, ponendo così fine a ben ventisette anni di attività [22]. Fez conserva ancora il ricordo della fabbrica d’armi. Una delle porte della medina ne porta tuttora il nome: Bab Makina.      

Casablanca, porto, 1920 ca.

Casablanca, porto, 1920 ca.

Il periodo della fine dell’800 fu caratterizzato dall’operosità e dall’impegno della comunità italiana nel campo dell’artigianato, dell’agricoltura e delle costruzioni. Successivamente, dopo la fine del primo decennio del Novecento, i flussi migratori dall’Italia verso il Marocco divennero più consistenti e quindi il numero degli italiani salì in maniera rilevante. La formazione di una numerosa colonia nel Paese nordafricano si ebbe dopo lo stabilimento del Protettorato francese nel 1912 sul Marocco meridionale che aprì le porte a una massiccia emigrazione di lavoratori verso queste regioni del Marocco francese: «Si trattava soprattutto di lavoratori, per lo più sterratori e operai del settore delle costruzioni»[23]. Così, ci fu un boom che attrasse molti italiani e il Marocco meridionale divenne «una meta di migrazione di manodopera italiana e luogo di insediamento di ‘‘comunità proletarie’’» [24].

Fu minima invece la presenza italiana nel Marocco settentrionale, controllato dalla Spagna. Solo a Tangeri, dichiarata zona internazionale con uno statuto particolare nel 1923, risiedeva una importante comunità. Dai censimenti svolti dal Protettorato francese, il numero degli italiani presenti in Marocco nel 1913 si aggirò intorno alle 3.500 e furono quasi tutti concentrati a Casablanca. Nel 1914, se ne contarono circa «9000 a Casablanca, 1500 a Rabat, 1500 a Tangeri, 600 a Marrakech, 250 a Mazagan, 150 a Mogador, e 40 a el-Araish»[25] con un totale complessivo (compresi la zona spagnola e Tangeri) di 12000 [26]. L’attuazione di un vasto programma di lavori pubblici deciso da parte delle amministrazioni coloniali in Marocco generò una domanda consistente di manodopera italiana nel settore edile. Molti dei lavoratori italiani furono addetti ai lavori del porto di Casablanca.

Il Marocco spalanca le porte ad emigrati italiani carichi di speranze di una vita migliore e di sogni per il futuro, dato che mancava di grandi infrastrutture quali edifici, ferrovie, strade, porti e dighe. Al principio del XX secolo: «In Marocco, i lavoratori italiani affluirono all’epoca dei grandi lavori di modernizzazione, e in particolare in occasione della costruzione del nuovo porto di Casablanca»[27]. La situazione ambientale fu all’epoca favorevole all’afflusso in massa di maestranze, agricoltori, manovali, muratori, operai, operatori ed imprenditori tanto stimati provenienti in prevalenza dalla Sicilia e dall’attigua Tunisia, cioè da una terra non così diversa da quella in cui sbarcarono e in cui lavorarono molto e non c’era più lavoro per loro. Così, «numerosi italiani emigrati in Tunisia vengono chiamati a far parte della nuova forza lavoro che deve costruire il nuovo Marocco»[28].

A Casablanca, gli operai italiani arruolati nella realizzazione del porto di Casablanca, trovandosi in condizioni di vita precarie e penose soprattutto per la mancanza di alloggi, si concentrarono in una zona vicina al porto, che prese il nome di Piccola Venezia (Petite Venise) [29]. Insieme al porto di Casablanca, le case europee di Maragan, Rabat, Casablanca e Safi furono in gran parte opera loro: essi, lavorando sodo e sudando, contribuirono in modo attivo a risolvere la crisi edilizia che parve, ad un dato momento, imbrigliare in modo serio il progresso sociale ed economico del Marocco [30]. Oltre a ciò, la maggior parte delle fabbriche dei mobili nonché le migliori farmacie di Casablanca e di Rabat erano italiane. Inoltre, le aziende industriali, commerciali ed agricole italiane, godettero sempre di meritata considerazione nel mondo economico marocchino.

L’incremento della presenza proletaria italiana nelle terre marocchine, formata in gran parte da lavoratori che trovarono impiego nei settori dell’agricoltura, dell’industria manifatturiera e della costruzione, fu dovuto alla carenza di manodopera locale come quella edile e pertanto giunsero massicciamente lavoratori della terra e dell’edilizia da impiegare nelle grandi opere pubbliche di infrastrutturazione promosse dai francesi. Va rilevato che il lavoro degli italiani, nel campo agricolo come in quello dell’edilizia, fu sempre molto apprezzato, tanto che l’operaio italiano venne pagato tre franchi in più di quello marocchino e uno o due di più di quello spagnolo. La colonia italiana al Marocco fu, nel corso della sua vita, influenzata da vari fattori politici, storici e sociali che determinarono mutamenti anche rilevanti nella sua composizione. Prima dello scoppio della Grande Guerra, arrivò a 12 mila abitanti, dei quali solo 9 mila a Casablanca [31].

La famiglia Lo Presti, Casablanca 1917 (Arvhio privato)

La famiglia Lo Presti, Casablanca 1917 (Archivio privato)

Con la Prima Guerra Mondiale, si assistette allo smembramento della Comunità italiana a causa delle partenze degli uomini per il fronte. Gli artigiani italiani continuarono le loro ragguardevoli attività nel quadro dello sviluppo del territorio. Dopo, la comunità si ripopolò: «Nel 1919, la nostra immigrazione nel territorio riprese con 540 unità, 506 nel 1920, 428 nel 1921 e 334 nel 1922» [32]. Nel 1925, secondo i dati forniti dal Commissariato Generale dell’Emigrazione, la collettività italiana in Marocco era formata da 12.258 individui, appartenenti a varie categorie di mestieri: «nel 1925, gli italiani in Marocco erano 12.258, principalmente a Tangeri e nelle altre città. […] Erano soprattutto lavoratori, sterratori e operai del settore delle costruzioni, ma anche rappresentanti di professioni e di mestieri differenti: commercianti, imprenditori, albergatori, cuochi, carpentieri marittimi, idraulici, sarti, ferrovieri» [33]. Nel 1925, la colonia italiana di Casablanca raggiunse il suo culmine quando nacque il quartiere Maarif,  detto addirittura «Piccola Italia» e vicino al Boulevard de la Gare di Casablanca in cui era concentrato oltre il 50% degli italiani del Marocco di allora.

In merito alla presenza italiana nella parte periferica della città denominata El Maarif, il giornalista, politico e scrittore Ciarlantini scrisse: « sono sorte centinaia e centinaia di casette, costruite da muratori, stuccatori, badilanti italiani. Son veri e propri quartieri d’aspetto italianissimo, dai negozi ai caffè, dai circoli rionali alle chiese »[34]. Così, si ebbe l’impressione di trovarsi in «una qualche cittadina del nostro Mezzogiorno» [35]. Gradualmente, la colonia italiana fu presente anche in altre città marocchine: Fes, Meknes, Tangeri e Rabat. Operai italiani ed imprenditori diedero lustro all’Italia distinguendosi in Marocco con lo svolgimento di un ruolo capitale nella costruzione urbana di Casablanca, Mazagan, Rabat e Safi. Progressivamente, la composizione della Comunità italiana si andò strutturando e alla massa di manovalanza si aggiunsero uomini e donne di cultura.

Negli anni Trenta, il movimento migratorio verso il Marocco divenne più significativo. All’epoca, la comunità godette di una situazione notevolmente favorevole, ebbe parte attiva nello sviluppo del Paese crescendo ed evolvendosi : «All’epoca della costruzione della ferrovia da Oujda (Wajda) a Fez negli anni 1930, si registrò un nuovo afflusso di manodopera italiana nei cantieri» [36]. In quel periodo, la collettività italiana partecipò alacremente all’ammodernamento del Marocco. Infatti, la maggior parte delle imprese di costruzione fu diretta da italiani e malgrado che i finanziamenti fossero francesi, i lavoratori furono quasi tutti italiani [37]. Poco prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale, l’emigrazione italiana divenne più importante. Essa acquisì un carattere economico che ne mutò la composizione sociale, tant’è che parecchi imprenditori italiani gestirono attività industriali (edilizia, costruzioni metalliche, pesca…). Comparvero anche i proprietari di officine meccaniche e automobilistiche, di negozi, di fabbriche di candele e di sapone, di cinematografi, di negozi e stabilimenti vari, di alberghi e trattorie, di imprese di trasporti e di spedizionieri.

La famiglia Moretti

La famiglia Milone, 1930 (Archivio privato)

Nessun’attività fu ignorata agli italiani che non furono dediti esclusivamente ad occupazioni manuali, tecniche o industriali. Nello stesso periodo, Franco Ciarlantini testimoniò anche di una comunità italiana residente nel Marocco del sud intorno al 1935, particolarmente nella regione di Marrakech. Si tratta per lo più di connazionali nati in Tunisia o espatriati nell’Africa settentrionale da parecchi anni. Sono tutti lavoratori, agricoltori e manovali ma molti di loro raggiunsero una posizione socioeconomica di spicco: «I nomi di Zecchetti, d’Anna, Poidomani, Botta, Accardi, sono molto noti in tutta la zona. Il faro di Agadir fu innalzato da un italiano, che lavorò alacremente all’opera» [38]. Secondo le fonti consolari, alcuni anni prima della Seconda guerra mondiale, nel 1936, gli italiani del Marocco erano 15.645: «Nel 1936 vivevano nella parte dell’impero seriffiano sottoposta al protettorato francese, 15.645 italiani ripartiti nel seguente modo: Regione di Casablanca 10.707; regione di Fez 566; regione di Mecnes 670; regione di Udjà 173; regione di Marràchese 577; regione di Rabat 2.143; territorio dell’Atlas Centrale 11; territorio di Draa 1; territorio di Mazagan 110; territorio di Port Lyautey 407; territorio di Safì 205; territorio di Tafilalet 10; territorio di Tazà 65» [39].

Carta d'identità di Elia Motto, 1935

Carta d’identità di Elia Motto, 1938

In quegli anni, opere importanti furono progettate e realizzate dalle imprese edili dirette da italiani. Ne furono testimonianza opere significative ancora oggi esistenti in Marocco come, a titolo di esempio, la raffineria di petrolio Samir a Mohammedia, una cittadina a pochi chilometri da Casablanca e il porto sempre di Mohammedia. Una delle famose imprese edili che realizzò opere in tutto il Marocco fu l’azienda di Moretti-Milone. Essa collaborò alla costruzione delle ferrovie del Regno, di canali, di strade, di fognature, oltre a palazzi amministrativi e privati [40]. Tra gli edifici costruiti da essa, ci fu “il palazzo italiano”: «Nel 1935, nei pressi del porto di Casablanca, innalza l’edificio che ancora oggi viene indicato come Immeuble Moretti, e che in un primo tempo viene soprannominato, più sbrigativamente, Immeuble talieni, il palazzo italiano» [41]. In passato, dall’alto dei suoi undici piani, era il palazzo più alto di tutta l’Africa del Nord. Merita uno specifico accenno lo stupendo Palazzo delle Istituzioni, che fu costruito per il Sultano Moulay Hafid nel 1912 ma mai utilizzato. Nel 1927, il complesso divenne la sede della scuola italiana, già fondata dalla scrittrice Elisa Chimenti nel 1914, e prese il nome di Palazzo Littorio. Dopo il Ventennio Fascista, prese invece il nome di Palazzo delle Istituzioni Italiane [42]. La maggior parte delle imprese di costruzione fu diretta da italiani. Anche i lavoratori furono quasi tutti italiani : « i cantieri sono completamente italiani; falegnami, elettricisti, idraulici, […] macchinari e materiale [sono] italiani» [43].

Elisa Chimenti

Elisa Chimenti

Molti italiani di Marocco «si sono dati alla agricoltura, la quale, per l’abbondanza della terra e la possibilità di ottenere prodotti primaticci, offre assai buone risorse» [44]. Sul piano sociale, si determinarono anche alcuni mutamenti a livello sociale. Si cominciò a convivere con la diversità dei costumi e degli usi, ad assimilare le abitudini di vita e la lingua, non si viveva più la condizione di emigrante in maniera negativa, ma anzi ci si impegnava per rafforzare la propria integrazione. Molti degli emigrati furono di umile livello socioculturale, che in casa non parlavano l’italiano ma «un insolito mosaico di dialetti dove spicca il siculo-calabrese»[45]. È interessante rilevare che, in quell’epoca, quei dialetti, sono stati influenzati dall’introduzione di parole arabe e francesi, sino a generare «deliziosi neologismi di cui si trova ancora oggi qualche traccia nelle famiglie di più antica migrazione» [46].  

La collettività italiana in Marocco all’epoca è forse la più vicina a quella marocchina, costituita prevalentemente da persone che arrivarono in Marocco con il solo scopo di lavorare e migliorare la loro condizione sociale: «quando arrivano, poveri tra i poveri, non era difficile identificarsi con loro, nonostante le distanze culturali e religiose» [47]. La forte coesione costruita dagli italiani di Marocco con i marocchini e i legami intrecciati fra gli emigrati e il Paese di accoglienza spiegano la simpatia che gli italiani ancora riscuotono presso i marocchini: «hanno una qualità rilevante […], non si vergognano di farsi vedere a lavorare con le proprie mani accanto ad una popolazione nativa. Questo è autentico egualitarismo» [48]. Tale testimonianza pone l’accento sul fatto che la comunità italiana era molto vicina a quella marocchina, perché entrambe furono costituite prevalentemente da persone povere e umili; gli italiani fuggirono dalla miseria e arrivarono in Marocco senza nessuna velleità coloniale, ma con l’unico obiettivo di lavorare. È ciò che li distinse dagli altri europei [49].

Chiesa di sant'Antonio da Padova, Casablanca, 1950

Chiesa di sant’Antonio da Padova, Casablanca, 1950 (Archivio privato)

L’Italia intellettuale ebbe pure in Marocco i suoi rappresentanti, che in nulla furono inferiori ai professionisti di altre cittadinanze: «Tali sono numerosi medici fra i più reputati, farmacisti distinti, sacerdoti operosi, ingegneri e architetti autori di importanti costruzioni, qualche avvocato, alcuni laureati in scienze economiche e vari impiegati bancari»[50]. Pertanto, a spiccare nei più disparati mestieri, furono proprio i nomi italiani. Tra i costruttori in gamba sono ancora noti i nomi di Chisari, Italiano, Taormina e Alessandra, ci furono poi gli ebanisti come Lombardo e Pistolesi, gli artigiani come Specioso. Gli architetti italiani celeberrimi furono in particolare Domenico Basciano, Raffaele Moretti, Manughera e Privitera [51].

Per ciò che riguarda le istituzioni italiane, le comunità italiane fondarono le loro scuole e si organizzarono in associazioni. Fra le più importanti, si annoveravano la Camera di Commercio, il «Circolo degli Italiani», la «Dante Alighieri», la Scuola italiana di Casablanca, la Scuola della Casa d’Italia e la Camera di Commercio fondata nel 1916 a cui si deve la pubblicazione mensile della «Rivista d’economia italo-marocchina» [52]. Questo organismo nacque con lo scopo di incrementare gli scambi commerciali fra i due Paesi. Il Circolo degli Italiani di Casablanca fu la più vecchia istituzione italiana a Casablanca. Nacque nel 1928 con il nome di «Circolo Cattolico Italiano-Società di Mutuo Soccorso»[53]. Subito dopo la sua fondazione, furono costruiti i locali, finanziati con una considerevole partecipazione popolare dalla collettività italiana di Casablanca dell’epoca. Il Circolo specializzò la sua attività nel campo sportivo, specialmente nel calcio e nel ciclismo dove conseguì significativi successi tanto in ambito locale quanto nel Marocco francese. Negli anni che videro una comunità italiana particolarmente cospicua, il «Circolo degli Italiani» fu «il luogo di ritrovo per eccellenza»[54].

Scuola italiana , Tangeri, 1953

Scuola italiana, Tangeri, 1953

La «Dante Alighieri» rappresentò un punto d’incontro culturale per gli italiani, che vi si recarono in occasione di esposizioni di quadri, balli, concerti, proiezioni di film, spettacoli teatrali e conferenze. Prima della guerra, essa costituì una filodrammatica, molto seguita dalla comunità italiana, che raggiunse l’apice della sua attività a partire dalla fine degli anni Cinquanta, quando mise in scena opere quali Serenata al Vento (1958) e il Capitano serio (1961) [55]. Il primo Comitato della Dante Alighieri venne costituito a Casablanca nel 1932. Le sue attività molto articolate erano principalmente l’attivazione di corsi di lingua italiana frequentati da studenti stranieri, per lo più marocchini, e la promozione, mediante manifestazioni di notevole spessore culturale e varie iniziative, della cultura italiana: «La Dante Alighieri tiene ogni anno un corso di lingua italiana per stranieri e un ciclo di conferenze e di concerti, cui partecipa l’elemento cittadino più distinto» [56]. L’iniziativa dovette soccombere al dilagare della guerra. Nel 1951, un secondo tentativo fallì e l’Associazione poté iniziare a svolgere la sua attività in modo duraturo e apprezzabile solo a partire dal 1956 .

smartUn’altra istituzione di spicco fu la «Casa degli italiani». Essa rifletteva palesemente l’unità degli italiani: «È commovente vedere la Casa degli italiani sempre gremita di uomini e donne di tutte le età e condizioni! Dal fanciullo al vecchio, dal possidente facoltoso al disoccupato assistito, tutti, dimentichi di ogni differenza sociale, rievocano i fatti d’Italia e inneggiano a un’unica idea»[57]. Il Giampietro descrive l’associazione «Il Dopolavoro» suddetta in questi termini: «Esiste il Dopolavoro, con tutte le attività che gli sono proprie, cominciando da quella filodrammatica. Nel quartiere Maarif, popolato da molti italiani, esso si è costruito, con mezzi propri, una sede ampia e confortevole» [58]. Un’altra associazione sopramenzionata fu quella degli ex combattenti che «si assume l’incarico di curare le tombe italiane nel cimitero cristiano di Casablanca» [59]. La Camera di Commercio, fondata in Marocco nel 1916 mirava a promuovere i prodotti made in Italy e a facilitare la partecipazione dell’imprenditoria marocchina alle manifestazioni fieristiche in Italia e in Marocco. Si organizzano molte attività culturali e ricreative: «Alla fine degli anni Cinquanta, accanto alla vivace attività della filodrammatica, vengono istituiti corsi di danza e di dizione»[60]. Un giornale locale, nel fare la cronaca di una manifestazione patriottica italiana svoltasi a Casablanca, iniziò così: «Gli italiani viventi in questa città sono raggruppati in quattro associazioni: il Fascio, il Dopolavoro, la Combattenti e la Dante Alighieri» [61]. Riguardo a queste associazioni concentrate a Casablanca, Michele Giampietro affermò che esse mirarono tutte allo stesso obiettivo: «l’italianità dei nostri espatriati»[62].

Scuola italiana E. Mattei, Casablanca

Scuola italiana E. Mattei, Casablanca

Sono anche presenti altre istituzioni in altre città marocchine come il Circolo degli Italiani a Marrakesh, l’Ospedale Italiano a Tangeri, la «Casa degli Italiani» di Mazagan e la scuola elementare di Rabat. Le prime scuole italiane pubbliche in Marocco furono quelle di Tangeri e Casablanca, nate rispettivamente nel 1914 e nel 1920. Erano strutture importanti che attraversarono fasi alterne, ineluttabilmente condizionate dagli eventi bellici e dai flussi migratori e che costituirono un fondamentale punto di riferimento per la collettività italiana [63]. Quella di Casablanca cominciò ad operare negli anni venti e fu destinata solamente agli allievi di cittadinanza italiana. Con il rilevante accrescimento del numero di studenti, vennero inaugurate delle sezioni della scuola primaria e del ginnasio. La scuola italiana di Tangeri nacque nel 1914 grazie a Elisa Chimenti e sua madre, Maria Ruggio: «Nel 1914, le due donne fondano, presso la loro abitazione di rue Benchimol, nel Petit Socco, la prima scuola italiana, per amici e vicini che desiderano imparare l’italiano ; in un secondo tempo, […] è frequentata da allievi cristiani, musulmani e israeliti» [64].

L’opera più eclettica fu senz’altro quella della Chimenti la quale «prosegue la sua opera didattica, in qualità di docente di arabo e di italiano per gli stranieri, per ben cinquant’anni»[65]. Nella scuola, si studiarono contemporaneamente la lingua francese, araba e spagnola e gli studenti impararono anche la dattilografia. Vennero inoltre proposti corsi di violino, di pianoforte e di tennis. Nel 1930, furono istituiti un convitto maschile ed un altro femminile, il che permise di accogliere alunni da tutto il Marocco e perfino dalla Spagna meridionale [66]. Insieme alle due scuole pubbliche sopraccitate, ci furono anche Scuole Regie a Rabat e a Casablanca e scuole private sparse sul territorio marocchino [67]. Nel 1933, dato l’incremento del numero degli italiani presenti in Marocco, venne fondata la scuola della Casa d’Italia a Casablanca che comprendeva la scuola elementare e media, mentre nella città internazionale di Tangeri fu fondato un liceo italiano. Le scuole italiane non ebbero vita facile. Nel 1942, a causa della Seconda guerra mondiale, vennero chiuse dai francesi tutte le istituzioni scolastiche italiane in Marocco, compresa la scuola di Casablanca ed i locali furono confiscati per motivi militari. La colonia italiana rimase dunque senza scuole dal 1940 al 1958 e fu obbligata a rivolgersi alle scuole francesi [68].

Pannello della raffineria della Samir a Mohammedia, sotto la direzione della SNAM, 1962 (Archivio privato)

Pannello della raffineria della Samir a Mohammedia, sotto la direzione della SNAM, 1962 (Archivio privato)

La comunità fu influenzata da diversi fattori storici, politici e sociali che determinarono cambiamenti anche profondi al suo interno. In particolar modo, lo scoppio della Seconda guerra mondiale stravolge tutto e, per la comunità italiana, niente fu più come prima. Il numero della comunità iniziò a conoscere un crescente calo. La guerra scombussolò tutto segnando la fine del periodo di floridezza della comunità, che subì profondi cambiamenti a livello sia demografico che culturale. Ogni guerra porta con sé sofferenza e degrado umani. Dovunque ci si trovi, bisogna fare i conti con le scelte del proprio governo. Amicizia, fiducia e rispetto passano in secondo piano e improvvisamente ci si scopre avversari od alleati unicamente sulla base di coalizioni decise da governanti. È quello che successe agli italiani in Marocco all’ingresso dell’Italia nella guerra. L’Italia e la Francia erano nemiche e così gli italiani di Marocco si trovarono all’improvviso nemici dei loro amici, dei loro vicini di casa, e dei loro datori di lavoro. Messi di fronte ad una scelta non facile: assumere la nazionalità francese, conformandosi alla legge dell’ ius soli, in virtù della quale si è cittadini del Paese in cui si nasce (quindi chi nacque nel Marocco durante il Protettorato è francese, se lo desidera) o restare italiani e finire nei campi di concentramento come quelli di Casablanca, di Sidi Lamine che si trova a circa duecento chilometri da Casablanca e di Ain Guenfouda, vicino a Oujda [69].

Tanti accettarono di naturalizzarsi francesi evitando la reclusione, altri non si piegarono a tale compromesso nonostante i vantaggi che ne avrebbero tratto e furono imprigionati dai francesi che li chiamarono «sales macaronis», sporchi maccheroni: «le relazioni ostili che intercorrevano tra l’Italia e la Francia provocarono la carcerazione di parecchi italiani residenti in Marocco visto che, qualora non avessero optato per la nazionalità francese, sarebbero finiti nei campi di concentramento»[70]. Inoltre, visto che l’Italia fascista di Mussolini fu l’alleata della Germania nazista, membri della comunità italiana furono sospettati di spionaggio e, di conseguenza, molti italiani subirono le famigerate requisizioni di guerra, che li privarono di tutti i loro beni, e alcuni vennero internati nei campi di prigionia: il campo di Casablanca fu per lo più riservato a prigionieri militari, mentre quelli civili furono dislocati su tutto il territorio marocchino, particolarmente a sud [71].

Uno dei campi di detenzione nel quale prigionieri di guerra italiani furono internati fu quello di Mechra Benabbou. Venne chiamato «il cimitero dei vivi» per le condizioni di vita squallide e disumane in cui si trovavano i detenuti:

«soldati francesi e marocchini spogliano i prigionieri di tutto, persino degli occhiali di vista, per poi ridare loro solo delle scarpe vecchie e logore, e spesso due dello stesso piede. Il campo di Mechra Benabbou è un deserto circondato da un filo spinato dentro il quale lavorano i prigionieri italiani. […] La prigionia è caratterizzata da una totale assenza di assistenza medica, oltre che dalla più grande incuranza per le necessità basilari dell’essere umano. […] Il pane destinato ai prigionieri viene lasciato muffire in sacchi di iuta, per essere poi distribuito molto tempo dopo, avariato, quando la fame spinge molti a nutrirsene ugualmente, per poi contorcersi dal dolore, tra le risate sguaiate dei carcerieri ».[72] […] Inoltre, « tra colpi di frustino, bastonate e calci di fucile che si abbattono sulla schiena dei poveri malcapitati, i prigionieri sono costretti a lavorare» [73].
Palazzo delle Istituzioni italiane a Tangeri

Palazzo delle Istituzioni italiane a Tangeri

Non solo gli uomini hanno subìto gli orrori della guerra. Durante la prigionia dei loro mariti e dei loro figli, le donne soffrirono e si doverono ingegnare per sopravvivere ponendo a frutto tutte le loro capacità come quelle relative al cucire: «Notoria era, ad esempio, l’abilità delle donne italiane nel cucito, e molte erano infatti quelle che confezionavano corredi; altre i loro corredi li smantellarono mercanteggiandone pezzo per pezzo, altre ancora ne vendevano le lenzuola per la sepoltura di musulmani ed ebrei»[74]. Negli anni seguenti alla fine della Grande Guerra, si assistette ad un graduale ripopolamento della Comunità italiana, che nel 1955 «toccò circa le 17.500 unità con 14.500 solo a Casablanca »[75]. Nell’estate del 1955, la stabilità interna del Marocco, iniziò a dare i primi segni di cedimento. La formazione nel dicembre del 1955 del primo governo marocchino, permise lo sviluppo di negoziati fra il Marocco e la Francia per il conseguimento dell’indipendenza, che fu raggiunta il 2 marzo del 1956, seguita dopo dalla cessazione del protettorato spagnolo nel Marocco settentrionale proclamata il 7 aprile del 1956.

In seguito alla proclamazione dell’indipendenza del Marocco dalla Francia nel 1956, molti italo-marocchini lasciarono il Marocco. La loro destinazione fu il Paese transalpino o l’Italia. La decolonizzazione del Marocco rappresentò un altro momento di crisi per la storia della Comunità italiana di Marocco. Il colpo di grazia arrivò con il decreto di maroccanizzazione del 2 marzo 1973 che investì la comunità italiana. In virtù di quel decreto attinente alle attività industriali e commerciali, lo Stato marocchino impose ad ogni straniero che possedeva un’attività commerciale o industriale di trasformarla in Società per Azioni, cedendo 51 parti del capitale a un marocchino entro il 31 maggio 1974 e restare con il 49% di esso [76]. A seguito di questa maroccanizzazione furono espropriati i terreni agricoli degli italiani perché, secondo le autorità, erano stati tolti ai marocchini, ma non era sempre vero: «alcuni terreni erano di loro proprietà, ma altri erano più o meno abbandonati, les lots de colonisation, i lotti di colonizzazione»[77] .

Da quanto detto, il processo di nazionalizzazione economica e culturale, attuato dallo Stato marocchino, che segna il suo apice negli anni Settanta, provocò la dissoluzione della comunità italiana che ha dato molto al Marocco.

Dialoghi Mediterranei, n. 52, novembre 2021
Note
[1] M.Giampietro, “Gli italiani nel Marocco”, Estratto dal periodico mensile “Africa” della Società africana d’Italia, A. 58, Gennaio-giugno (1940): 3-4.
[2] R.Y. Catalano, Schegge di memoria: gli italiani in Marocco, Mohammedia: Senso Unico, stampa 2009 (Bergamo):51.
[3] Catalano, cit: 21.
[4] Ivi: 18.
[5] D. Natili, Una parabola migratoria : fisionomie e percorsi delle collettività italiane in Africa, Viterbo : Sette città, 2009: 31.
[6] Ibidem.
[7] Natili, cit : 31.
[8] Catalano, cit: 21.
[9] M.G. Cassa, “Italiani in Marocco. Ante 1940”, Africa: Rivista trimestrale di studi e documentazione dell’Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente, Anno 8, n.6., Roma: Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente (IsIAO), (1953): 172.
[10] P. Baldocci, L’Italia e la prima crisi marocchina, in Rivista di studi politici internazionali, Vol.24, Firenze: Maria Grazia Melchionni, (1957), n. 2 : 244.
[11] Catalano, cit : 29.
[12] Baldocci, cit : 245.
[13] Ivi : 246.
[14] Catalano, cit : 79.
[15] Ivi : 83.
[16] Ivi: 22.
[17]  F. Mezzalama, “La missione del primo rappresentante diplomatico dell’Italia unita in Marocco nel racconto di De Amicis”, in G. Fabiani (a cura di), IDOCS; in collaborazione con M. Basevi e B. Donovan; L’emigrazione italiana nel Mediterraneo: esperienze di convivenze interculturali, Milano: AICOS, 2000: 36.
[18] Catalano, cit: 86.
[19] Ibidem.
[20] Ivi: 22.
[21] Ivi : 23.
[22] Ivi: 24.
[23] Natili, cit : 43.
[24] Ivi : 32.
[25] V. Briani, Il lavoro italiano in Africa, Roma: Tip. riservata del Ministero degli affari esteri, 1980: 75.
[26] Cassa, cit: 172.
[27] F. Cresti, Comunità proletarie italiane nell’Africa mediterranea tra XIX secolo e periodo fascista, in «Mediterraneo-Ricerche Storiche», Anno V, (2008): 202.
[28] Catalano, cit. : 29.
[29] Cresti, cit: 202.
[30] Cassa, cit : 172.
[31] Catalano, cit. : 29.
[32] Cassa, cit : 172.
[33]  Briani, cit: 78.
[34] Catalano, cit. 95.
[35] Ivi: 97.
[36] Cresti, cit: 203.
[37] Catalano, cit: 31.
[38] Ibidem.
[39] Giampietro, cit: 3.
[40] Catalano, cit : 117.
[41] Ibidem.
[42] Ivi: 59.
[43] Ivi: 174.
[44] Giampietro, cit: 4.
[45] Catalano, cit: 64.
[46] Catalano, cit: 33.
[47] Ivi: 130.
[48] Ivi: 33.
[49] Ibidem.
[50] Giampietro, cit: 4.
[51] Catalano, cit: 51.
[52] Per quanto riguarda la stampa, un giornale e una rivista italiani usciti in Marocco negli anni Trenta vennero citati da Michele Giampietro: «l’Eco d’Italia» fu un giornale che esce a Rabat a metà degli anni Trenta e la «Rivista d’economia italo-marocchina» venne pubblicata dalla Camera di Commercio italiana di Casablanca fino alla fine degli anni Trenta.
[53] Catalano, cit: 183.
[54] Ivi: 51.
[55] Ibidem.
[56] Giampietro, cit: 5.
[57] Ibidem.
[58] Ibidem.
[59] Catalano, cit: 33.
[60] Ibidem.
[61] Giampietro, cit: 4.
[62] Ibidem.
[63] Catalano, cit: 44.
[64] Ivi: 105.
[65] Ibidem.
[66] Ivi: 57.
[67] Ivi: 45.
[68] A. Boussetta, Gli italiani e l’italiano in Marocco, 2006: 3.
https://www.academia.edu/42274022/Gli_italiani_e_litaliano_in_Marocco
[69] Catalano, cit: 147.
[70] Boussetta, cit: 2.
[71] Catalano, cit: 38.
[72] Ivi: 39.
[73] Ivi: 41.
[74] Ivi: 130.
[75] Boussetta, cit: 3.
[76] Catalano, cit: 150.
[77] Ivi: 175.
Riferimenti bibliografici
Baldocci P., L’Italia e la prima crisi marocchina, Rivista di studi politici internazionali, Vol.24, Firenze : Maria Grazia Melchionni, n. 2 (1957).
Briani V., Il lavoro italiano in Africa, Roma: Tip. riservata del Ministero degli affari esteri, 1980.
Cassa, M.G., “Italiani in Marocco. Ante 1940”, in «Africa. Rivista trimestrale di studi e documentazione dell’Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente», Anno 8, n.6., Roma: Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente (IsIAO), (1953).
Catalano, R.Y., Schegge di memoria: gli italiani in Marocco, Mohammedia: Senso Unico, stampa 2009 (Bergamo)
Cresti F., “Comunità proletarie italiane nell’Africa mediterranea tra XIX secolo e periodo fascista”, in «Mediterraneo-Ricerche Storiche», Anno V, (2008).
Giampietro, M., “Gli italiani nel Marocco”, Estratto dal periodico mensile «Africa» della Società africana d’Italia, A. 58, gennaio-giugno (1940).
Mezzalama F., La missione del primo rappresentante diplomatico dell’Italia unita in Marocco nel racconto di De Amicis, in G. Fabiani (a cura di), IDOCS; in collaborazione con M. Basevi e B. Donovan; L’emigrazione italiana nel Mediterraneo: esperienze di convivenze interculturali, Milano: AICOS, 2000.
Natili, D., Una parabola migratoria : fisionomie e percorsi delle collettività italiane in Africa, Viterbo: Sette città, 2009.
Sitografia
A.Boussetta, Gli italiani e l’italiano in Marocco, 2006:
https://www.academia.edu/42274022/Gli_italiani_e_litaliano_in_Marocco

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Nabil Zaher, nato a Cartagine nel 1982, docente universitario di Lingua, civiltà e Lettere italiane presso l’Università di Monastir (Istituto Superiore di Lingue applicate di Moknine) dal 2007. Ha insegnato anche all’Università di Messina come professore ospite del Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne nel 2014 e nel 2015. Ha pubblicato diversi articoli in riviste culturali tra cui “Amaltea” e “Leukanikà”.  Nel 2015, è stato insignito del premio letterario nazionale «Carlo Levi», XVIII edizione 2015 ad Aliano per la sua tesi di Dottorato discussa presso la Facoltà di Lettere, delle Arti e delle Umanità della Manouba (Tunisia) ed intitolata «Riflessi del Mezzogiorno nell’opera narrativa di Carlo Levi».

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